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Fuori dal coro, per il futuro dell’agricoltura

Ho assistito alla sfilata dei trattori per Roma, dopo aver visto e rivisto in tv quanto succedeva da tutta Europa verso Bruxelles e da tutta Italia verso Roma. Mezzi portentosi, aerodinamici, con cabine insonorizzate, computerizzate e riscaldate, gomme tirate a lucido, slogan in tutte le lingue. Agricoltori che morti di fame non erano, anche acculturati, nuova generazione che non ha niente da invidiare verso le professioni e i mestieri urbani. Una immagine in fin dei conti rassicurante: è un settore per niente arretrato, capace di fare qualità, composto da un gran numero di giovani.

Eppure rabbioso verso la UE e verso il Governo italiano. Una UE finora generosa, se quasi un 40% del suo bilancio è destinato al sostegno dell’agricoltura. Un Governo che subito si è schierato con la protesta, dopo aver adottato misure condivise con la Commissione Europea. Prima ancora che l’opposizione, le forze di maggioranza hanno deciso di cavalcare le richieste restauratrici che provenivano dai contadini ribelli e come ogni bambino furbetto, hanno puntato l’indice verso altri colpevoli, ovviamente residenti in Belgio.

La potenza della ricerca del consenso, comunque. E’ proprio vero. Il politico è chi guarda all’immediato, lo statista è quello che punta al futuro. Complice un’informazione stampa, video, social quasi unanimemente favorevole alla mucca ercolina, c’è stata una affannosa rincorsa alla ricerca di soluzioni per placare la mobilitazione. Tutte di marca passatista: meno tasse, meno vincoli allo sfruttamento della terra, meno importanza alla lotta agli inquinamenti.

La fiammata protestataria si spegnerà. A livello europeo, sono state già azzerate le decisioni prese e si aprirà un tavolo di confronto con le organizzazioni degli agricoltori. In Italia si stanno affinando soliti aggiustamenti. Nessun problema strutturale è stato concretamente affrontato. Ma quanto deciso, è servito a placare gli animi e smontare le barricate.  Ad onore degli agricoltori, la settimana di occupazione delle autostrade e delle strade urbane è stata gestita con grande prudenza. A dimostrazione che è gente non esasperata e con i piedi per terra. Ma a maggior ragione, è sbagliato lisciare il pelo di un movimento eterogeneo, anche se complessivamente non eversivo, senza orientarlo nella giusta direzione. 

Purtroppo le organizzazioni di rappresentanza storiche italiane hanno fatto flop. A partire dalla Coldiretti. La più grande e storica associazione del settore è stata contestata alla pari della UE e del Governo. C’è un mondo contadino che non si riconosce in quello che hanno fatto finora queste organizzazioni. E la critica più feroce è stata che hanno lasciato che le grandi aziende dell’agroindustriale facessero man bassa dei contributi europei.

Qui, c’è uno dei nodi fondamentali del disagio del settore. La filiera alimentare è diventata più lunga e concentrata e spesso gestita da organizzazioni poco trasparenti se non mafiose. La catena del valore si è spostata, infatti, verso il trasporto, l’imballaggio, la distribuzione; la “ciccia” del prezzo se la spartiscono questi passaggi con il corollario di minute o grosse speculazioni. Il produttore e il consumatore ne pagano le spese. Il produttore, specie se piccolo, ricorrendo al lavoro nero e a salari di fame per gli extracomunitari utilizzati per la coltivazione, la raccolta e l’allevamento. Il consumatore, specie se non dispone di soluzioni a km zero, stringendo la cinghia, per prezzi sempre crescenti e spesso fuori controllo.

Un’alleanza tra salariati agricoli e consumatori non si è ancora vista. Una tra coltivatori e cittadini non si è ancora sviluppata. Una tra produttori piccoli e grandi con il sistema della grande distribuzione sta facendo ancora incerti passi. Altro modo per tutelare il futuro dell’agricoltura italiana non c’è.

Anche perché incombe la crisi climatica, nonostante si voglia esorcizzarla. Avrei molto apprezzato che i manifestanti avessero alzato l’asticella delle rivendicazioni su questo terreno. Chiedendo che una volta per tutte si smettesse di confezionare in imballaggi sempre più costosi e inquinanti frutta e verdura. Che ci fosse un programma europeo e quindi nazionale di accelerazione della costituzione delle comunità energetiche, per autoprodurre energia. Che si mettesse mano ad una progettazione seria della raccolta e dell’utilizzo delle acque per fronteggiare siccità ed evitare alluvioni. Che ci fosse un’incentivazione significativa del riposo delle terre, piuttosto che la forsennata utilizzazione di concimi chimici e pesticidi su tutte le terre coltivabili da mettere a coltura ogni anno.

In stagioni in cui, da ragazzo, passavo lunghi periodi in campagna e la gente era veramente povera, la coltura principale veniva alternata dalle colture che restituivano alla terra sostanze organiche, buone per far rendere molto la produzione dell’anno successivo. Ora, si sopperisce a questa naturale rigenerazione con arature sempre più profonde e concimi sempre più dannosi anche per la salute dei produttori e dei consumatori. E se è vero che i conti non tornano comunque, vanno individuate nuove strade, nuove alleanze, nuovi soggetti.

Se ciò non avverrà, la logica della corporativizzazione della società metterà radici profonde. Sempre di più si affermerà il convincimento che soltanto con le maniere forti, si diventa più ascoltato, più tutelato, più rispettato. Ma siccome vale per l’agricoltura ma anche per altri settori della realtà produttiva e sociale del Paese che il cambiamento sia inevitabile, rinunciando ad affrontarlo in tempo e con gradualità, ci troveremo, prima o poi, ma sicuramente a dover decidere di essere più poveri o più condannati a fare precipitosi mutamenti dei nostri stili di vita e delle nostre attività economiche e sociali. 

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