I drammatici morti di Firenze sono lo specchio più autentico e brutale di quello che avviene in tantissimi cantieri privati e, per fortuna con meno morti ma certo non meno infortuni, negli appalti privati in generale. E’ la fotografia dello svilimento del lavoro, della parcellizzazione dei cicli produttivi al mero scopo di aumentare profitti e/o tenere bassi i prezzi. Secondo un principio di concorrenza che fa del lavoro e della sicurezza alcune delle tante variabili, come il prezzo del carburante o dell’acciaio.
Per questo lo sciopero nazionale di mercoledì scorso, 21 Febbraio, insieme ai metalmeccanici, oltre ad un atto di protesta è e deve essere l’inizio di una più generale vertenza sulla qualità del nostro modello produttivo.
Un’utopia? No: una chiara battaglia di civiltà che non dovrebbe essere portata avanti solo dai lavoratori organizzati, ma dovrebbe essere (e dovrebbe essere sentita) come la cifra di civiltà di un Paese, da parte di tutti. Istituzioni, imprese, enti locali, forze politiche e della cultura.
Perché alla fine, qualunque verità giuridica e tecnica verrà appurata sul crollo di Firenze, è emblematica una cifra di questa vicenda: la vita di un lavoratore non vale nulla, i cantieri privati sono luoghi dove lo Stato, la Legge, la Legalità non entrano. Zone franche dove lo stato di diritto, la dignità, non hanno cittadinanza mai. In Italia: a Firenze come a Torino, Roma, Milano, Napoli o Palermo. Dove per assurdo aree di illegalità sono il portato stesso di norme ignobili (la Bossi Fini) per cui anche chi vuole lavorare, chi lavora, non è messo nelle condizioni di avere un regolare permesso di soggiorno.
È la logica del profitto, del massimo risparmio (che si traduce in massimo ribasso) quella che porta a comprimere i tempi di esecuzione (e allora magari si getta il cemento mentre ancora deve essere terminata la fase precedente di lavorazione, il consolidamento dell’architrave, per fare un esempio). È sempre la logica esasperata del profitto quella che spinge il committente a dare un lavoro da 20 milioni di euro ad una ditta che si è offerta di farlo per 10, senza chiedersi (in questo caso Esselunga) come sia possibile.
Ed è possibile perché la ditta che poi fa il prezzo sa che potrà non svolgere direttamente il lavoro, ma può darlo in subappalto all’infinito a squadre di cottimisti, a miriade di piccole imprese, a decine di imprese individuali, potrà farlo svolgere a lavoratori che, pur facendo lavori edili (quelli indicati tra l’altro dall’allegato X del dlgs. 81/08, cioè il testo Unico della Sicurezza) magari sono inquadrati con altri contratti, meno costosi perché, oltre a dare salari più bassi, non hanno l’obbligo della formazione, della sicurezza, dell’iscrizione in cassa edile (come invece prevedono i CCNL edili) oppure perché si potrà dare alla partita iva che, se possiede qualifiche o no, tanto non è obbligatorio.
E quelle aziende subappaltatrici potranno fare prezzi all’osso perché, oltre a risparmiare sui costi della manodopera e della sicurezza, oltre a fare lavorare questa miriade di subappaltatori di fretta, magari in contemporanea (e immaginiamo quante “interferenze”, quanto poco coordinamento) potranno magari risparmiare anche sui materiali. Perché in un cantiere (a meno che non si tratti di opere complesse come una galleria o un viadotto, per esempio) alla fine si può risparmiare solo su 3 voci: costo del lavoro, formazione e sicurezza, costi dei materiali.
Ecco perché la vicenda di Firenze è paradigmatica: perché nel dramma di queste ore si è squarciato quel velo di ipocrisia che tiene ben nascosto agli occhi della gente quanto avviene, di norma, nei cantieri italiani, in particolare in quelli privati. E che rende giustizia alle denunce del sindacato a cui, sempre più persone, fanno spallucce (“i soliti sindacalisti”) tranne poi versare lacrime di coccodrillo di fronte a scene, come quelle di Firenze, che sembrano più scene da teatri di guerra che non casa nostra…
Ecco perché – ora si capisce meglio – sin da aprile del 2023 (il nuovo Codice degli appalti, il dlgs. 36/2023 è entrato in vigore dal mese di luglio scorso) come Fillea Cgil abbiamo denunciato la scelta del governo Meloni di introdurre il subappalto a cascata (cioè la possibilità di subappaltare quanto viene già subappaltato) nelle opere pubbliche.
