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La scomparsa di Luigi Bettazzi : l’eco del Concilio che arriva al mondo digitale

“Non ho abbastanza informazioni su quella persona per aiutarti con la tua richiesta. Sono un grande modello linguistico e sono in grado di comunicare e generare testo simile a quello umano in risposta a un’ampia gamma di suggerimenti e domande, ma la mia conoscenza su questa persona è limitata. C’è qualcos’altro che posso fare per aiutarti con questa richiesta?” 

Con meccanico imbarazzo risponde così Bard ad una domanda, o meglio un prompt, su Monsignor Luigi Bettazzi: quali le sue influenze sulla vita del paese a partire dal Concilio Vaticano II? Lo stesso imbarazzo probabilmente avrebbero non pochi commentatori che fanno bella mostra su giornali e tv. Al massimo qualcuno più anziano arriverebbe a ricordare la corrispondenza epistolare con Enrico Berlinguer che accompagnò il dibattito sul compromesso storico.

In realtà monsignor Bettazzi – che non a caso nessuno dei pontefici che si è succeduto in questo ultimo mezzo secolo ha ritenuto di fare cardinale – è stato un personaggio chiave di una Italia il cui ricordo tende ad appiattirsi con il dopoguerra, ma invece ebbe, proprio in quel triennio di fuoco dal 1962 al 1965, una straordinaria opportunità di sovvertire gerarchie e destini internazionali. 

Era l’Italia del miracolo economico, che usciva dalla guerra con uno slancio imprevisto e che si posizionava sui grandi confini del progresso tecnologico: Olivetti, Eni, Cnen, Montedison, biotecnologie, Spazio. Su questi settori allora avveniristici il paese che ancora non si era del tutto scrollato di dosso l’autarchia fascista, stava spiegando al mondo come si poteva fare. 

Adriano Olivetti intuiva la potenza di una nuova economia basata non sulla proprietà delle macchine, ma sull’intraprendenza del capitale umano, e lavorava al linguaggio di questa nuova dimensione individuale della produzione, il personal computer, con la Programma 101. Enrico Mattei e Giulio Natta, quasi inconsapevolmente, collocarono il Bel Paese al vertice del progresso chimico-energetico inventando la plastica e creando una nuova strategia globale del petrolio, che si prolungava con il primo gabinetto europeo delle biotecnologie di Buzzati-Traverso a Napoli. Felice Ippolito trovò il modo di integrare l’energia degli idrocarburi con un uso civile dell’atomo, che sconvolgeva il mercato delle rendite petrolifere e il comandante Broglio guidò una minuscola ma efficientissima task force tricolore alla conquista dello spazio.

In questo paese, un papa, apparentemente mite, lanciò la sfida alla modernità materialista convocando il Concilio che doveva mutare la natura stessa della missione cristiana. L’11 ottobre del 1962 si inaugurava l’evento che non aveva precedenti recenti e Giovanni XXIII regalava al mondo il famoso discorso della Luna che scompagina le aspettative di credenti e laici, creando il primo evento multimediale planetario anche grazie alla mondovisione garantita da una giovane ma non timida Rai.

Un palcoscenico da far tremare i polsi a chiunque, ma non a un giovane ma già intraprendente prete che da Bologna, dove diventò precocemente vescovo ausiliare di un gigante come il cardinal Lercaro, il prelato in odore di eresia, veniva sbalzato nelle sale conciliari che ribollono di contese e contrasti.

“Capii subito che il destino mi chiamava ad un evento inedito” mi disse monsignor Bettazzi qualche anno fa in una conversazione che registrai per il mio libro Avevamo la Luna. Con il disincanto di chi non nasconde il prezzo pagato per la sua missione, volle affrontare senza diplomatismi i nodi che poi lo resero sgradito alla Curia. Dalla battaglia sulla collegialità – “Non sa quanti richiami di Paolo VI, che succedette a Papa Roncalli nella gestione del Concilio, rispedimmo al mittente” – a quella dell’infallibilità del pontefice – “Si consumò un vero psicodramma quando delimitammo questo potere che qualcuno voleva assoluto”.

In quei giorni si fece una storia che richiese decenni per essere digerita e condivisa. In quei decenni l’Italia che fu stroncata nelle sue ambizioni socio-tecnologiche a metà degli anni 60 da una classe politica, sia di governo che di opposizione, miope e provinciale, imboccò il cammino di una emancipazione sociale. E qui la storia di Bettazzi che diventa vescovo di Ivrea, la capitale di una contrastata Olivetti, incontra la sinistra italiana. Prima i nuovi quadri sindacali, che cominciano a forgiare la stagione delle grandi lotte unitarie, poi i sussulti innovatori di un PCI che si stacca dall’orbita sovietica e cerca una nuova identità nazionale di cui la chiesa non può essere esclusa.

Sono gorghi culturali e politici che Bard non riesce a decifrare e forse nemmeno i vertici dell’attuale sinistra ne ritrova un’utilità che non sia solo sterile nostalgia. Il vero messaggio che Bettazzi elabora al Concilio, e che poi ripropone anche nel suo scambio epistolare con Berlinguer, è proprio il ruolo storico di un conflitto di alto profilo, che investa i principi che non accetti dogmi o convenienze.

La battaglia sull’infallibilità del soglio di Pietro ci dice come oggi si debba articolare una relazione con il dominio tecnologico in cui etica e proprietà non debbano essere stati di necessità, ma concetti su cui contendere e rivendicare una condizione di vivibilità umana.

Il Pci di Berlinguer in quei primi anni 70, dove si vedeva escluso dalla scena governativa ma sentiva crescere una domanda di cambiamento nel paese, intese l’apertura del vescovo di Ivrea come una conquista tattica, una medaglia con cui costringere la DC al dialogo esplicito. In realtà Bettazzi già sentiva salire l’irrequietezza di una moltitudine di individui che fuoriusciva dallo schema di una sinistra collettivista e chiedeva alla sinistra uno sforzo non di omologazione al sistema, ma di modernizzare appunto le forme di un conflitto che avrebbero costretto il processo di secolarizzazione consumista ad alzare l’asticella, ad essere superato ma non inibito.

Il prete di Bologna si rivelò un grande e profetico rivoluzionario, che accettava la sua marginalità nella chiesa in cambio della partecipazione a un lavoro comunitario, in cui riprendere proprio il filo conciliare che separando l’errore dall’errante aveva aperto le gabbie, costringendo tutti mescolarsi. Ma da quelle gabbie uscirono in pochi e lui rimase alla fine solo, per i lunghi anni in cui sopravvisse a sé stesso.

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*da Huffpost, 16 Luglio 2023 

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