Non ha certo bisogno delle mie congratulazioni per ritenersi soddisfatta della riuscita della sua campagna elettorale e della risposta maggioritaria degli elettori al suo messaggio programmatico. Né pretendo di darle consigli sulla difficile impresa che si accinge a compiere per far ritornare la fiducia delle italiane e degli italiani verso il PD e fare di esso il perno di un’alleanza vera delle forze di opposizione perché divengano anche di governo nel futuro.
Mi permetto soltanto di avanzare alcune questioni che a chi, come me, si occupa da sempre del lavoro presente e a divenire, sembrano dirimenti per centrare l’obiettivo di una rappresentanza ampia della società italiana. Esse ruotano intorno alla banale constatazione che se non si creano le condizioni di un’alleanza ideale e di interessi tra ceto medio e ceto povero, non si può ambire ad attrarre il consenso necessario per sconfiggere le forze conservatrici. Questo non vuol dire che ci si debba disinteressare delle prospettive dello sviluppo del Paese, del ruolo delle forze imprenditrici, della salute dell’apparato produttivo in forte mutazione, della qualità della cultura degli italiani e della importanza della formazione di base e continua per tutta la vita delle persone. Ma non c’è società giusta se non si affrontano le questioni vitali della parte del Paese più esposta ai rischi e alle difficoltà dell’attraversamento di una transizione economica, ambientale, multiculturale, geopolitica presa tra mare e guerra, di dimensioni impressionanti.
Il ceto medio, specie del lavoro dipendente, è stato tartassato dalle tasse ed è poco soddisfatto dello stato sociale. I poveri – disoccupati, inoccupati ma anche occupati con salari da fame – sono stati irretiti per un ventennio da proposte farlocche e qualche spicciolo assistenziale. Giusto quanto bastava per assicurare un consenso a politiche risultate più favorevoli ai benestanti e ai ricchi. Così le disuguaglianze sociali ed economiche si sono allargate. Se queste non hanno condotto (finora!) a pericolose ribellioni è dovuto al cuscinetto psicosociale del sonoro “vaffa” che ha imperversato nello scorso decennio. La delusione conseguente al fallimento della proposta grillina aumenta una pressione sociale che va interpretata, depotenziata, affrontata.
Ceto medio e ceto povero possono mettersi assieme e trovare elementi di coesione se si affrontano due grandi questioni: la ricomposizione del mercato del lavoro e una tassazione che faccia pagare meno perché fa pagare tutti “in ragione della loro capacità contributiva” (art. 53 della Costituzione). Capiremo che è questo che si vuole realizzare, se il PD e le altre forze di opposizione decidono di definire alcuni capisaldi propositivi e li trasformano in proposte. Ne indico tre, pur nella consapevolezza che altre potrebbero essere avanzate e potrebbero dare un senso di completezza alla strategia di alleanza auspicata.
La prima è quella di non allargare il solco tra lavoratori e lavoratrici protetti da leggi e contrattazioni e i così detti “precari”, quasi fossero di serie B. Abbiamo trascorso quest’ultimo ventennio alla ricerca della formula magica per frenare l’allargamento dell’area della “cattiva flessibilità”. Ogni volta che si legiferava una restrizione, nasceva la deroga, l’interpretazione alternativa alla norma. Così le forme del lavoro a tempo determinato si sono moltiplicate, solo in parte giustificate dalle modifiche dell’organizzazione del lavoro e delle catene del valore dei prodotti e dei servizi. Molto spesso, soltanto per abbassare il costo del lavoro.
Né possiamo illuderci che definendo un salario minimo per legge, il conto con i “precari” sia saldato. Il messaggio deve essere più incisivo. Un segnale significativo per avviare la ricomposizione del mercato del lavoro sarebbe quello di optare risolutamente per una scelta precisa: decidere che qualsiasi lavoro a tempo determinato deve costare all’azienda di più che il lavoro a tempo indeterminato. Sarà la contrattazione collettiva a definire la destinazione di tale aumento (salario, pensione, formazione, welfare aziendale ecc.). Se l’azienda non vuole pagare di più, assuma a tempo indeterminato.
La seconda questione riguarda il fisco. Si smetta di cincischiare attorno all’IRPEF. Così com’è ridotta, non è né strumento di redistribuzione equa della ricchezza reale prodotta nel Paese, né garanzia di finanziamento adeguato dello Stato sociale. Ormai, a garantire allo Stato risorse per funzionare e per fare politiche economiche e sociali sono rimasti soltanto gli occupati e i pensionati. Con l’ultima flat tax, l’area degli “incapienti” ha raggiunto dimensioni vertiginose. Ma il limone è stato spremuto abbastanza. La scelta deve essere drastica: la progressività deve riguardare la somma di tutti i redditi di un individuo (da lavoro dipendente e autonomo, da immobili, esclusa la prima casa, da finanza esclusa quella da titoli pubblici); le uniche detrazioni possibili devono riguardare spese essenziali (istruzione, manutenzione prima casa, medicina e assistenza anziani e bambini) anche per combattere l’evasione attraverso l’attivazione del conflitto di interesse; questa lotta va resa effettiva con procedure e strutture che non facciano andare alle calende greche la vertenzialità. Soltanto così, anche nel fisco, si esce dalla cultura fordista e si entra in quella postindustriale.
La terza questione attiene alle modalità di realizzazione degli obiettivi di riforma profonda della vita della comunità nazionale e prepararla all’avvento della società digitale e dallo sviluppo sostenibile in una Europa federata. Il processo di convincimento sia di quelli che il PD vuole rappresentare, sia degli avversari di proposte come quelle indicate, non è né facile, né scontato. Ci vuole più democrazia, più coinvolgimento delle persone, più creazione preventiva del consenso. La democrazia economica non è un concetto astratto. Si tratta di dare senso e spazio al contributo di tutte le forze sociali organizzate, da quelle sindacali, a quelle imprenditoriali, a quelle culturali, a quelle del terzo settore (e quindi non solo a quelle “amiche” e che momentaneamente hanno fatto il tifo per il suo successo). E’ con esse che vanno costruite le proposte da realizzare. Le forze attualmente al governo non le contrastano, ma le stanno spingendo verso un ruolo corporativo. Anche sul piano del metodo si esercita un ruolo politico. Per cui è vitale che il coinvolgimento sia sostanziale e non fideistico, valoriale e non solo d’interesse.
Cara Segretaria, abbiamo sperimentato nei lunghi giorni della pandemia che la teoria della società liquida è corretta fino a un certo punto. Di fronte a difficoltà vaste e sconvolgenti, la solidarietà e l’unità nelle comunità sono state esemplari. E’ una esperienza che non va dispersa, ma irrobustita con tenacia e fiducia.
Buon lavoro.