Fino a luglio scorso, negli appalti pubblici, era vietato subappaltare oltre il primo livello. Cioè se Alessandro Genovesi vinceva l’appalto, al massimo poteva subappaltare una parte dei lavori alla ditta Morese, ma poi Morese doveva farlo quel lavoro, non potendo più subappaltarlo.
Ora, purtroppo, il Paese sa cosa vuol dire, in concreto, “subappalto a cascata”: miriade di imprese non coordinate tra loro, risparmio sui costi, lavoratori sfruttati o in nero, decine di ragazzi di cui non si sa a che titolo stanno in un cantiere, risparmi su tutto, a partire dalla sicurezza.
E si smetta con questa balla che “lo ha chiesto l’Europa”: l’Unione Europea contestò al vecchio codice che questi fissasse una percentuale massima di lavori subappaltabili in modo predeterminato (il 30% poi portato al 40% del valore complessivo) non la possibilità di mettere limiti al subappalto. Tanto è vero che, per motivi di sicurezza, per motivi di qualità realizzativa, tale divieto (quello del subappalto a cascata) è legittimo, lasciato alla sensibilità delle stazioni appaltanti.
Infatti, solo pochi mesi fa, a fine Novembre 2023 è stato sottoscritto un accordo tra sindacati, associazioni datoriali (tutte Ance, Artigiani, Pmi) e Commissario Straordinario per il Giubileo (il sindaco di Roma Roberto Gualtieri) che, oltre a tutta una serie di norme per la corretta applicazione dei CCNL edili, oltre a rafforzare la formazione e la sicurezza dei lavoratori, prevede di escludere la possibilità di ricorrere al subappalto a cascata per chi si candida a fare i lavori.
Un protocollo ora da estendere: i tanti sindaci democratici e progressisti cosa aspettano a replicare l’intesa sottoscritta a Roma? Da Rosso a Torino a Sala a Milano da Lepore a Bologna fino a Nardella a Firenze, da Manfredi a Napoli a De Caro a Bari, ora che hanno il precedente con l’accordo di Roma (condiviso anche dalle associazioni datoriali, lo ripeto) cosa aspettano a qualificare la propria funzione di stazione appaltante per qualificare il lavoro, per renderlo più sicuro e trasparente almeno nei loro di appalti?
Ed ecco anche perché ora chiediamo di fare proprio l’esatto contrario rispetto alla scelta del governo Meloni: portare negli appalti privati le tutele che, in fase di esecuzione, prevede l’attuale Codice degli Appalti. Quelle tutele previste dalla legge delega 78/2022, emanata dal governo Draghi, dopo un positivo confronto tra sindacati, Ministero del Lavoro (all’epoca l’On. Orlando) e Parlamento. Legge delega con principi talmente chiari che, anche nella traduzione poi nei decreti legislativi, non si è potuta stravolgere.
E allora portiamo negli appalti privati le tutele dell’articolo 41 e 119: quelle tutele che dicono che per i lavori edili occorre applicare i CCNL dell’edilizia, che dicono che lungo la filiera degli appalti e subappalti non possono esservi ribassi sui costi della manodopera e i costi della sicurezza, che ai lavoratori dei subappalti vanno garantiti gli stessi trattamenti economici e normativi dei lavoratori in appalto e lo stesso CCNL, che vi deve essere un soggetto che, prima di autorizzare i subappalti, verifica il rispetto di tali tutele, ecc.
Questo renderebbe il subappalto una scelta industriale, di specializzazione (li devo pagare come se fossero miei dipendenti, senza ribassi e per come è previsto dal CCNL edile) e ridurrebbe di fatto da un lato la frammentazione e dall’altra la possibilità di offrire prezzi all’osso (perché non posso più scaricare il prezzo con ribassi lungo la filiera dei subappalti). Questo garantirebbe lavoro degno e sicuro e anche manufatti e prodotti finiti di qualità, a tutela di tutti, committente e utenti.
Ma per fare questo occorre scegliere quale modello di impresa e di edilizia si vuole, quale priorità dare prima al lavoro e alla vita e poi al profitto fine a sé stesso. Accanto a questa proposta – realizzabile con un decreto di 3 righe (del tipo “Le tutele di cui agli articoli 41 e 119 del Dlgs. 36/2023 sono estesi a tutti gli appalti di lavori privati”) occorre poi agire su altre due leve. Quella del controllo e quella della sanzione.
