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Mediobanca sul debito pubblico e sull’euro ha perso sobrietà

Il Rapporto Mediobanca sulla probabilità di ristrutturazione del debito italiano è sorprendente. (Mediobanca Securities, Re-denomination risk down as time goes by, 17-1-2017). In primo luogo per l’istituzione che pubblica il Rapporto (diretto a investitori istituzionali) e, in secondo luogo, per una certa leggerezza con cui tratta il tema.

Al sodo, il Rapporto argomenta in questo modo: il debito pubblico italiano non è sostenibile, a meno di una (improbabile) accelerazione della crescita; l’Italia avrebbe potuto uscire dall’euro e guadagnare dal cambio della valuta prima del 2012, ma il debito ora non ne guadagnerebbe più (vedremo perché). Per uscire dalla morsa del debito diventa sempre più probabile (addirittura, forse, inevitabile) un default controllato, che implichi allungamento delle scadenze o abbattimento forzoso degli interessi (o entrambi).

Per il panico che può provocare, data l’autorevolezza della fonte, sarebbe stato opportuno che il tema fosse stato trattato in modo più sobrio. Che l’altezza del debito pubblico sia un problema è indubbio. Il Rapporto è scettico sulle previsioni del governo circa una sua riduzione in rapporto al pil, perché vede come probabile un innalzamento dei tassi di interesse e un’influenza negativa sulla crescita dovuta alla correzione di bilancio, voluta dalla Ue.

Sono sorprendenti le modalità con cui è analizzata (e poi esclusa) la convenienza a un’uscita dall’euro. Il giudizio è demandato a un conteggio tra obbligazioni pubbliche esistenti non ridenominabili in lire e quelle che possono esserlo e a un conseguente conteggio di quanto l’Italia perderebbe sulle prime e quanto guadagnerebbe sulle seconde, di fronte a una svalutazione sull’euro supposta al 30% (il livello che recupererebbe il differenziale di produttività perso dal varo della valuta unica). Da questo conteggio, risulta che oggi siamo in parità tra perdite e guadagni; ieri ci avremmo guadagnato e progressivamente perderemmo, perché il debito rinnovato incorporerebbe man mano clausole di class action che non lo renderebbero ridenominabile.

Qui non importa tanto la conclusione, ma la possibilità che si possa ragionare, di fronte a un evento del genere, in questo modo strettamente contabile, “a bocce ferme” e con riguardo solo alla sfera pubblica. Cominciamo a dire che lo stesso Rapporto fa riferimento a 672 miliardi di euro di indebitamento all’estero dei privati che non è ridenominabile. Ma il punto non è nell’accantonamento di questo “piccolo” inconveniente, quanto nell’impianto di ragionamento, statico e fuorviante, come se in qualche punto del tempo avrebbe potuto essere un ragionamento valido. Di fronte a un’uscita dall’euro, ciò che vale sono le implicazioni dinamiche. Lo stesso Rapporto ci fa sapere che il debito pubblico è per il 50% circa in mano alle banche.

È possibile che non ci si chieda cosa comporterebbe la perdita su questi titoli da parte del settore finanziario? Forse qualche banca italiana con pesanti ricapitalizzazioni si salverebbe ma, il resto andrebbe nazionalizzato. Come si può pensare allora che il mercato del credito rimanga fluido? Alle perdite patrimoniali si aggiunge sia il deterioramento del portafoglio di prestiti (già in Italia a un livello pericoloso del 14% dei crediti) e sia la caduta del valore delle azioni (o anche qui dobbiamo assumere l'”a parità di altre condizioni”?).

L’intero attivo si deteriorerebbe drammaticamente (senza contare i debiti con controparti estere non ridenominabili in lire). Si ricordi, per avere un’idea, che gli attivi delle banche sono oggi in Italia circa quattro volte il pil. I saggi di interesse andrebbero a livelli proibitivi e alle perdite per la ridenominazione si aggiungerebbero quelle per la caduta dei corsi. Come si può allora pensare che un mercato del credito bloccato non comporti fallimenti di imprese e ulteriori perdite di ricchezza privata e pubblica?

