Dal 2010 l’ISTAT, insieme al CNEL, elabora un Rapporto annuale volto a misurare il livello del Benessere Equo e Sostenibile (BES) e a valutare il progresso della società non soltanto sotto il profilo economico, ma anche sociale e ambientale. Il Rapporto si fonda su un quadro informativo statistico articolato in 12 domini (salute, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, ambiente, qualità dei servizi) e 152 indicatori. Il Rapporto rappresenta una miniera preziosa di informazioni e permette di realizzare comparazioni a livello territoriale. Non solo.
Molti indicatori (38 su 152) sono messi a confronto con la media dei 27 Paesi dell’Unione europea. Come si evince dal Rapporto 2023 (reso pubblico nell’aprile del corrente anno), l’Italia presenta diverse criticità. In particolar modo, analizzando il dominio relativo all’istruzione e alla formazione, il divario con l’Europa è evidente; la quota di giovani di 15-29 anni che non stanno svolgendo alcun corso di istruzione e formazione e non sono occupati (NEET) è pari al 16,1% e, nonostante il divario si sia leggermente ridotto nel 2023, resta più alta di quella media dell’Ue (che è dell’11,2%). Inoltre, nel nostro Paese, solo il 30,6% delle persone di 25-34 anni ha raggiunto un livello di istruzione terziario contro il 43,1% della media Ue; anche la percentuale di persone di 25-64 anni che hanno conseguito almeno il diploma è significativamente più bassa (65,5% in Italia, rispetto al 79,8% dei Paesi dell’Ue27). Sul fronte delle competenze digitali, tra le persone di 16-74 anni che hanno usato Internet negli ultimi 3 mesi, ha competenze digitali almeno di base il 45,9% (mentre la media europea supera il 55%). Maggiore è anche la quota di giovani di 18-24 anni che escono precocemente dal sistema di istruzione e formazione: circa 2 punti percentuali in più nel 2022 rispetto al valore medio europeo (9,6%). Dai dati emerge, comunque, un discreto miglioramento in termini prospettici e risulta confermato il divario tra Centro-nord e Mezzogiorno.
Al di là dei “numeri”, che rivestono un ruolo cruciale per i decisori pubblici, appare necessaria una più approfondita riflessione sul ruolo della scuola (primaria e secondaria di I e II livello), quello che ha e che soprattutto dovrebbe avere.
I guasti del sistema scolastico italiano sono ben noti: abbandoni crescenti in particolar modo da parte dei giovani provenienti da famiglie con reddito medio-basso che hanno, di fatto, reso la scuola “una macchina della disuguaglianza” (Mastracola P., Ricolfi L., Il danno scolastico, La Nave di Teseo, 2021), professori sempre più demotivati, anche a causa delle basse retribuzioni, e ingabbiati da programmi rigidi e da una burocrazia soffocante, un permissivismo educativo che ha condotto alla scomparsa delle bocciature, un nozionismo eccessivamente pedissequo che guarda in modo superficiale alla vita del futuro cittadino. E, ancora, come evidenziato nel Manifesto per la nuova scuola (marzo 2020), l’invasione dei progetti, la selva delle valutazioni e delle certificazioni, la digitalizzazione selvaggia della didattica, esasperata dalla crisi pandemica che ha spinto verso la “didattica a distanza”.
Si è così assistito a un progressivo peggioramento dell’intero sistema scolastico; al riguardo mirabili appaiono alcuni ricordi relativi ai primi anni’60: “uscivamo preparati, dalle medie. Difficile ora riuscire a spiegare esattamente perché. Una delle ragioni mi sembra fosse la qualità degli insegnanti, la loro preparazione ma anche la severità…. l’altra ragione, altrettanto importante, era la qualità delle materie… ma c’è una terza ragione, meno ovvia, più nascosta: il modo di studiare. Si studiava scrivendo, alle medie che ho fatto io. Erano ore di lavoro, a disegnare e a colorare.” (Mastracola P., Ricolfi L., op. citata). Alla riforma delle scuole medie del 1962 si è poi aggiunta, nel 2000, la riforma Berlinguer che ha cambiato radicalmente la sostanza della scuola superiore la quale, a seguito dell’introduzione dei progetti extracurriculari, dei test di valutazione e del diritto al successo formativo, “diventava un’impresa, si agganciava al mondo del lavoro o, meglio, tentava, goffamente, di assumere i valori e i criteri della produzione” (P. Mastracola, L.Ricolfi , op. cit.).