Quella del controllo rinvia al mancato potenziamento dei servizi ispettivi e dell’INL (Ispettorato Nazionale del Lavoro), ma anche delle ASL (e qui i Presidenti di Regioni non possono girarsi dall’altra parte), scelta coerente con una strategia – quella del governo Meloni del “lasciare in pace le imprese” e del Ministro Calderone, ex capo dei consulenti del lavoro – che sposta la funzione ispettiva da quella del controllo a quella della facilitazione: tradotto “dove i consulenti del lavoro sono già passati, dove le carte stanno a posto, che ce li mandiamo a fare gli ispettori in fabbrica o in cantiere?”. È evidente che, con poche risorse e pochi mezzi, con questa filosofia oltre la carota, mancherà sempre di più “il bastone”.
L’art. 27 del dlgs. 81 del 2008 (ripeto del 2008) prevede l’istituzione della Patente a punti in edilizia: un sistema per cui – come la patente di guida – se hai incidenti perdi punti (fino al ritiro della “patente”, cioè non puoi più guidare/avere un’azienda). Aspettiamo ancora il decreto attuativo. Se la patente a punti fosse stata operativa, l’azienda di costruzioni che operava a Firenze, dopo aver avuto incidenti gravi a Genova, non avrebbe potuto esserci.
Purtroppo siamo in un Paese dove se la norma è certa, ma non è certo né il controllo né la sanzione qualcuno se ne approfitta. Siamo o no il Paese con il più alto numero di evasione fiscale e di lavoro nero? Questo c’entrerà qualcosa con i tanti infortuni, con la scarsa produttività, con il nanismo aziendale, con la bassa qualità?
E veniamo infine alla sanzione: in questo paese vi è da anni – giustamente – l’aggravante di omicidio stradale, perché è proprio giusto che se io, mettendomi in macchina ubriaco o sotto effetto della cocaina, investa qualcuno sia colpevole di un omicidio “doloso” (c’è il dolo cioè) e non meramente colposo. In materia lavoristica se io invece mando su un’impalcatura un lavoratore non formato, a nero, senza le giuste protezioni e c’è un infortunio, anche mortale, sto dentro la fattispecie del mero “omicidio colposo”. Tradotto: una pena inferiore ai 5 anni che, se anche dichiarato colpevole, non mi farà fare un solo giorno di galera. Inoltre senza aggravante è anche più difficile chiedere il sequestro preventivo dei beni dell’indagato. Perché certo la condanna non mi ridarà mio marito o mio padre, ma almeno – oltre alla giustizia – potrò avere in caso di condanna più certezze anche su una cifra di risarcimento. Magari per permettere ai figli di continuare a studiare con un po’ più di tranquillità. Ecco spiegato perché, oltre alla creazione di una Procura Nazionale sugli infortuni sul lavoro, come Fillea Cgil chiediamo da anni l’introduzione dell’aggravante di “omicidio sul lavoro”.
Perché lo sforzo di tutte e tutti deve essere di non avere mai infortuni, che fatti come quelli di Firenze non ricapitino. Non c’è cosa peggiore di un Paese che non ti protegge né prima né, purtroppo, dopo. Con i ricchi ed i furbi che se la cavano quasi sempre.
Insomma politiche di promozione di un modello diverso di fare impresa (e quindi di convivenza), unite a politiche di controllo e repressione sarebbero da dedicare più a combattere caporali e imprenditori senza scrupoli che qualche studente che scende in piazza per manifestare a favore del popolo palestinese.
E il vero sostegno alle imprese serie (che ci sono), che rispettano leggi e contratti, che investono in sostenibilità ed innovazione, che provano a crescere dovrebbe essere prima di tutto combattere la concorrenza sleale di chi, non qualificato, si presenta e lavora in modo così furfantesco. Con una battuta mi verrebbe da dire che è una destra strana quella che persegue chi va ad un rave illegale e lascia stare i “furbetti del cantierino”. Ma forse il blocco sociale a cui questa destra guarda, la pancia e gli istinti che vuole accarezzare sono proprio questi e allora il problema sarebbe ancor più serio…
*Segretario Generale FILLEA CGIL