Anche i piccoli risparmiatori che detengono titoli di Stato, obbligazioni societarie, azioni, polizze vita, fondi comuni avrebbero perdite ingenti, per la caduta dei corsi e la ridenominazione. Oltre la ricchezza persa, per loro gioca l’incertezza su cosa avverrà in futuro dei loro redditi, specie quelli che derivano da erogazioni dello Stato. Non aspettiamoci certamente una espansione dei consumi. E nemmeno degli investimenti, frenati dal crollo degli attivi patrimoniali e di borsa delle imprese, da incertezze del futuro, nonché dall’inasprimento del servizio del debito, e dal sostanziale blocco del credito per il collasso del settore creditizio. Non è irrealistico aspettarsi un crollo verticale della produzione cui seguirebbe una disoccupazione di massa. La situazione sociale diventerebbe disperata.

Forse si crede che affidando alla Banca Centrale – tornata indipendente – il compito di sostenere i corsi delle obbligazioni e calmierare i tassi comprando titoli di Stato – come lascia adombrare il Rapporto – (e, aggiungo, chiudendo il mercato dei cambi e proibendo rigorosamente i movimenti di capitale), sia assicurata quella “a parità di condizioni” che consenta di fare conteggi in più e meno rispetto alla fotografia di partenza?

Chi comprerebbe dopo l’evento un titolo di Stato decennale (o societario) con un rendimento lordo implicito intorno al 2%, di fronte alla perdita dell’ombrello della Bce, alla fragilità del sistema bancario e alla grande incognita di un futuro default? Semmai chi lo avesse lo venderebbe prima che sia troppo tardi, e le vendite sarebbero una valanga.

Se la banca centrale nazionale provasse a sostenere i corsi sul mercato secondario, in una sorta di quantitative easing nostrano, si troverebbe invasa da titoli del debito pubblico, di cui rapidamente si sbarazzerebbero i privati. Si troverebbe costretta a tornare rapidamente indietro, a meno che non sia disposta ad assorbire un ammontare di titoli pari allo stock del terzo mercato obbligazionario del mondo. 

Mercati dei cambi chiusi o no, si dovrà lasciare uscire i creditori esteri. Si potrà obbiettare, forse legittimamente, che il grosso dei debiti esteri dell’Italia all’epoca dell’uscita dall’euro probabilmente non apparterrà più ai privati, ma a istituzioni ufficiali europee. Questo vuol dire una cosa: che il sentore dell’uscita dall’euro ha pervaso il mercato prima dell’evento e chi ha potuto proteggersi lo ha fatto, ritirando ciò che aveva investito in Italia (ha pensato il Rapporto che l’uscita dall’euro non è un provvedimento varato il sabato sera che prende tutti di sorpresa, ma l’evento terminale di una situazione insostenibile di mercato, che a poco a poco diventa effetto valanga?).

Comunque sia, non tutti i detentori di titoli finanziari avranno potuto “salvarsi”. E, comunque, quelle obbligazioni poste dai privati per tempo in salvo pesano nel bilancio della Bce, che ne pretenderà la restituzione in euro o della BdI che dovrà essere ricapitalizzata con le finanze pubbliche dovendo contabilizzare in perdita ciò che ha acquistato. Vi è poi tutto il capitolo Target 2, che tralascio. 

Più che riconquistare leve di azione, è molto probabile che lo Stato si ritroverebbe svuotato nelle sue capacità finanziarie (in condizioni di caduta verticale delle entrate e aumento di spese per interessi e per il debito rimasto in euro, oltre che per la contemporanea necessità di interventi per tamponare il crollo finanziario e assicurare i depositi).

Sarebbe ancora più condizionato nella gestione della politica economica di quanto lo era prima dell’uscita, oltre che circondato da un cordone sanitario della finanza che nel frattempo gli si stringerebbe attorno. Difficilmente potrebbe gestire politiche di alcun che (e, temo, sarebbe tanto se fosse in grado di pagare le pensioni, pur se svalutate dall’inflazione). Ma vi è di più; vale dire, il contagio internazionale verso altri paesi deboli e verso l’intero comparto finanziario mondiale. Il Rapporto lo cita, ma en passant.

