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Lo Stato può fare di più

Da qualche anno, attorno al tema del welfare aziendale, si stanno sviluppando numerose iniziative: si tratta infatti di un tema che è diventato di estrema attualità. In particolare, il dibattito sulla necessità di conciliare l’esigenza di contenere la spesa pubblica con quella di rendere sostenibile il sistema di welfare ha iniziato a coinvolgere una buona parte degli attori economici, dei responsabili delle risorse umane e delle associazioni di categoria e sindacali. A questo punto del dibattito, crediamo che sia necessario ripensare i modelli di governance, favorendo modelli fondati sulla sinergia dei diversi attori, pubblici e privati, per creare sistemi cooperativi in grado di rispondere alla nuova domanda sociale.

Per quanto riguarda il welfare aziendale in Italia, esistono già dei dispositivi normativi che vanno in questa direzione: la normativa vigente consente di usufruire di vantaggi fiscali e, di conseguenza, contributivi, nei casi in cui le aziende promuovano piani di welfare che contemplino servizi e benefit indicati nell’articolo 51 e 100 del TUIR. Il testo degli articoli del TUIR, che risale al 1986, richiederebbe di certo alcune modifiche per adattarlo ai mutati contesti economici e produttivi e soprattutto per venire incontro alle esigenze delle piccole e medie aziende, tendenzialmente poco propense, anche a causa di alcune incertezze del quadro normativo nell’utilizzare la leva fiscale, che resta ancora appannaggio delle aziende più grandi. 

A ben guardare, ci sono esperienze significative anche nelle PMI ma sono poco conosciute: negli ultimi anni, il Ministero del Lavoro, ad esempio, attraverso il progetto La Femme (www.italialavoro.it/lafemme) e da Maggio di quest’anno con il progetto EQUIPE 2020, ha promosso l’introduzione del welfare aziendale anche nelle piccole e medie imprese, con risultati soddisfacenti ed in un’ottica legata alla condivisione fra azienda, parti sociali e lavoratori, di soluzioni organizzative innovative e più flessibili in tema di orario di lavoro e di miglioramento delle performance anche per recuperare risorse economiche da redistribuire ai lavoratori.  

In generale esistono diverse visioni del welfare aziendale, alcune che ne sostengono gli aspetti positivi, altre che ne accentuano le ricadute negative. Tra i sostenitori, c’è chi intravede nella introduzione di queste forme di sostegno alle persone e alle famiglie una leva per offrire servizi che possono incidere positivamente sul reddito; altri, come noi, che ne apprezzano la capacità di recuperare efficienza attraverso un significativo coinvolgimento dei lavoratori e del sindacato, per liberare risorse da destinare ai servizi che essendo defiscalizzati possono concorrere ad applicare una logica win win e contemporaneamente contribuire al benessere aziendale. 

Non dimentichiamo che come per tutte le politiche di sviluppo, è centrale il problema di risorse economiche da destinare al welfare, che non può e non deve consistere semplicemente nell’investimento aziendale: questo confinerebbe il welfare solamente alle aziende in grado di permetterselo oppure costringerebbe i datori di lavoro a schiacciare le forme possibili solo sulla monetizzazione/trasformazione in servizi dei premi di produttività e dei benefits. 

Per quanto riguarda i detrattori del welfare, molti pensano che incentivare quello aziendale possa far arretrare quello pubblico creando forme di discriminazione fra coloro che ne possono usufruire e il resto della popolazione. A nostro avviso, in questo modo, si sottostimano i vantaggi che ci sarebbero per tutti se al contrario si riuscisse a contenere la spesa pubblica per rendere sostenibile il sistema di welfare pubblico vista l’esigenza, oggettiva, di tutelare i nuovi e maggiori rischi che derivano dall’invecchiamento della popolazione, dall’aumento delle spese sanitarie e dalla maggiore mobilità e flessibilità del mercato del lavoro. Rischiano infatti di rimanere scoperti i bisogni di protezione sociale delle categorie più deboli come gli anziani, le donne, i giovani, i disabili e i lavoratori flessibili che possono contare sempre meno sulla disponibilità di risorse pubbliche e che rischiano maggiormente di cadere sotto la soglia di povertà. 

