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Jacques Delors, il riconciliatore coraggioso

Lo scorso 27 dicembre si è interrotto il suo cammino: un percorso di vita che non si è mai conformato, in nessun passaggio di secolo, ad abitudini o aspettative. Sì, la vita di Jacques Delors era fatta di strade secondarie, lontane dalle strade popolate e dai percorsi conosciuti. 

Vita di radure coraggiose, intuizioni visionarie, lavoro, compagnia.

Vita di sentieri e correnti, che si snodano tra i vicoli di Ménilmontant, di calcio nelle terre desolate e di slang parlante, che passano attraverso i solchi dei campi di Corrèze, di Parigi, i suoi luoghi di azione comune, di Clichy, di Bruxelles, di così molte capitali della nostra Europa poi Parigi e la sua rue Saint-Jacques. Questi percorsi tracciano un percorso di meritocrazia repubblicana, dai nonni contadini della Corrèze a una madre fabbricante di cappelli, fino a un padre impiegato presso la Banca di Francia, che gli ha trasmesso questo gusto per la fatica. Su questi sentieri, come una bussola, si muove la sua fede di chierichetto, che lo apre al prossimo, che instilla in lui il senso del dovere prima che il gusto del potere.

E queste parole gravi del padre, mutilato nella Grande Guerra, gravemente disabile: «Dobbiamo riconciliarci». 

Così, dalle pendici del Massiccio Centrale ai gradini dell’Emiciclo Europeo, Jacques Delors non si stancava mai di esplorare per riconciliare. Come esploratore. Trovare alternative, costruire ponti, camminando sempre verso questo orizzonte immutabile che per lui contava soprattutto, la dignità umana. 

In questo risiede la sua profonda convinzione, nutrita dai suoi ambienti di pensiero cattolico, ispirati da Emmanuel Mounier: tra la dittatura delle masse e l’imperialismo del singolo esiste un’altra strada. Quello della persona, con la sua libertà di impegno, la sua responsabilità verso la società, sì, c’è questo cammino umanista europeo, il suo. 

La lotta di Jacques Delors consisteva innanzitutto nel riconciliare con sé stessa una società bloccata. Attraverso il sindacalismo, all’interno della CFTC, poi della CFDT. La politica non era mai stata tra le sue passioni giovanili. Pronostici sul Tour de France, tornei di basket, jazz a tutto volume, LOSC, Dio sì, ma non la politica. I suoi progetti adolescenziali sono popolati dall’alta moda, dal giornalismo e dalla settima arte. I leader politici gli apparvero dapprima come i colpevoli della debacle del 1940, nel dolore, nella vergogna bruciante di vedere il suo Paese gettato sulle strade. Ma il destino è paziente. 

Quindi le sue doti di conciliatore lo rendono presto un manager noto e apprezzato. A poco a poco, Jacques Delors scalò i ranghi della Banque de France, dove entrò come redattore, nello stesso tempo in cui si affermò nel suo sindacato. La sera, alla luce dei lampioni, dopo le giornate in banca, apriva dispense e manuali, studiava le teorie dei più grandi economisti, vincendo uno dopo l’altro i concorsi interni. 

Ben presto rappresentante al Consiglio economico e sociale, attirò l’attenzione di Pierre Massé, commissario generale alla pianificazione, che lo condusse con sé in rue de Martignac. Era necessario riconciliarsi, ancora una volta. Conciliando le sue aspirazioni di sinistra con quelle di un gollismo che, dopo il 1968, ha cercato di rigenerarsi. La scelta del primo ministro Chaban-Delmas, nel 1969, piuttosto che una sinistra che a lungo sembrava sconfitta. Costruisci con lui questo progetto per una Nuova società, poi continua come primo consigliere sociale di Matignon. Perché proprio in questo ambito trovò allora il modo migliore per sviluppare le sue convinzioni. Modernizzare la società, porre la giustizia al centro del lavoro, sviluppare una politica contrattuale, basata sulla negoziazione collettiva. Per consentire a chi non aveva avuto la possibilità di studiare di continuare ad apprendere per tutta la vita, ha partecipato in prima linea alla realizzazione della formazione professionale continua. 

Riconciliarsi, sempre. Riconciliare i francesi con il loro lavoro, mostrare loro che è anche un cammino verso la dignità personale e l’emancipazione. Attraverso la conoscenza e la formazione lungo tutto l’arco della vita, affinché il lavoro quotidiano non sia il luogo della servitù delle forze morali e fisiche, ma della loro crescita, del loro sviluppo.

