Giorgio Beretta è analista del commercio internazionale e nazionale di sistemi militari e di “armi leggere” e dei rapporti tra finanza e armamenti. Nel suo saggio “Il Paese delle armi. Falsi miti, zone grigie e lobby nell’Italia armata” edito da Altreconomia in collaborazione con l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e di difesa (OPAL) di Brescia, affronta con rigore scientifico i temi del possesso e della diffusione legale delle armi nel nostro paese. Il libro mette in discussione i falsi miti che circondano la produzione delle armi in Italia e sfata diverse credenze, fra le altre, quella che vuole che un’arma, in casa, renda tutti più sicuri. Ne parliamo con l’autore.
Beretta, il suo saggio è un lavoro scientifico prezioso per dati e informazioni, che pone numerosi interrogativi. Incominciamo dal più semplice: perché definisce l’Italia “il Paese delle armi”? Non sono altri paesi come Usa, Russia o Cina quelli più armati?
Certamente dal punto di vista della spesa militare e della produzione di armamenti sono altri i paesi più armati. È però necessario fare subito una distinzione. Nel mio libro mi riferisco principalmente alle cosiddette “armi comuni”, a quelle cioè ad uso da parte dei civili per la difesa personale e abitativa, per il tiro sportivo e per la pratica venatoria come i revolver, le pistole semiautomatiche, le carabine, i fucili a pompa e da caccia. L’Italia è il paese delle armi innanzitutto perché ha una lunga tradizione di produzione di queste armi tanto che le stesse aziende evidenziano che l’Italia è primo produttore europeo di armi sportive e da caccia. Non andrebbe però dimenticato – e ne parlo nel mio libro – che è anche uno dei principali produttori ed esportatori mondiali di armi da guerra come le armi automatiche e i fucili mitragliatori appositamente sviluppati per l’utilizzo bellico.
Diamo qualche numero: quanti armi si producono annualmente nel nostro Paese?
Non è possibile dare un numero preciso, ma solo numeri approssimativi. La stessa ANPAM, cioè l’associazione nazionale dei produttori di armi e munizioni, non conosce questi dati ed ha commissionato uno studio ad un gruppo di ricercatori dell’Università “Carlo Bo” di Urbino. Dal quale, però, non è possibile ricavare il numero esatto di “armi comuni” prodotte in Italia perché tutto si basa sui dati forniti dal Banco di Prova di Gardone Val Trompia, dove le armi vengono testate e punzonate: purtroppo i dati del Banco mettono insieme le armi complete con le loro parti (canne, ecc.) e per questo non è possibile avere numeri certi sulle armi. Indicativamente si può dire che tra “armi comuni” e loro componenti nel 2020 sono state prodotte circa 740 mila armi, di cui oltre 386 mila “armi lunghe da caccia e sportive” e 143 mila “pistole semiautomatiche” mentre per il resto si tratta di revolver, repliche, pistole e fucili ad avancarica, armi a salve e parti sciolte. Ma attenzione…
Dica pure
I dati che riguardano le armi definite come “armi sportive” e “armi comuni” comprendono anche armi – come le pistole e i fucili semiautomatici, le carabine e i fucili a pompa – che vengono esportati non solo per l’utilizzo da parte di privati cittadini, ma che sono destinati anche a corpi di polizia e di sicurezza, pubblici e privati, di paesi esteri. È una “zona grigia” che svelo nel mio libro ricordando i casi delle armi esportate in Iraq nel 2005 e quelle inviate a Gheddafi nel 2009 che furono tutte saccheggiate dagli insorti penetrati nel suo bunker, e le 30 mila pistole semiautomatiche inviate in Egitto nel 2013 o le più recenti forniture alle varie forze di polizia del Messico. Il problema che riguarda la gran parte delle “armi comuni” inviate a regimi autoritari e repressivi, come Egitto, Arabia Saudita, Kuwait, Marocco, Oman, Bahrain e Qatar, è sapere con certezza chi sono i destinatari e utilizzatori finali che nella maggior parte dei casi non sono i privati cittadini che intendono praticare la caccia o le discipline sportive, ma i corpi di sicurezza pubblici e privati. Per non parlare delle armi ad uso militare inviate alle forze armate di regimi repressivi o di vere e proprie dittature. Ne elenco numerosi nel mio libro: uno su tutti, il Turkmenistan, che l’Italia rifornisce di armi automatiche e sistemi militari di ogni tipo.
Tornando alla produzione. Si tratta comunque di numeri e valori di una certa importanza dal punto di vista economico e con ricadute occupazionali di chiaro rilievo..
È proprio questo il primo “falso mito” che sfato nel mio libro. I dati della ricerca commissionata da ANPAM ai ricercatori dell’Università di Urbino mostrano chiaramente che la produzione in Italia di armi e munizioni comuni, escluse quelle militari, vale all’incirca 600 milioni di euro, cioè tanto quanto la produzione nazionale di giocattoli, ma questo la ricerca di Urbino non lo dice. Siamo ben lontani dalle cifre di altre produzioni, che sono le vere eccellenze del “made in Italy”, come ad esempio l’occhialeria (quasi 4 miliardi di euro) o le calzature il cui fatturato complessivo nel 2021 ha sfiorato i 13 miliardi di euro. Anche per quanto riguarda l’occupazione, gli addetti alla specifica produzione di armi e munizioni di tipo comune arrivano a malapena a 3.330 che rappresentano lo 0,1% degli occupati nel settore manifatturiero. Il valore economico delle “armi comuni” è ancor più marginale non solo in rapporto al prodotto interno lordo nazionale (ne rappresenta solo lo 0,03%), ma anche rispetto alle esportazioni di cui costituiscono meno dello 0,14%: una quota pressoché irrilevante per il saldo della nostra bilancia commerciale.
