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Legge di bilancio cercasi

Il CdM ha approvato formalmente, assieme al DPB, il DDL bilancio il 16 ottobre scorso, ma solo nella serata del 30 ottobre il testo è arrivato al Senato. Si è assistito nei giorni passati dal 16 ottobre a un nuovo episodio della destrutturazione della parte seconda della nostra Costituzione, in particolare di quegli articoli che riguardano la formazione delle leggi e i rapporti tra Governo e Parlamento. Il 16 ottobre il Presidente del Consiglio ha invitato i partiti della maggioranza a non presentare emendamenti al DDL in Parlamento e i partiti li hanno presentati fuori del Parlamento chiedendo, e ottenendo, modifiche continue alle bozze del testo del DDL giunto in Senato sensibilmente diverso da com’era uscito dal CdM il 16 ottobre. Galateo costituzionale avrebbe richiesto un nuovo passaggio in CdM, ma non c’è stato, con la scusa che i saldi di bilancio non sono variati.

Forse prima di discutere di elezione diretta del premier bisognerebbe discutere di come affrontare questa deriva dovuta non certo all’attuale governo, ma di cui molti portano la responsabilità negli ultimi trent’anni di storia repubblicana.

Venendo al merito della legge di bilancio va inquadrata naturalmente in ciò che era scritto nella NaDEF e nel DPB. In quei documenti il governo prende atto della difficile situazione economica in cui si trova il paese, della caduta del PIL nel secondo trimestre registrata dall’ISTAT, delle negative prospettive dell’economia mondiale e dei riflessi anch’essi negativi che le politiche monetarie restrittive delle banche centrali hanno sull’economia mondiale, europea e italiana.

Rivede quindi al ribasso le previsioni di crescita, sia pure in modo più ottimistico di altre fonti nazionali e internazionali, e di conseguenza verifica che gli indicatori di finanza pubblica sono peggiori di quanto prospettato nel DEF di aprile e non lasciano spazio per misure espansive da inserire nella manovra per il 2024 che soddisfino contemporaneamente i proclami elettorali del CD, i recenti impegni del governo (taglio del cuneo fiscale), le regole europee.

Impossibile per un governo Meloni in cerca di legittimazione mettere in discussione le regole europee. Del tutto evidente nel DPB appare la volontà del governo di non “rompere” con la Commissione Europea. Si afferma, infatti, che la politica economica attuata “è coerente con gli orientamenti espressi dalla Commissione europea” anche alla luce della disattivazione della clausola di salvaguardia del Patto di Stabilità. 

Impossibile poi per il CD mettere in discussione alcune “conquiste” per trovare risorse come eliminare la flat tax degli autonomi o riportare nell’imponibile IRPEF alcuni redditi.

Giorgetti opta così per un aumento di deficit nel triennio 2023/24 per avere essenzialmente le risorse che gli consentono di rinnovare il taglio del cuneo nel 2024. Con le risorse così ottenute il governo prevede un tasso di crescita del PIL reale nel 2024 dell’1,2%, dell’1,4% nel 2025. 

Le prime previsioni indipendenti uscite dopo la NaDEF non confermano le previsioni del Governo. REF, Ernest&Young, Confindustria prevedono, infatti, un tasso di crescita del PIL nel 2024 inferiore all’1%. Siamo nel campo delle previsioni, tutte tra l’altro molto aleatorie come ammettono gli stessi documenti governativi, data la situazione di crisi a livello mondiale con le possibili ripercussioni economiche.

E’ una manovra che non si può definire espansiva perché le misure principali sono finanziate in deficit solo per il 2024. Rassicura solo in parte la Commissione Europea perché rinvia la discesa del deficit sotto il 3% al 2026 e di fatto, interrompe la discesa del rapporto deficit/Pil. La si può definire una manovra che corre sul filo dell’equilibrio cercando di non scontentare nessuno ma senza mostrare un progetto di crescita per il paese. Se poi nel leggere le tabelle del DPB si dà un’occhiata agli anni successivi al 2024 e ai deficit programmatici riportati si resta molto perplessi. 