Riconciliarsi ulteriormente. Jacques Delors aderisce, in pieno svolgimento, al partito socialista della conferenza del 1974, per aiutarlo a compiere la sua grande svolta verso l’economia sociale di mercato, per costruire una forza politica credibile di alternanza. Come accompagnerà il movimento dei Transcourants, dieci anni dopo, in questo stesso rifiuto delle liti tra clan. Con Rocard, Chapuis e molti altri, Jacques Delors faceva parte di questa nuova linfa venuta a irrigare la rosa del 1974, portando la propria unione e vena cristiana, infondendole lo slancio di un nuovo riformismo. Jacques Delors non credeva alla grande serata. Credeva negli albori pazienti, nella negoziazione quotidiana, nel dialogo sociale, al di là dell’opposizione politica.  

Suona il 1981, l’anno della vittoria del suo partito, l’anno del grande vento, anche l’anno degli sconvolgimenti economici, mentre l’inflazione rimbomba, il franco vacilla e deve essere svalutato due volte. Il ministro dell’Economia e delle Finanze, Jacques Delors, tiene duro. Ha lanciato misure difficili ma efficaci contro l’inflazione. Ha osato porre fine all’indicizzazione dei salari sui prezzi, ha sostenuto le grandi nazionalizzazioni del governo Mauroy e ha intrapreso la svolta verso l’austerità e le sue restrizioni di bilancio.

Quando, l’anno successivo, perse il suo amato figlio, il giornalista Jean-Paul Delors, una tragedia intima e straziante, la affrontò, poi, nella moglie Marie, il suo pilastro, nella figlia Martine, il suo orgoglio, nel suo piccolo – la figlia Clementine, la sua gioia, la forza di resistere. La settimana successiva è tornato al Consiglio dei ministri, devastato, ma ancora presente. Perché la Francia sta vivendo giorni difficili. La Guerra delle Rose divide il socialismo. Tra due sentieri il paese esita. Al tramonto dei                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               Trente Glorieuses, gli scettici europei tentarono di convincere il presidente Mitterrand ad allontanarsi dai vincoli, e visitatori serali bussarono alla porta dell’Eliseo, carichi di oscuri presagi. 

Jacques Delors è di nuovo lì, mano nella mano con Pierre Mauroy, e lotta come un leone, con pochi altri, per difendere la sua visione europea dell’economia, sconfiggere le Cassandre, mantenere la Francia nel progetto comune. 

Questa è stata senza dubbio una delle sue più grandi opere di riconciliazione: quella del 1983. Riconciliare, in questo momento decisivo, il socialismo di governo con l’economia sociale di mercato, riconciliare i francesi con l’economia, riconciliare la Francia con l’Europa. Rendere possibile l’ideale europeo senza cedere nulla alla realtà, affrontandola.

Nel 1985, la presidenza della Commissione europea era vacante; fu accettata la candidatura di Jacques Delors, allora sindaco di Clichy e con il suo passato mandato di deputato europeo. Tanti decenni dopo la Grande Guerra, il figlio di un soldato della Corrèze avrà tra le mani il progetto di un continente. A sua volta dovrà far vivere «il perdono e la promessa» che Hannah Arendt ha chiesto, il perdono, per poter riconoscere il passato, la promessa, per poter guardare al futuro. 

Riconcilia le persone da ora in poi. Perché nessuna vita venga mai più stroncata, mutilata, dalla cecità degli uomini. E riconciliare l’Europa con il suo futuro.

Jacques Delors ha contribuito a disegnare il volto dell’Europa di oggi, riga per riga. Con la fiducia del presidente Mitterrand e del cancelliere Kohl, della nostra Europa, ha detto: ci appartiene, tanto quanto noi le apparteniamo, e tocca a noi continuare. 

Un patrimonio sul quale i tre istituti a cui ha dato il nome vigilano instancabilmente da 30 anni. La libera circolazione delle persone e delle merci, dei servizi e dei capitali. Il mercato unico, e il suo atto unico, si fonda su un immenso lavoro di armonizzazione, con tutti gli attori della società civile. L’Europa del dialogo sociale, conciliando datori di lavoro e sindacati. L’unione economica e monetaria, l’Euro, di cui pone le basi. La Banca Centrale Europea, che ha portato a termine mobilitando tutte le sue capacità negoziali. L’Europa della crescita e della solidarietà, che non lascia indietro nessuno, sostiene le regioni più svantaggiate attraverso programmi di aiuto e di coesione. Un’Europa consapevole della necessità di allargarsi e approfondirsi allo stesso tempo, che progetta l’integrazione attraverso la progressiva convergenza degli accordi di associazione in massicci programmi di aiuto. Un’Europa che desidera riformarsi per mantenere istituzioni efficaci e preservare la propria libertà di integrazione e di azione. 