Questi guasti possono essere, almeno parzialmente, aggiustati? Interessanti alcune proposte avanzate da un gruppo di docenti del gruppo “La nostra scuola” del Manifesto per la nuova scuola. Tra queste: la necessità di investire nella formazione e nel reclutamento degli insegnanti (“solo degli autentici esperti possono trasmettere agli studenti la passione per il sapere e per le singole discipline la motivazione e la propensione all’insegnamento, alla condivisione culturale e alla relazione con le persone in crescita)”; l’eliminazione dei percorsi di “alternanza scuola-lavoro” e dei test INVALSI; il valore inestimabile della lezione frontale; il coinvolgimento dei professori nella realizzazione di riforme finora attuate da burocrati con scarsa conoscenza delle problematiche della scuola; la diminuzione del numero di studenti per classe in modo che gli insegnanti possano davvero dedicare tempo e attenzione alle esigenze di ogni studente, etc.. Auspicabile, anche, la riduzione degli strumenti digitali (che si sono rivelati fortemente dannosi soprattutto per i più piccoli) e il ritorno, come evidenziato in un recente Rapporto della Fondazione Luigi Einaudi, al Valore imprescindibile di carta e penna nei processi di apprendimento.
Non si può infine non fare riferimento alla necessità di aumentare le retribuzioni degli insegnanti (in generale la modesta dinamica dei salari rappresenta un problema strutturale per il nostro Paese) e di realizzare incentivi monetari a loro favore; al riguardo, il Governo, nell’ultima Legge di Bilancio ha stanziato, per il contratto dei dipendenti della scuola, poco meno di 3 miliardi di euro e, nell’ambito del Programma Operativo Nazionale (PON) che scade nel 2027, circa un miliardo di euro in più per finanziare molte iniziative tra cui il pagamento dei docenti per iniziative extracurriculari di potenziamento della preparazione degli studenti e di personalizzazione della didattica (per un’analisi relativa ad alcune recenti iniziative a favore del sistema scolastico, su cui non è possibile però, al momento, fare alcuna valutazione, si rinvia a G. Valditara, La scuola dei talenti, Piemme, 2024).
Quali dovrebbero essere le finalità del sistema scolastico?
Secondo Tiziano Treu (Verso l’eccellenza inclusiva nell’istruzione e nella formazione professionale, Menabò, n. 215, maggio 2024), il sistema dell’istruzione dovrebbe prevalentemente “garantire l’accesso universale all’apprendimento permanente, in particolare alle persone più svantaggiate”. Cioè: come si può indirizzare ogni essere umano verso una concezione della vita come apprendimento permanente? A nostro parere unendo istruzione e educazione, nel porgere in modo creativo ogni materia, utilizzando anche le materie artistiche, e guardando le attitudini, la personalità, l’età evolutiva dell’alunno, rendendolo così partecipe e conscio di un sapere sempre in divenire, mai concluso (al riguardo si rinvia alle molteplici e originali riflessioni di K. Robinson, tra cui Fuori di testa, Perché la scuola uccide la creatività, Edizioni Centro Studi Erickson, 2017). Concordemente con il citato Manifesto per la nuova scuola, “l’idea che la scuola possa essere incentrata sulla semplice acquisizione di competenze è profondamente sbagliata, sia perché applica a un ambito, quello scolastico, categorie nate in tutt’altro ambito, quello cioè dell’azienda e della produttività lavorativa, sia perché esclude appunto la dimensione integralmente umana, centrale nella scuola e nei processi lunghi e non lineari dell’apprendimento e della crescita. La scuola dovrebbe, invece, “svolgere un’azione maieutica, che sappia socraticamente tirar fuori il meglio che ogni giovane possiede dentro di sé, lo sappia valorizzare e lo sappia orientare verso le scelte formative future il più possibile coerenti con la sua potenzialità, per la piena realizzazione della persona anche nella prospettiva di un soddisfacente inserimento nel mondo del lavoro” (G. Valditara , op. cit.).