I principali interventi operati nel 2024, taglio del cuneo, l’unificazione degli scaglioni Irpef, gli aiuti alle imprese sono finanziati solo per il 2024. Il deficit 2025 e 2026 non considera il ripetersi di queste misure; se lo facesse sarebbe sensibilmente più alto, ma è difficile, se non impossibile, pensare che queste misure possano non essere rifinanziate. 

Dove troverà l’anno prossimo il governo, le risorse per finanziare questi provvedimenti? Difficile immaginare una crescita maggiore di quella, già ottimistica, prevista nella NaDEF. Un nuovo extradeficit? Il vice ministro Leo fa affidamento al progressivo svuotamento del tax gap di 80/100 mld attraverso il concordato preventivo biennale previsto nella legge delega fiscale. Ammesso e non concesso che questo strumento funzioni, non offrirà certo le risorse necessarie per il 2025, quindi tra un anno, con la prossima legge di bilancio, il problema di trovare 10 mld si presenterà in tutta la sua complessità.

Altra annotazione. Il DPB prevede una spending rewiew crescente tra il 2024 e il 2026 (la Revisione e rimodulazione della spesa poco più di 2 mld nel 2024, sale a 4 mld nel 2025 e poi a 11 mld nel 2026). In pratica si dice che la parte più pesante della spending rewiew annunciata si farà nel 2026, anno in cui si farà l’aggiustamento di bilancio che porterà il deficit sotto il 3%. Ma quello è l’anno che precede le elezioni politiche, difficile immaginare programmi del genere da parte di qualsiasi governo in un anno preelettorale. 

La manovra del prossimo anno è stata preceduta dal decreto 145 che ha anticipato il conguaglio di perequazione dell’anno 2023. La perequazione calcolata a gennaio era stata fatta sulla base dell’indice provvisorio del 7,3%, quello definitivo per il 2022 è stato dell’8,1% e quindi c’è stato un conguaglio di 0,8% anticipato a quest’anno anziché pagato come al solito con la nuova perequazione. In quella del prossimo anno l’unica novità prevista nell’ultima bozza del DDL è l’ulteriore taglio per le pensioni d’importo superiore a 10 volte il minimo (5.679 euro) con la perequazione portata dal 32% al 22% dell’indice di inflazione. E’ saltato invece l’aumento dall’85% al 90%, previsto nella prima bozza, per le pensioni tra 4 e 5 volte il minimo (2.271,7/2.839,7 euro). Resta all’85% per compensare le richieste di Salvini in merito a quota 103.

Su questo punto si è assistito a un balletto incredibile in cui Salvini ha cercato di salvare la faccia rispetto ai suoi proclami contro la “Fornero” riuscendoci solo nominalmente. E’ vero che rispetto alle prime stesure delle bozze non c’è più quota 104 per l’uscita anticipata e si torna a quota 103, ma le condizioni di uscita sono molto diverse e peggiori di quelle dello scorso anno. La pensione anticipata sarà calcolata tutta con il metodo contributivo, anche sui versamenti antecedenti il 1996 finora calcolati col metodo retributivo, quindi sarà più bassa.  In ogni caso l’importo della pensione non potrà superare 4 volte il minimo fino al raggiungimento dell’età di vecchiaia. Si allunga poi la finestra per il primo pagamento (da 3 a 6 mesi per i dipendenti privati e da 6 a 9 mesi per i pubblici), quindi per buona parte di chi uscirà con questa opzione, la data effettiva di pensionamento sarà il 2025 e non il 2024.

E’ confermata poi, dopo presenze e scomparse nelle varie bozze, la norma che limita al 31 dicembre 2024 la sospensione dell’adeguamento alla speranza di vita del requisito ordinario per la pensione anticipata, 42 anni e 10 mesi di contributi, indipendentemente dall’età (un anno in meno per le donne). Nel 2019, su richiesta di Salvini, l’adeguamento biennale alla speranza di vita era stato sospeso fino a tutto il 2026.

Altra norma che vede restringersi le condizioni di uscita anticipata è quella che prevede l’innalzamento da 2,8 a 3 volte il minimo l’importo di pensione maturato per accedere alla pensione anticipata per chi è nel contributivo. Nelle prime bozze l’importo era stato portato addirittura a 3,3 per limitare fortemente le uscite. Resta a 2,8 solo per le donne con un figlio e scende a 2,6 per le donne con due figli. Peggiorano anche le norme che riguardano opzione donna, il requisito di età sale da 60 a 61 anni, Ape sociale, il requisito di età passa da 63 a 63 anni e 5 mesi.