Le perdite provocate altrove, la paralisi che sorge quando nessun operatore si fida più di nessun altro e avviene una fuga gigantesca di capitali mondiali in cerca di rifugi sicuri (che metterebbe in crisi i paesi emergenti e quelli più deboli) sono passibili di provocare qualcosa di più profondo del disastro della Lehman. La disponibilità del cambio (che il Rapporto considererebbe risolutivo, bontà sua, se la svalutazione recuperasse il differenziale accumulato di produttività) servirebbe a ben poco in una profonda depressione mondiale per la quale gli strumenti di intervento di paesi più solidi sono molto più ridotti di quelli esistenti nel 2008.

Beninteso, il Rapporto esclude che si possa andare nella direzione di un’uscita dall’euro, ma sulla base di un calcolo di convenienza relativo ai “più” e ai “meno” di un conteggio statico (ma si può ragionare così?). È implicito nel Rapporto che se l’uscita fosse stata attuata nel 2012 o prima sarebbe stata, sì, conveniente come se la sequenza adombrata prima potesse essere esorcizzata.

In questo modo asettico di ragionare, Mediobanca – ripeto, Mediobanca non io, l’ingenuo tifoso anti euro – non lascia capire che l’evento della rottura è dolorosissimo. E questo è molto grave in sé, data l’ingenuità presente in vasti settori della sfera politica in materia. Se dovesse verificarsi (anche per eventi spontanei e non per scelta) costerebbe enormemente sul piano produttivo, sociale e occupazionale. Da esso, forse, può riprendersi una generazione successiva a quella che lo attua (o lo subisce). 

Per Mediobanca, non essendo “conveniente” oramai l’uscita dall’euro (perché si è perso il momento di “convenienza”!) rimane il riscadenzamento del debito. È un default a tutti gli effetti, sebbene il termine non sia mai usato. Su questa eventualità, che emerge come la soluzione e che appare inevitabile nel Rapporto, esso è parco di parole. Sembrerebbe una soluzione alla greca, dentro l’euro. Sembrerebbe anche un evento che, di nuovo, avviene tra sabato e domenica e prende di sorpresa tutti. Il debito si porta su livelli sostenibili e tutti sarebbero tranquillizzati. Evviva.

Poniamo che l’Italia decurti il suo debito del 25% portando il Rapporto debito/pil al 100%. Nessuna ripercussione sui creditori? Il settore finanziario si ritroverebbe, come nell’altra ipotesi, a dover scrivere perdite consistenti. Il Rapporto si accorge che hanno quote di possesso di debito pubblico italiano superiore al 25% dell’attivo patrimoniale solo in relazione all’alleggerimento del loro carico imposto da un’ipotetica regolazione).

E per il resto? Le loro perdite? La banche andrebbero ricapitalizzate. Ma molte fallirebbero con effetto contagio, perché le perdite si mangerebbero le riserve. Nell’ipotesi del Rapporto il mercato si acquieta perché il debito è tornato solvibile. Ma basta una minima parte delle sequenze già adombrate in caso di uscita dall’euro (e non si vede perché siano scongiurate né perché siano parziali) perché non si acquieti affatto.

Può non credere che con questa ristrutturazione l’Italia possa farcela e ritenere, invece, che questa non sia affatto garanzia di nuove decurtazioni in futuro e lo sconti ulteriormente sui saggi di interesse e sul prezzo dei titoli. In ogni caso, la fama di buon debitore dell’Italia svanirebbe per sempre e l’era dei bassi tassi di interesse anche.

La Banca Centrale Europea (ammesso che siamo ancora nell’euro) dovrebbe accollarsi gran parte del nostro debito pubblico, dovendosi già accollare le perdite sul debito posseduto pre-swap. Ma sulla sua condotta e sui tassi di interesse agirebbe anche il fatto che Il mercato sconterebbe un contagio esterno, perché l’Italia non ha le dimensioni della Grecia e altri possono imitarla. Nelle nuove condizioni, l’Italia dovrebbe dimostrare di poter crescere almeno il 2%-3% l’anno per diradare la tempesta. A parte che questo si decide ex post, e non ex ante, mi chiedo se basti un risparmio di interessi di 16-17 miliardi di euro l’anno (passando da 132% o al 100% del rapporto debito/pil) ad alzare la crescita.