Questo non significa disconoscere l’importanza delle competenze tenendo conto soprattutto dell’elevato disallineamento tra la domanda e l’offerta di lavoro attribuibile prevalentemente agli effetti della Rivoluzione tecnologica 4.0 in atto. Ciò che intendiamo sottolineare è che la scuola non dovrebbe avere il compito di creare competenze bensì, prevalentemente, quella di fare emergere le attitudini individuali e le doti (spesso latenti) dei propri studenti e di generare un impulso verso una migliore conoscenza e comprensione del sistema economico e sociale.
Le competenze, soggette tra l’altro a una rapida obsolescenza, riguardano il passato e il presente mentre la formazione delle attitudini è un investimento per il futuro che appare sempre più imprevedibile e incerto anche riguardo alle competenze tecniche che saranno specificatamente richieste dalle imprese e che, nel presente, non sono nemmeno prefigurabili. Perché, quindi, il raggiungimento dei due obiettivi suindicati da parte del sistema scolastico è importante?
In primo luogo, riuscire ad accogliere totalmente il giovane con tutte le sue potenzialità sviluppa il rispetto, il sacro dovere e diritto di donare il meglio di sé in un futuro progetto di vita consapevole e coerente; inoltre la possibilità di mettere a frutto le proprie capacità ha effetti positivi su tutta la comunità (la scoperta delle cosiddette “soft skills”, di cui si sottolinea l’estrema importanza all’interno del presente scenario, complesso e tecnologico, appare come una necessità tardiva – su cui molte imprese di medio-grandi dimensioni stanno investendo con le proprie Academy – imputabile prevalentemente al fatto che la scuola raramente riesce a fare emergere e a sviluppare).
Un proficuo inserimento dei giovani all’interno del sistema giuridico, economico e sociale dovrebbe essere realizzato attraverso una “lezione continua di vita” (fondamentale appare, al riguardo, il ruolo dei genitori, come sottolineato del resto dall’articolo 30 della Costituzione secondo il quale “è dovere e diritto dei genitori, mantenere, istruire e educare i figli anche se nati fuori del matrimonio”). Appare fondamentale quindi realizzare una scuola, fondata sulla conoscenza dell’uomo, di quel che è stato, è e sarà, sull’autorevolezza pregna dell’importanza del ruolo che riveste, in cui il merito, l’equità, il rispetto, la gratitudine, la capacità di immedesimazione nell’altro, la volontà di vivere per e con gli altri, accompagnino sempre le azioni individuali e si trasmettano così, come forza costruttiva, al futuro cittadino.
In campo economico un esempio concreto è fornito da una recente iniziativa dei Musei d’impresa (l’Associazione degli archivi e dei musei d’impresa italiani) che ha coinvolto 40 scuole e oltre 30 imprese in 12 regioni finalizzata a far conoscere a poco più di 1000 studenti la storia dell’industria italiana e i suoi valori. Il progetto ha inteso “contribuire a creare un ponte tra le nuove generazioni e le eccellenze storiche della manifattura Made in Italy e a raccontare ai giovani la bellezza e l’importanza dell’intraprendenza e della creatività” (C. Tucci, Mille studenti entrano nei musei d’impresa per conoscere i valori dell’industria italiana, Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2024). Questa iniziativa (una seconda è già in programma nell’anno scolastico 2024-25) è importante e va nella direzione prima evidenziata; grazie ad essa infatti il giovane può, da una parte, capire di avere determinate capacità e, in questo caso, “scoprire” di avere una propensione al rischio e all’imprenditorialità che può successivamente provare a concretizzare e, dall’altra, acquisire una maggiore conoscenza e comprensione del mondo dell’impresa e, più in generale, del sistema economico e sociale spingendolo verso un comportamento più in armonia con le esigenze e i “bisogni” degli altri.
* da MENABÒ N. 217, 15 GIUGNO 2024