Insomma Salvini canta vittoria dove invece è chiara una sua sconfitta con una rivincita palese della Fornero, che se non fosse un’educata signora piemontese potrebbe ricambiare la manifestazione dei supporters salviniani fatta sotto casa sua. Il problema è che nello scontro Meloni/Giorgetti contro Salvini ci vanno di mezzo lavoratori e pensionati che, a prescindere da quota 103, vedono peggiorare senza ragione alcune condizioni di uscita e le norme sulla perequazione.

Un punto ha attirato l’attenzione dei giornali, il taglio delle pensioni in alcuni settori del pubblico impiego. Il taglio c’è e anche pesante, ma è il taglio di un privilegio. Detto con cattiveria il governo Meloni taglia un privilegio che i governi precedenti (Dini, Prodi, Berlusconi, Monti in poi) non hanno mai tagliato pur essendone a conoscenza e pur potendo allora farlo senza colpire come oggi aspettative pensionistiche consolidate e ora ravvicinate. Il taglio c’è ma si taglia quella differenza per la quale, ad esempio, un dipendente degli enti locali con due anni di retributivo (che ha iniziato cioè a lavorare nel 1993) se ne andrebbe in pensione con un rendimento per quei due anni del 25%, mentre un dipendente del settore privato con una situazione analoga avrebbe un rendimento del 4%.   Se esaminiamo il taglio dal punto di vista delle aspettative create, è forte, fa male e suscita ovviamente reazioni. Se lo esaminiamo dal punto di vista dell’equità, ci sta tutto. I giornali oltre a pubblicare le tabelle con il taglio delle pensioni dovrebbero anche pubblicare quelle con il raffronto tra la pensione di un lavoratore CPDEL e di un privato a parità di retribuzione e di anzianità contributiva. Il problema è di chi negli ultimi 25 anni non è mai intervenuto per affrontarlo nonostante fosse una delle criticità indicate nel 2001 dalla Commissione Brambilla di analisi dei risultati della 335. Vedremo se la norma presente nelle bozze resterà nel testo definitivo. E’ un costo politico, ma assicura alla manovra molti di quei mld indicati come risparmio di spesa.

Balletto anche sul taglio del cuneo. Il tesoro ha provato a ridurne l’impatto in termini di spesa introducendo al posto delle due fasce di minore contribuzione, 5 fasce, con evidente perdite retributive per alcuni livelli di reddito. La reazione sindacale ha convinto il governo a fare marcia indietro. Il confronto tra il 2024 e il 2023 è alquanto complesso, deve, infatti, tener conto non solo che nel 2024 il taglio di 7 punti fino a 25.000 e di 6 punti fino a 35.000 vale per tutto l’anno e non solo per il periodo giugno/dicembre, ma anche che mentre nel 2023 sulla 13° mensilità c’era un taglio contributivo di 2 o 3 punti, nel 2024 la 13° non avrà nessun taglio contributivo. Resta non affrontato il problema del salto contributivo di 6 punti a 35.000 euro. Secondo le istruzioni Inps il lavoratore ha diritto al taglio contributivo di 6 punti se la sua retribuzione mensile non supera 2.692 euro. Il lavoratore che per effetto di un aumento contrattuale o di un aumento di merito o di ore di straordinario o di una festività supera quel limite perde il taglio contributivo e si ritrova nonostante l’aumento lordo di retribuzione con un netto inferiore. Deve rifiutare gli aumenti, non fare lo straordinario, rifiutare il pagamento della festività! 