Non sono pochi, ma valgono “a parità di altre condizioni”: cioè, che non succeda niente di collaterale, che non siano rimangiati da un incremento del costo del debito man mano che viene rinnovato, che ci sia un’agibilità di politica economica, che non debbano essere impiegati in spesa per tamponare una situazione difficile. Ricordiamoci che nelle finanziarie per il 2015, 2016 e 2017 l’Italia ha usufruito di disponibilità extra equivalenti e (anche per come sono state impiegate) non è riuscita a sostenere una crescita significativa. 

Ovviamente, la prospettiva dell’haircut, nell’ottica del Rapporto, richiede l’assenso e la regia dell’Unione, che sia accompagnata da credito illimitato. Se la cooperazione è di questa natura, perché allora non indirizzarla a sviluppi meno traumatici e meno suscettibili di contagio quali quelli relativi alla mutualizzazione dei debiti (in qualsiasi forma avvenga) o alla trasformazione dei possessi della Bce in rendite perpetue o a prospettive simili che depotenziano gli sviluppi traumatici?

Da ultimo, veniamo all’assunto base del Rapporto: che il debito non sia sostenibile e che l’Italia andrà incontro a serie difficoltà di finanziamento. Qui è giusto nutrire preoccupazioni, ma gli atteggiamenti di “Annibale alle porte” non sono congrui. Il Rapporto ribatterebbe che non Mediobanca ma il mercato è a segnalare Annibale, citando – addirittura in apertura – l’indice Sentix.

Questo è un indice di sentimenti del mercato relativi alla rottura dell’euro entro 12 mesi (passato da 6% al 19%). Qui penso sia dia troppa importanza a un indice con risposte volontarie (quindi autoselezionate) di circa 1000 persone in tutta Europa, in prevalenza tedesche. In realtà, gli indici effettivi del mercato, relativi allo spread sul decennale (che è ora circa 2,0%) hanno equivalenza implicita a una probabilità di poco superiore al 7% di perdita del 25% del capitale nell’arco di 10 anni (o una probabilità inferiore se riferita a una perdita più alta).

Che le preoccupazioni siano crescenti è indubbio e, che per la maggior parte siano conseguenti ai rischi elettorali, anche. Non c’è dubbio che per ridurre il rapporto debito/pil non ci sia alternativa a crescere di più e che la responsabilità stia essenzialmente a noi (con politiche sensate di stampo produttivistico, e con governance nel merito dei processi, non con i bonus e i proclami).

Facciamoci un’idea semplificata: se volessimo stabilizzare il debito in relazione al pil la spesa per interessi dovrebbe essere pari al surplus primario (deficit pubblico =0). Questo vuol dire (è semplice algebra a dircelo) che la differenza tra la crescita nominate del pil e i tassi nominali debba essere tra 1,5 e 2. Oggi il tasso di interesse medio sul debito è presumibilmente 3,2% ma è in decrescita per via della sostituzione progressiva di debito in scadenza con debito nuovo (che continuerà anche se i tassi avranno un’inversione).

La nostra crescita nominale del reddito tende a essere 1,5 (o più se cresce l’inflazione). Il traguardo non è irraggiungibile. Certo non è una prospettiva esaltante che il Rapporto debito/pil rimanga inalterato (o che decresca molto lentamente) ma non è tale da far risultare ineluttabile un evento così drammatico come la ristrutturazione o la ridenominazione del debito, addirittura con orizzonte temporale così ravvicinato.

In conclusione, non era insensato attendersi da Mediobanca più sobrietà, più circospezione, più realismo, più completezza di analisi, più attenzione agli elementi dinamici che a quelli ragionieristici.

 * Già Professore di Economia Internazionle all’ Università La Sapienza di Roma

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