In quest’ottica, crediamo sia necessario concentrare gli sforzi per far fronte alle difficoltà di reperimento delle risorse economiche, aggravate nel nostro Paese da una base di contribuenti attivi inferiore alla media europea, e diffondere iniziative che mobilitano risorse private per far fronte alle nuove e maggiori aspettative, prefigurando così un “secondo welfare” che si affianchi in maniera sussidiaria a quello pubblico, coinvolgendo attori economici e sociali quali imprese, sindacati, fondazioni, assicurazioni, il terzo settore e gli enti locali. Senza mettere in discussione il welfare statale (i suoi fondi, il suo personale, i suoi standard di prestazione) nella sua funzione redistributiva di base, ma solo integrato dall’esterno laddove vi sono domande non soddisfatte. Ricordiamo che, purtroppo, la quota di spesa sociale privata nel nostro paese è ancora molto bassa (2,1% del Pil), a fronte del 3% di Francia e Germania e del 7,1% del Regno Unito, per cui ci sarebbero molti margini di espansione che potrebbero far affluire verso la sfera del secondo welfare alcuni punti percentuali di Pil. Il dibattito è aperto e forse al di là del dibattito si dovrebbe forse prestare più attenzione ai casi aziendali, per verificare, nella realtà, quali siano i margini per coniugare welfare, efficienza e benessere. 

Purtroppo la legislazione in materia crea non pochi problemi di interpretazione e soprattutto l’Agenzia delle Entrate, a partire dalla risoluzione 34E del 10 marzo 2004, ha creato un legame indissolubile tra l’articolo 51 comma 2 lettera f e l’articolo 100 comma 1 del T.U.I.R. sancendo, di fatto, l’imponibilità per le opere ed i servizi che sono erogati secondo la previsione di un accordo aziendale, e la non imponibilità solo per quelli che sono erogati come liberalità dall’azienda. 

La norma prevede infatti che le condizioni di vantaggio fiscale per l’utilizzazione delle opere e dei servizi di utilità sociale debbano essere sostenute volontariamente, dal datore di lavoro. Questo fa sì che, assurdamente, il vantaggio fiscale venga meno se il beneficio è contemplato da un accordo collettivo: tutto questo al contrario di quanto avviene con le previsioni in materia di previdenza complementare e assistenza sanitaria integrativa, per le quali, la contrattazione collettiva è il requisito indispensabile per ottenere il vantaggio fiscale. Questa interpretazione impedisce, in sostanza, l’inserimento di questi benefits all’interno della contrattazione di secondo livello, andando a penalizzare inspiegabilmente il dipendente e riducendo le implicazioni, in termini di un maggiore coinvolgimento dei lavoratori nei processi aziendali. 

Il primo problema è quindi legato alla dimensione contrattuale del welfare aziendale per cui sarebbe opportuna una modifica dell’articolo 51 del TUIR, dato che, dopo l’accordo Interconfederale siglato da Confindustria e Sindacati nell’aprile 2009, una buona parte dei contratti nazionali introducono per la prima volta il tema del welfare aziendale. 

Un intervento di modifica legislativa delle norme che regolano il welfare in Italia riguarda poi i servizi educativi e una modifica della norma si potrebbe coniugare molto bene alla luce delle novità positivecontenute nel disegno di legge di riforma della scuola. Ci riferiamo alla parte relativa ai criteri di delega in cui gli asili nido sono inseriti nei processi educativi e non sono più servizi a domanda individuale. Si verrebbe a delineare nei fatti un sistema educativo che comprende i bambini da zero a sei anni, con implicazioni non indifferenti rispetto alle opportunità da offrire a tutti e con altrettante implicazioni positive rispetto all’annoso problema della carenza di servizi.  A seguito di questa riforma è evidente che anche l’asilo nido potrebbe diventare una opzione, con forti valenze di carattere educativo per un numero maggiore di famiglie di quelle attualmente interessate mentre anche la scuola dell’infanzia rientrerebbe, cosa oggi non prevista, fra i servizi educativi tout court e quindi, defiscalizzati. 