Le novità fiscali introdotte dalla legge di bilancio vanno viste con quelle annunciate dai decreti delegati fiscali. In tema di Irpef vi è in primo luogo l’unificazione dei primi due scaglioni con l’aliquota del 25% del secondo portata al 23%. I contribuenti (in massima parte dipendenti e pensionati) del primo scaglione (fino a 15.000 euro) non avranno ovviamente alcun vantaggio; quelli del secondo scaglione (da 15.000 a 28.000) avranno un vantaggio crescente da 1 a 260 euro al limite superiore dello scaglione; quelli degli attuali terzo e quarto scaglione avranno il vantaggio di 260 euro perché godranno della diminuzione dell’aliquota su tutta la parte di reddito che cade nell’attuale secondo scaglione. Sotto questo aspetto l’intervento è quindi squilibrato verso i redditi alti. Il governo in parte lo giustifica tenendo conto del vantaggio che i redditi medio-bassi hanno con il taglio del cuneo e in parte lo affianca con altri due interventi. Il primo aumenta la no tax area per i dipendenti aumentando la detrazione base con una diminuzione d’imposta di 75 euro fino a 15.000, il secondo taglia le detrazioni al 19%, escluse quelle sanitarie, di 260 euro per i contribuenti con un reddito sopra i 50.000 euro per i quali quindi si annullerà l’incremento derivante dalla modifica degli scaglioni. Misure complesse per portare a benefici mensili netti che al massimo raggiungono i 20 euro mensili mentre le perdite in termini reali dovute al fiscal drag per dipendenti e pensionati con redditi che cadono nel secondo e terzo scaglione Irpef sono sensibilmente superiori. 

Le contraddizioni in tema fiscale che caratterizzano il CD sono esplose sui vari articoli delle bozze. Tolta quasi subito la norma che prevedeva la possibilità per l’Agenzia delle Entrate di poter prelevare direttamente dai conti correnti dei contribuenti morosi. Scontro acceso sulle imposte sulla casa che appaiono del tutto ragionevoli, ma indubbiamente toccano punti sensibili nel CD. Pare ovvio che l’aumento di valore prodotto dal beneficio del 110 in caso di vendita sia tassato e che l’Agenzia delle entrate verifichi che la rendita catastale sia modificata in seguito all’intervento operato con il 110. Positivo appare anche l’aumento della cedolare secca sugli affitti brevi dal 21 al 26%. La fuoriuscita dall’IRPEF degli affitti degli immobili per assoggettarli a cedolare secca non ha dato i risultati sperati in termini di emersione, anzi ha prodotto una perdita di gettito. Una cedolare del 21% sui redditi da immobile contro la tassazione progressiva sui redditi da lavoro non ha alcuna giustificazione. Se non il ritorno nell’imponibile Irpef, almeno una cedolare più alta. Vedremo come finirà lo scontro sul punto.

C’è un articolo interessante che riguarda il Contributo al servizio sanitario nazionale. La norma dice che sono tenuti a versare il contributo a) i residenti che lavorano e soggiornano in Svizzera che utilizzano il Servizio sanitario nazionale; b) i frontalieri. E’ poi aumentato il contributo previsto dall’articolo 34, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (è la norma che aumenta il contributo per gli stranieri che si iscrivono volontariamente al SSN).

Suggerirei all’opposizione di presentare un emendamento all’articolo. Visti i problemi di risorse del SSN e visto che i redditi da lavoro dipendente, da pensione e da lavoro autonomo non soggetto a flat tax contribuiscono al SSN con le addizionali regionali di sottoporre anche i redditi autonomi in flat tax, i redditi agricoli, i redditi da cedolare e i redditi da rendite finanziarie alle addizionali regionali. E’ per un problema di parità di doveri a fronte di un servizio cui tutti accedono.

Ultima annotazione. Le risorse destinate a pubblico impiego e sanità sono indubbiamente importanti, data la situazione complessiva dei conti pubblici, non sono tuttavia sufficienti a recuperare completamente rispetto all’inflazione. C’è, quindi, una perdita di potere d’acquisto per i dipendenti pubblici aggravata in termini reali dall’operare del fiscal drag e una diminuzione di spesa sanitaria in termini reali.

Come ricordavo Leo ha fatto riferimento alla necessità di recuperare il tax gap di 80/100 mld. E’ bene che il governo se ne ricordi, ma c’è anche il problema di un riequilibrio del carico fiscale tra tra le varie tipologie di reddito. Nella legge di bilancio si è perso un’occasione per iniziare a farlo trovando anche risorse per un maggiore impulso alla crescita.

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