Con il suo libro lei intende svelare anche altre “zone grigie” che riguardano le armi, quali sono?
Non posso qui indicarle tutte, ma sono diverse. La principale è che nessuno sa con precisione quante siano le armi legalmente detenute nelle case degli italiani e nemmeno quanti italiani abbiano una licenza per possedere regolarmente delle armi. L’unica fonte disponibile è una tabella che appare annualmente, senza alcun commento, sulla rivista della Polizia di Stato che riporta il numero di detentori delle licenze di porto d’armi (per difesa personale, per uso sportivo, per la caccia e per guardia giurata): ad un attento esame i dati, oltre ad essere carenti perché mancano tutti i permessi di “nulla osta”, risultano in gran parte inaffidabili e forse anche per questo il Viminale non ha mai pubblicato un rapporto ufficiale sulle licenze per armi nel nostro paese. E men che meno ha pubblicato un rapporto sulle armi legalmente detenute dagli italiani: l’ultima informazione rilasciata dalla Polizia di Stato risale a quindici anni fa. È una grave mancanza che andrebbe colmata al più presto anche perché siamo al paradosso che sappiamo con certezza quanti italiani hanno una patente di guida e quante auto vengono immatricolate e circolano in Italia mentre mancano dati ufficiali sul possesso e la detenzione legale di armi.
Quali sono gli altri “falsi miti” che indica nel suo libro?
Il principale è che l’Italia avrebbe norme tra le più rigorose in Europa per quanto riguarda il possesso e la detenzione di armi. Di fatto non è cosi. A differenza di quanto viene fatto credere, in Italia è abbastanza semplice ottenere una licenza per armi. Tutto si basa su una autocertificazione, il certificato anamnestico, che viene sottoposto e firmato dal proprio medico curante il quale, se non ha validi motivi, raramente richiede esami tossicologici specifici per verificare, come prevedrebbe la legge, che il richiedente non faccia abuso di alcool o uso, anche saltuario, di sostanze psicotrope e droghe. Non è previsto, di norma, nemmeno un controllo clinico sullo stato di salute mentale del richiedente e la visita medica presso l’ASL o il medico militare è di solito simile a quella che si fa per ottenere e rinnovare la patente di guida. Anche ottenere il certificato di idoneità al maneggio delle armi non è difficile: è sufficiente frequentare un corso di mezza giornata presso la sede locale del Tiro a segno nazionale. C’è poi, ovviamente, un controllo da parte delle autorità di pubblica sicurezza sui precedenti penali del richiedente: ma, a meno che non si siano commessi gravi reati tali da compromettere la sicurezza pubblica, la licenza viene normalmente rilasciata. Un esempio: Luca Traini, l’attentatore di Macerata condannato per tentata strage aggravata dall’odio razziale, aveva ottenuto la sua licenza di porto d’armi “per tiro al volo”, comunemente detta di “tiro sportivo”, in soli diciotto giorni e senza dover dimostrare di praticare alcuna disciplina sportiva. Non a caso la licenza di “tiro sportivo” è oggi la più richiesta in Italia e, tra l’altro, permette di detenere un gran numero di armi.
Intende dire che con una licenza si possono acquistare più armi?
Esattamente. Con una semplice licenza di porto d’armi per tiro al volo o per la caccia si possono acquistare tre armi comuni, principalmente revolver e pistole semiautomatiche con caricatori fino a 20 colpi di cui se ne può detenere un numero illimitato e senza obbligo di denuncia; dodici armi classificate come “sportive” che però, non sono quelle di fattura un po’ particolare che vediamo alle olimpiadi, ma che comprendono i fucili semiautomatici AR-15, i più usati nelle stragi negli Stati Uniti, e in questo caso con caricatori fino a dieci colpi detenibili in numero illimitato e senza obbligo di denuncia e finanche un numero illimitato di fucili da caccia. Tutte le armi che vengono acquistate devono essere segnalate alle autorità di pubblica sicurezza, ma come si può vedere è possibile possedere un vero arsenale con relativo munizionamento. Sono norme che sembrano fatte apposta per favorire i produttori e i rivenditori di armi più che la sicurezza pubblica.
In tutto questo sembra giocare un ruolo rilevante la cosiddetta “lobby delle armi”. Ce la può descrivere?
Nel libro dedico un certo spazio a presentarla. Qui, brevemente, posso dire che la lobby delle armi in Italia si compone di tre gruppi indipendenti, ma che negli ultimi anni si sono saldamente uniti: i produttori e rivenditori di armi radunati nelle loro associazioni si categoria (principalmente ANPAM, ConArmi e AssoArmieri); le riviste e i siti specializzati del settore delle armi e i gruppi e le associazioni di cosiddetti “appassionati” radunati per il comune obiettivo di difendere degli auto-proclamati “diritti” dei legali detentori di armi. La novità è che produttori e rivenditori – che per anni hanno generalmente mantenuto un basso profilo – di recente hanno invece invitato gli appassionati del settore ad aderire ad alcune di queste associazioni, soprattutto a quelle che svolgono un ruolo di maggior pressione sui media e a livello politico. E, ovviamente, hanno trovato in alcuni partiti, come la Lega e Fratelli d’Italia, piena accoglienza: non a caso, i rappresentanti di questi partiti sono spesso presenti alle fiere di armi che si tengono in Italia e hanno manifestato pubblicamente il loro sostegno a queste associazioni. Non sto parlando delle tradizionali associazioni di cacciatori, ma di gruppi che intendono introdurre anche in Italia il “diritto alle armi”. I cui effetti deleteri negli Stati Uniti sono sotto gli occhi si tutti.