Un’altra contraddizione riguarda i servizi di trasporto per i dipendenti. L’art. 51, comma 2, lettera d, non prevede l’agevolazione sul trasporto pubblico locale, ma solo per le navette private. In questo modo si disincentiva il trasporto pubblico che ha un impatto minore nei confronti dell’ambiente. La motivazione addotta contro questa ipotesi è che difficilmente si riesce a fare degli abbonamenti che prevedano solo la copertura di alcune tratte. La realtà è invece diversificata e in molte città sono attive forme di abbonamento con due tratte giornaliere (casa – lavoro) per cinque giorni la settimana e i nuovi sistemi di controllo di gran parte del trasporto pubblico consentono di attivare forme di abbonamento che possono limitare, se non addirittura escludere forme di elusione. 

Un’altra modifica potrebbe riguardare l’interpretazione dell’agenzia delle entrate del 2010 (risoluzione 46/E del 2010). L’agenzia ha individuato un iter per poter rimborsare quota parte degli interessi passivi sui prestiti contratti dai dipendenti anche con terzi e non solo con l’azienda. Tale iter procedurale risulta concretamente inapplicabile per tutte le aziende che non si appoggiano ad un provider esterno per gestire il servizio, che è molto oneroso e complicato. Si potrebbe inoltre prevedere un criterio di calcolo più semplice, che eviti al sostituto d’imposta tutti i calcoli inerenti lo spread tra il tasso effettivamente rimasto a carico del dipendente, al netto del contributo aziendale, ed il TUS di fine anno.

Infine, una vasta area problematica da affrontare per rendere ancora più fruibile il welfare aziendale da parte soprattutto delle PMI ed è quella relativa alla impossibilità di utilizzare, oltre alle convenzioni, strumenti nuovi per concorrere al pagamento o alla fruizione dei servizi. Ci riferiamo alla possibilità di far ricorso ai voucher o buoni anche elettronici. Questa opzione posta non in alternativa ma complementare a quella delle convenzioni per il welfare aziendale potrebbe ulteriormente semplificare la gestione dei piani aziendali ed abbattere i costi per la gestione dei servizi o in via diretta o in via indiretta. Ci riferiamo al voucher o ad altre forme di pagamento assimilabili, secondo lo schema ormai sempre più utilizzato anche in forma telematica del c.d. “buono pasto”. L’introduzione del voucher potrebbe inoltre offrire maggiori opzioni nella scelta dei servizi anche per quanto riguarda il ricorso a colf e badanti visto che è possibile utilizzare anche i voucher per il lavoro accessorio per il pagamento di questi servizi. 

A margine di tali proposte, crediamo che una riflessione vada fatta e seriamente, più in generale, sull’uso della leva fiscale per sviluppare maggiormente, anche nel nostro paese, il settore dei servizi di cura (white jobs) che ha un potenziale di occupazione molto alto. Secondo i dati a nostra disposizione (CENSIS 2011) il numero effettivo di collaboratori che prestano la loro attività presso le famiglie è passato da poco più di un milione nel 2001 agli attuali 1 milione 655 mila (+53%), con una forte componente straniera e la crescita della domanda porterà il numero degli attuali collaboratori a 2 milioni 151 mila nel 2030, determinando un fabbisogno complessivo di circa 500 mila unità. Questi costi ad oggi gravano quasi interamente sui bilanci familiari: una spesa di 667 euro al mese e solo il 31,4% riesce a ricevere una qualche forma di contributo pubblico che si configura per i più nell’assegno di accompagnamento (19,9%). 