Un’Europa che avverte l’imperativo di una triplice sostenibilità: economica, sociale e ambientale, principali questioni di sovranità del nostro secolo. Un’Europa anche della cultura, quella di Erasmus, Kant, Stendhal e Zweig, per il quale ha inventato i programmi Erasmus, affinché i nostri giovani si conoscano, e imparino a comprendere, ancor più che la lingua dell’altro, il suo pensiero. Un’Europa unita nella sua diversità, riunificata, spazzando via le vestigia della cortina di ferro, accogliendo la Germania dell’Est all’indomani della caduta del muro, aprendo la strada alla riunificazione con i paesi dell’Europa centrale, orientale e baltica. 

Raramente la nostra Europa sarà progredita così tanto. E con le sue squadre, i suoi compagni di strada, diversi leader qui presenti per rendergli omaggio, e sotto lo sguardo di diversi leader europei, che ringrazio per la loro presenza oggi al nostro fianco. Avrà fatto avanzare il nostro continente come pochi altri. 

Jacques Delors in questi anni è ovunque, si moltiplica, troverà ogni Stato membro. Al ritmo di 180 viaggi all’anno, ascolta, parla, negozia, convince, fa braccio di ferro, inventa compromessi e concessioni necessarie, parla ai potenti del mondo, grande tra i grandi, ottavo membro del G7, ispiratore e pungiglione dei capi di Stato e di governo, loro interlocutore e loro coscienza. Modernità sempre attuale del suo trittico, “la competizione che stimola, la solidarietà che unisce e la cooperazione che rafforza”. Un’Europa più sovrana, più unita, più forte che trova lì la sua identità.

Jacques Delors non sarà mai stato presidente della Repubblica francese. L’11 dicembre 1994 disse no alle elezioni presidenziali, davanti agli occhi di 12 milioni di francesi, che speravano in un sì. Nelle sue parole, e nei suoi silenzi, si leggevano ferite inespresse e un’assoluta fedeltà ai suoi ideali. Il predominio del destino collettivo su quello individuale, il senso profondo del dovere, lo hanno portato, ancora una volta, lontano dai sentieri dove era atteso. E questo senso di “dovere compiuto” celebrato nell’inno alla gioia di Schiller, da cui Beethoven ha tratto la sua Nona sinfonia, e l’Europa il suo inno. Compiuto questo senso del dovere, le sue parole, Jacques Delors le conosceva a memoria. 

Pochi mesi dopo, nel suo ufficio al Berlaymont, a Bruxelles, queste mani che avevano forgiato l’Europa, scritto la storia, firmato trattati decisivi, riunito i popoli, queste mani hanno chiuso i loro dossier, ristabilito l’ordine intorno a loro. Con attenzione, come facevano ogni cosa, raccoglievano i suoi oggetti familiari. Qualche copia di L’Équipe, la sua prima lettura mattutina da sempre. Una lampada da minatore, una medaglia d’onore per la trattativa, ricordi di uno degli scioperi più duri della storia del sindacato, a cui aveva posto fine. La locandina del film Quarto Potere, di Orson Welles. Una grande fotografia di Jean Monnet.  
Jacques Delors ha portato tutto questo con sé. Ma ha lasciato qualcosa di più grande, inamovibile, intangibile. Un’impronta francese ed europea. La possibilità di una socialdemocrazia emancipatrice. La possibilità di un’Europa unita, quella di Schengen, Erasmus, Maastricht, unita da valori comuni, da Compostela ai Balcani, dall’Atlantico al Mar Nero. E la forza di trasformare la speranza in storia.

Mi sono sbagliato. Il 27 dicembre il suo percorso non si è fermato. NO. 

Jacques Delors ci ha appena passato il testimone. E molti di voi qui presenti hanno preso il sopravvento e hanno continuato la loro lotta, alla guida delle nostre istituzioni europee, dei vostri governi o dei vostri Stati o nel nostro Paese per portarla avanti. 

Ma questo percorso, il suo percorso, continua. Un cammino difficile, un cammino di cresta, che allontana dalle strutture e dalle finzioni, sempre in disequilibrio, e che tiene insieme Nazione ed Europa, forza economica e giustizia sociale, reale e ideale, finalmente riconciliati. Sì, tale è stato il cammino sereno di questo grande francese, di questo onesto europeo.

*Discorso del presidente della repubblica in occasione dell’ omaggio nazionale a Jacques Delors.

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