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”Se non trovano lavoro i giovani, l’Italia e’ finita”

Questa lapidaria affermazione del Presidente della Repubblica non è affatto pessimistica. E’ il realistico allarme perché sull’occupazione si cerchino strade non tradizionali, ma adeguate alla dimensione della questione, specie se riferita ai giovani. E quelle parole così pesanti sono giunte all’indomani di un flop purtroppo annunciato. Molti studiosi, osservatori, intellettuali – non certo preconcettamente ostili al Governo Letta – avevano accolto il decreto legge n. 76 del giugno 2013 con una certa dose di scetticismo. 

Gli incentivi erano ben dotati (800 milioni di euro in due anni), le previsioni erano improntate all’ottimismo (100.000 assunzioni entro giugno 2015), imprese e sindacati avevano espresso parere positivo (finanche con un documento congiunto). Lo scetticismo era fondamentalmente motivato dalla sopravalutazione governativa della così detta ripresa, che invece si è rivelata un refolo appena percepibile e dalla vischiosità delle condizioni definite per l’accesso agli incentivi.

Posto che sul tasso di crescita del Paese si può soltanto criticare l’ottimismo con cui si sono fatti i calcoli occupazionali, è la seconda caratteristica che ha diminuito le potenzialità   dello strumento incentivante. Gli aventi diritto devono avere  meno di 29 anni ed essere disoccupati da almeno 6 mesi. Prima incongruità, perché sopra i 29 anni e con disoccupazione sotto i 5 anni e 11 mesi  ci sono decine di migliaia di giovani che potrebbero avere le caratteristiche professionali ricercate dalle aziende ma, se assunti, non usufruirebbero dell’incentivo. Inoltre, devono essere presi con un contratto a tempo indeterminato; ma con una crescita sotto lo zero, è inevitabile che soltanto un numero esiguo di aziende possono permetterselo, specie se – com’è giusto – devono essere assunzioni aggiuntive all’organico esistente e  se sanno già in partenza che godono dell’agevolazione  per solo 18 mesi. Ma la chicca vera è che possono  usufruire della misura i privi di diploma di scuola media superiore o professionale. Un incentivo soltanto per chi è chiamato a fare lavori dequalificati. Ma vi pare ragionevole che nel 2013, questa possa essere stata valutata come una giusta discriminante qualitativa?

E’ ragionevole pensare che tutte queste restrizioni siano state messe per evitare che le domande superassero di gran lunga le disponibilità finanziarie. Ma l’effetto è stato opposto; si è speso troppo poco. A giugno 2014, l’Inps aveva confermato circa 20.000 domande (sulle 28.606 presentate), per un importo complessivo impegnato pari a circa 235 milioni di euro (su 794 milioni complessivi). Dato che la scadenza ultima per presentare le domande è fissata al 30 giugno 2015, ci sarebbe tempo per correggere la legge, eliminando almeno il vincolo di età e di qualificazione di (non) studio. Forse così, si aumenterebbe l’interesse sia delle aziende che dei giovani interessati. Anche perché, sono in tanti a ritenere che la liberalizzazione sui contratti a termine, avvenuta recentemente, possa aver modificato le opzioni sulle assunzioni da parte delle aziende.

Infatti, se così fosse, si avrebbe la conferma che un costo del lavoro più basso non è la priorità nelle scelte occupazionali delle aziende. E’ la buona flessibilità, l’esigenza che va assicurata ai lavoratori e alle aziende. Ne discende che sarebbe ora di non battere più sul chiodo degli sgravi salariali, anche se si fa riferimento al Sud. Non serve a niente. La provvista della legge 76 dedicata al Mezzogiorno è stata cospicua (500 milioni), ma non per questo c’è stata la ressa per utilizzarla. E se deve trattarsi di occupazione aggiuntiva, meglio destinare le risorse disponibili a finanziare contratti di solidarietà attivi, cioè quelli che intervengono non per tutelare l’occupazione in situazioni di crisi, ma che ridistribuiscono il lavoro fra quelli che già ce l’hanno, consentendo ai giovani di avere un’opportunità. Sia al Sud, semmai con una dotazione maggiore, che al Nord. Questo tipo di contratto è già previsto dalla legge, ma non ha dotazione finanziaria e quindi è su un binario morto.

Invece, una strategia di flessibilità controllabile e di ridistribuzione del lavoro contrattabile può assicurare un orientamento delle tendenze occupazionali, articolate per settori e territori, migliore che quelle indotte dalla legge 76. Infatti, questa non da alcun ruolo né alle istituzioni locali, né ai soggetti di intermediazione del mercato del lavoro, né alle parti sociali. Al meglio, consente di fare delle osservazioni ex post – spesso,  come nel caso, amare – mentre la crisi attuale evidenzia la necessità di interventi con il bisturi, certo meno appariscenti di quelli che sembrano sciabolate, ma che, se colpiscono nel vuoto, risultano poco efficaci. Il governo della buona flessibilità e l’incentivazione alla ripartizione del tempo di lavoro sono due facce della stessa medaglia, quella della crescita della produttività in una fase di stagnazione che non ha affatto caratteristiche congiunturali, ma anzi, è ben strutturata. Una crescita obbligata innanzitutto dall’esigenza che sia durevole e nello stesso tempo non labour saving.

A questo fine, da molte parti si attende la conclusione della discussione parlamentare, che dovrà licenziare la delega sul “jobs act”, come la stella polare delle politiche del lavoro. Parecchie misure sono innovative, ma per lo più devono fare i conti con le disponibilità finanziarie che allo stato sono ignote (riforma degli ammortizzatori sociali); altre sono appese al difficile rapporto tra Stato e Regioni  (Agenzia nazionale delle politiche attive e passive e potenziamento dei servizi per l’impiego); una è un’araba fenice (contratto unico a tutele crescenti) e francamente non si capisce perché la legge debba interferire in campi propri dell’autonomia contrattuale delle parti sociali, alle quali andrebbe rinviata l’ eventuale formulazione, senza infognarsi nuovamente sull’articolo 18.

In realtà, se ci fosse un prevalente interesse a far lievitare l’occupazione nel più breve tempo possibile, sarebbe opportuno prevedere, senza attendere l’applicazione della delega, di rendere più costosi (dal lato contributivo) sia il contratto a termine che gli straordinari, rafforzando così la buona flessibilità e di spostare tutti gli incentivi per l’occupazione giovanile attualmente esistenti, sulla ripartizione del lavoro a livello aziendale o territoriale. Misure semplici e di immediata applicazione che darebbero più certezza agli operatori e ai beneficiari, ma soprattutto interesserebbero concretamente la gente.

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