L’Europa politica si scopre con sempre minori amicizie in giro per il mondo. Pare che quasi tutti la vorrebbero soltanto un buon mercato comune e nulla di più. D’altra parte è la maggiore area di consumatori dell’occidente. Ora che Trump ha annunciato che vuole introdurre tasse salate sui prodotti europei (dice che lo chiedono i suoi elettori e prima o poi ci dirà che lo vuole anche Dio), le riserve che esprimeva Biden verso la nascita dell’Europa federale assomigliano solo a un timido spauracchio.
Ovviamente, anche Putin lavora da tempo perché l’Europa rimanga una tigre di carta, mentre Xi, dopo aver proposto la via della seta per discutere con i singoli Paesi, usa la leva dei BRICS per costruire un’alleanza del Sud del mondo rafforzata dalla partecipazione di paesi autoritari. In questo modo, punta – forse senza molte possibilità reali – ad una moneta concorrente con il dollaro ma soprattutto con l’euro. Siamo di fronte ad un coacervo di opzioni geopolitiche, commerciali e di politica industriale che materializza una sostanziosa opposizione alla prospettiva di una solida Unione dei 27 Paesi che attualmente la compongono.
Dunque, gli Stati Uniti stanno provocando un’accelerazione di questa tendenza a rafforzare le reazioni non in sintonia tra loro dei singoli Paesi europei. Ciò che emerge è che al tradizionale scontro tra sovranisti ed europeisti si sta profilando una divaricazione tra filo europei e filo americani. E’ questo scombussolamento che inquieta, più delle posizioni del resto del mondo che conta.
Se anche all’interno dell’Unione non si confermasse una solidarietà senza se e senza ma, di fronte all’offensiva dell’Amministrazione Trump, gli europei devono mettere nel conto tempi duri e pieni di incognite. Soltanto una ferma strategia di comune condivisione può dare garanzie di efficace governo delle turbolenze con cui inevitabilmente dovremo misurarci. Non c’è molto tempo a disposizione e ogni titubanza può giocare più a favore di un indebolimento della prospettiva dell’Europa federale, che alla tutela dalle incursioni esterne.
Bisogna riconoscere che Trump ha fatto saltare definitivamente la strategia del multilateralismo, della globalizzazione nata con il WTO e tutte le politiche economiche, finanziarie e sociali, spesso fallimentari, che ne sono state alla base. E’ da questa considerazione che occorre partire per individuare il cosa fare. Infatti, di rassicurazioni (però anche di silenzi) sono piene le pagine dei giornali, i telegiornali, i social. Ma saranno i fatti a spiegare quali sono le vere intenzioni che può esprimere l’Europa.
In primo luogo, sarà necessario decidere di gestire il dossier dazi con una sola voce: quella della Commissione. Se ogni Stato pensasse di trovare la soluzione meno pesante in un rapporto diretto con Washington avrà già dato un colpo basso al futuro dell’unità dell’Europa. Anche i più accaniti sovranisti dovrebbero convenire che le integrazioni industriali, tecnologiche e di servizi strategici proprie dell’Europa attuale non consentono di tutelare i più favoriti rispetto agli altri. L’interconnessione delle economie dei singoli Paesi è nella concretezza della realtà.
Poi, va decisa una politica di medio periodo sulla qualità e sviluppo dell’apparato produttivo europeo. Questo tema è largamente presente nel Rapporto Draghi, al quale occorre dare strumenti e mezzi per poter concretizzare le prospettive lì delineate. La Presidente Von der Leyen ha ribadito recentemente che quel testo è “la bussola”. Lo si saprà quando il Consiglio Europeo confermerà questa sua volontà, il Parlamento europeo lo assumerà e i partiti dimostreranno un impegno senza titubanze e volpi sotto le ascelle. Quel Rapporto indica scelte “toste” ma necessarie. In particolare, vanno definiti i campioni europei nei settori più avanzati, a partire dalla piattaforma di IA, ma anche un PNRR dedicato alla nascita e crescita delle “start up” nei singoli Paesi dell’Unione. Gli uni senza le altre non assicurano uno sviluppo settorialmente e territorialmente equilibrato nell’Unione.
In terzo luogo, occorre coinvolgere i rappresentanti del mondo produttivo europeo nella gestione della realizzazione della transizione verso livelli più consistenti di competitività e nello stesso tempo più socialmente sostenibili. Soprattutto imprenditori e lavoratori, attraverso le loro organizzazioni nazionali e europee, devono diventare gli attuatori della riqualificazione produttiva e professionale del sistema economico e occupazionale europeo, compartecipando finanche con le dotazioni finanziarie che cogestiscono nei singoli Paesi (per esempio, i fondi pensione).
Da ultimo, ma non perché meno importante, l’Europa deve diventare un robusto contraltare alle politiche nazionaliste e miopi di cancellazione del ruolo dei governi nell’ affermazione e promozione dei diritti umani nel mondo e di una politica di cooperazione internazionale per l’affermazione della democrazia. Quello che è successo in queste settimane, con la cancellazione di tutti i programmi di cooperazione del dipartimento di stato americano è inaccettabile e va contrastato duramente, perché ne va dei principi fondamentali di solidarietà e democrazia su cui si vuole costruire l’Europa.
Il messaggio che complessivamente potrebbe dare l’Europa al resto del mondo è di una adulta capacità di definire il proprio destino, senza guerre commerciali, senza resa di fronte ai cambiamenti politici internazionali. Se si raggiungesse questo obiettivo in modo unanime sarebbe un grande successo.
Però un solo veto potrebbe impedire questa decisione capitale. Non ci si può fermare. Non va escluso il ricorso all’uso della “cooperazione rafforzata”. E’ un percorso che è stato adottato una sola volta, ma per una scelta divenuta pietra miliare: la nascita dell’euro. Il Governo Prodi fu decisivo perché l’operazione riuscisse. La storia si può ripetere. Minimo 9 Paesi potrebbero prendere l’iniziativa di muoversi nella direzione indicata senza venir meno al rispetto delle norme comunitarie. Sarebbe inevitabilmente uno strappo rispetto al principio della coralità sinora sempre rilanciato, soprattutto se fosse il gruppo di testa dell’Unione a chiamarsi fuori dal pantano dei veti. La scelta però fungerebbe da campanella dell’ultimo giro che i molti sordi nelle cancellerie d’Europa non vogliono sentire.
Non mancano le difficoltà, ma certamente non è possibile una sola cosa: stare fermi e fare la fine del pugile suonato. Avere consapevolezza di questo passaggio epocale, soprattutto da parte della società civile, è la condizione più favorevole perché non succeda il peggio, ma si affermi il meglio della cultura e della democraticità dell’Europa.