Nel ”taglia taglia” generale che ha caratterizzato questo lungo periodo di crisi che data, come partenza, il 2008 e non conosce scadenza, siamo ora al “taglia salari”, quello pesante. Quasi un’ ultima spiaggia. L’Elettrolux ha fatto da detonatore di una situazione che può allargarsi a macchia d’olio (molte aziende nel Veneto, tra cui l’Alcoa di Fusina, ma anche in Alto Adige e a Novara). I salari, specie nel settore industriale, sono da tempo complessivamente in calo, sia per effetto della Cassa Integrazione che dell’uso dei contratti atipici. Ma una richiesta come quella dell’Elettrolux non si era ancora vista. Un taglio del 20%, con effetti anche sul montante contributivo e quindi sulla futura pensione non può che provocare la ribellione rabbiosa dei lavoratori interessati e alzare il livello delle preoccupazioni sul futuro del sistema produttivo italiano.
E’ probabile che il confronto politico e sindacale modifichi sostanzialmente l’impostazione originaria della multinazionale svedese, ma il sasso è stato lanciato. La spirale depressiva dell’economia italiana non si fermerà, se si continua a tagliare spesa pubblica per investimenti, credito alle attività produttive, salario spendibile. Ha scritto Alberto Quadrio Curzio: “I due più forti Paesi europei (Germania e Francia) hanno programmi di medio-lungo termine tramite un partenariato pubblico-privato (Ppp) e con prevalente finanziamento pubblico. Persino il Regno Unito, patria liberista del terziario finanziario, sta rilanciando la manifattura innovativa. In Italia, siamo, invece, molto indietro sia nel finanziamento della tecno-scienza in partenariato, sia nella fiscalità di vantaggio per sostenere l’innovazione d’impresa” (Meno cuneo fiscale, più innovazione, Il sole 24 ore, 4/2/2014).
La nostra scarsissima partecipazione alla ripresa produttiva mondiale e alla crescita della produttività è tutta concentrata in questo deficit di iniziativa, in questo ritardo di comprensione della durezza della crisi. La mentalità congiunturalista e attendista ha avuto la meglio sugli allarmi che pure da più parti venivano lanciati. Non c’è logica di continuità, in questa crisi. C’è un salto qualitativo che investe tanto i prodotti, quanto le caratteristiche delle produzioni e delle organizzazioni di esse. O si coglie o si soccombe. Non se ne sono accorti a sufficienza i Governi che si sono succeduti dal 2008 a oggi; solo in parte se ne è accorta l’imprenditoria, quella più esposta alla concorrenza internazionale che si è data da fare per innovare e riorganizzare praticamente con modesti sostegni pubblici; se ne è accorto il sindacalismo confederale, ma la sua strategia difensivista e poco unitaria non gli ha consentito di volare alto.
Ora volano soltanto gli stracci. Squinzi contro Letta e viceversa è l’immagine desolante del livello di impotenza a cui si è giunti. Il primo alza la voce ora, mentre avrebbe avuto più credibilità se si fosse espresso con la stessa energia quando Letta e Alfano si ingegnavano a trovare i soldi per evitare di far pagare l’Imu del 2013 agli italiani, sottraendoli evidentemente alla riduzione del cuneo fiscale o al finanziamento massiccio dei contratti di solidarietà. Letta non replica a tono quando sventola da Dubai il fondo di 500 milioni di investimenti arabi; rimarrà in deficit di ossigeno finchè non sventolerà i risultati della spending review, una revisione profonda degli incentivi alle imprese e una tassazione sulle rendite finanziarie pari a quelle che ci sono in Europa. Così, malinconicamente, i sindacati arrancano e Angeletti ne interpreta l’umore: “perdiamo 1000 posti di lavoro al giorno, che ci sta a fare questo Governo?”
In realtà da fare ne avrebbe, sempre che ci fosse volontà politica. Occorre puntare almeno su tre mosse, già accennate. La prima è quella di finanziare progetti industriali di innovazione tecnologica e di prodotto, con una revisione della massa di incentivi esistenti e rispondenti ad una fase diversa dell’industrializzazione del Paese. Gli studi sono sul tavolo del Governo, basta trasformali in misure operative. Non si tratta di spalmarli a tappeto, ma di selezionarli per settori e territori, come in parte sono indicati dal Jobs act, in una logica di concertazione. Se a questo si aggiunge l’iniziativa della Bce di prestare liquidità alle banche alla condizione che queste la destinano ai finanziamenti alle imprese per investimenti, il cerchio si potrebbe chiudere con soddisfazione per tutti.
La seconda è quella di programmare una significativa riduzione del cuneo fiscale relativo ai lavoratori, coperta finanziariamente dai risparmi di spesa improduttiva, determinati dalla spending review. Senza un impegno quantificato in questa direzione, tutto resta incerto e senza effetti né di annuncio, né di concretezza sulla spinta alla ripresa della domanda interna. Questo è un compito tutto governativo, nei confronti del quale non varrebbero come attenuanti le inevitabili resistenze che su vari fronti potrebbero essere messi in campo.
La terza, ma non la meno importante è quella di favorire l’occupazione giovanile con un piano straordinario per le assunzioni part time (finanziato con il trasferimento dell’attuale dotazione a favore del lavoro a tempo pieno e indeterminato, rivelatosi un flop) e con l’attivazione dei contratti di solidarietà espansivi nelle aziende che lavorano a pieno regime (finanziato con le maggiori entrate derivanti dalla lotta all’evasione).