Anche il welfare aziendale può contribuire in maniera diretta e indiretta al sostegno dei costi di questi servizi e alla creazione di posti di lavoro. Le aziende infatti sono un pilastro importante per la creazione di domanda qualificata in questo settore insieme alle famiglie e agli enti locali. E’ inoltre evidente che la richiesta di servizi tende ad aumentare allorquando più donne entrano e permangono nel mercato del lavoro per cui, l’adozione di modelli flessibili di organizzazione del lavoro collegata a contributi per sostenere i costi dei servizi è forse la cosa più importante da tenere in considerazione per una prospettiva di crescita dell’occupazione femminile nel nostro Paese.  

Al riguardo vi sono modelli interessanti in uso in altri paesi europei e tra questi quello a cui guardare con interesse è quello francese dei Chèque emploi service universel (CESU) che utilizza i voucher defiscalizzati per aiutare, famiglie, imprese ed enti locali a sviluppare i servizi e sostenere costi con effetti importanti sulla emersione del lavoro nero oltre che su quello occupazionale. Alcuni parlamentari hanno elaborato una proposta di legge per l’istituzione del voucher universale per i servizi alla persona e alla famiglia che s’ispira al modello francese dei CESU. Questa proposta è stata presentata con lo stesso testo al Senato della Repubblica e alla Camera dei deputati da parlamentari di molti gruppi politici. 

Crediamo che, dopo il tempo delle promesse, sia venuto quello degli impegni: nelle linee guida per la riforma del terzo settore del Governo si prevede di dare stabilità e ampliare le forme di sostegno economico – pubblico e privato – degli enti del terzo settore, attraverso, tra l’altro, la disciplina sperimentale del “voucher universale per i servizi alla persona e alla famiglia”, come strumento di infrastrutturazione del “secondo welfare”. Purtroppo quelle meritevoli iniziative non hanno avuto un seguito perché le proposte di legge parlamentari sono rimaste nel cassetto e il Governo non ha ancora presentato le proposte annunciate nelle sue linee guida. Perché questa stagione di riforme non rimanga solamente un manifesto è necessaria una maggiore volontà programmatoria da parte dello Stato, anche e soprattutto attraverso l’aggiornamento del TUIR, come è altrettanto necessaria la disponibilità degli imprenditori ad aggregarsi per attivare economie di scala imprescindibili per la realizzazione di interventi di welfare aziendale cooperato, efficiente, competitivo. 

1. Probabilmente la finalità ricreativa, contenuta nel comma 1 dell’articolo 100 del TUIR, ha portato l’agenzia delle Entrate a questa interpretazione. Basterebbe togliere i riferimenti alle attività ricreative contenute nel comma 1 dell’articolo 100. Slegare le due norme infine, eliminerebbe anche il limite di deducibilità di questi benefit dal reddito di impresa (max 5 per mille del costo del lavoro), limite che andrebbe comunque elevato al fine di fine di incentivare maggiormente le imprese a erogare queste misure di welfare aziendale.

2. Senato della Repubblica: disegno di legge n. 1535 del 17 giugno 2014 d’iniziativa dei senatori Giorgio Santini, Valeria Fedeli, Federica Chiavaroli e altri; Camera dei deputati: proposta di legge n. 2492 del 26 giugno 2014 d’iniziativa dei deputati Carlo Dell’Aringa, Edoardo Patriarca, Flavia Piccoli Nardelli, Maria Amato, Sofia Amodio e altri.

3. Presidenza del Consiglio dei Ministri, Linee guida per una Riforma del Terzo Settore, 2014, p. 6.

  

 (*) Dirigente di Italia Lavoro e project manager progetto LaFemme. Le opinioni espresse in questo articolo sono personali e non impegnano in alcun modo Italia Lavoro spa. amarsala@italialavoro.it

 

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