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Il lavoro, da un capitalismo della crescita al capitalismo della sostenibilità

1) Quando si parla di lavoro c’è sempre chi ricorda che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro, il che significa che il titolo di merito che il cittadino può rivendicare è legato al contributo del suo lavoro. E dal momento che non tutti i cittadini hanno eguale opportunità di un lavoro produttivo e dignitoso, la Repubblica si impegna a promuovere le condizioni per rendere effettivo tale diritto. 

Occorre tornare alla memoria di un paese sconfitto e devastato da una guerra che affronta l’obiettivo di una sua ricostruzione potendo contare soprattutto sulle braccia dei suoi lavoratori, in un contesto povero di capitale e di tecnologie. Infatti, il lavoro fu protagonista nella riconversione da una economia di guerra a una economia di pace e nel percorso di avvio delle prime industrie di prodotti di serie. 

I problemi di riallocazione della manodopera e di regolazione del lavoro, dal lato normativo e retributivo, furono gestiti dalle rappresentanze delle imprese e dei lavoratori attraverso lo strumento della contrattazione interconfederale, in presenza del vincolo condiviso di privilegiare gli investimenti produttivi per favorire la ripresa dell’occupazione. La determinazione dei salari fu affidata ad una pianificazione centralizzata dei minimi, con rigide differenze (per settore, territorio, sesso, età, qualifica) e la dinamica dei salari fu essenzialmente legata alla scala mobile, escludendo ogni collegamento con la produttività. La gestione delle esuberanze di personale, dovute alle riconversioni industriali, fu affidata a procedure contrattuali per le soluzioni delle controversie gestite dalle parti sociali a livello di impresa, con l’intervento risolutivo, previsto in molti casi, di un arbitro esterno, comunemente designato. Nonostante lo strascico di una guerra civile divisiva, il mondo del lavoro, diede un contributo fondamentale al risanamento delle finanze pubbliche e al contenimento dell’inflazione, favorendo quelle capacità competitive che aprirono il Paese alla liberalizzazione degli scambi commerciali. È nella seconda metà degli anni ’60 del secolo scorso, con il consolidamento del processo di industrializzazione, che il mondo del lavoro intraprende un nuovo percorso di autotutela collettiva che troverà il suo culmine alla fine del decennio. Una duplice sfida al potere politico per ottenere un welfare inclusivo e al potere delle imprese per ottenere condizioni retributive e normative di lavoro migliori. La vivacità dei conflitti sociali, in questa fase di rivendicazionismi sindacali, non impedì l’ingresso del Paese nella gerarchia dei paesi più avanzati, grazie ad una crescita costante del reddito e della produttività. Un periodo, peraltro, caratterizzato da un equilibrio sostenibile fra interventismo dello Stato e autonomia dell’economia di mercato, tra ruolo della legge e della contrattazione collettiva.  

Fu agli inizi degli anni ’90 che il sistema Paese collassò facendo parlare di passaggio alla Seconda Repubblica. La crisi politica portò alla scomparsa dei partiti che avevano guidato la ricostruzione post-bellica e la crisi economica e finanziaria si manifestò con il declassamento del nostro debito pubblico e il declino di competitività del sistema produttivo, erosa da un’alta inflazione. 

Fu il Governo Ciampi a gestire tale emergenza coinvolgendo le rappresentanze dei diversi interessi collettivi nella stipula di un Patto di Concertazione del luglio 1993. Un patto imperniato su una politica dei redditi anti-inflazionistica e su una politica di riforme nell’obiettivo condiviso di risanare le disfunzioni strutturali all’origine della crisi. Le cose, come è noto, non andarono come previsto, per la fragilità di un sistema politico in balia di maggioranze instabili e per la debolezza di un sistema produttivo in difficoltà nell’affrontare le nuove sfide tecnologiche e della globalizzazione competitiva. L’impegno riformistico rimase sulla carta, mentre il risultato principale di tale stagione fu il progressivo contenimento dell’inflazione grazie soprattutto al contributo della moderazione salariale e alla flessibilizzazione dei rapporti di lavoro. Il Paese si assestò su un equilibrio economico precario, sorretto da svalutazioni competitive ed iniziò una fase di stagnazione della produttività e dei salari.

2) Da allora, c’è stato un lungo periodo di debolezza retributiva, accentuata ora dalla ripresa dell’inflazione: da un lato l’impoverimento della struttura produttiva quale risultato di una terziarizzazione a basso valore aggiunto e sostenuta, almeno in parte, da un’occupazione precaria; dall’altro la debolezza di una crescita economica che ha ridotto i flussi di reddito in grado di alimentare il rinnovo dei contratti collettivi, con il conseguente depotenziamento rappresentativo del mondo delle imprese e del lavoro. 

Una recente ricerca BNL-Paribas chiarisce la portata di tali eventi: se agli inizi degli anni 2000 per ogni euro speso per il costo del lavoro si ricavavano 2,1 quote di valore aggiunto, nel 2021, si è scesi al 1,75 con una perdita del 15%. 

È vero che negli anni successivi al 2021 i conti economici sono migliorati, sia sul piano del reddito che dell’occupazione, ma il lavoro non se ne è avvantaggiato e ora si stanno manifestando nuovi segnali di rallentamento della crescita economica che anticipano una nuova riconversione produttiva a sostegno di uno sviluppo sostenibile. 

Non può sfuggire che si tratta di una discontinuità non certo marginale, contrassegnata dal passaggio da un capitalismo della crescita ad un capitalismo, appunto, della sostenibilità. La crescita economica, che deve farsi carico della sostenibilità, include obiettivi che vanno ben al di là del rendere più efficiente la macchina produttiva, ottimizzando, come si dice, l’impiego delle risorse disponibili. La crescita economica sostenibile ha i suoi costi, richiede investimenti che incidono sulle organizzazioni del lavoro e sui processi di redistribuzione del reddito.

3) È facile prevedere che, nel nuovo corso, il lavoro sarà il fattore produttivo destinato ad essere sfavorito perchè le opportunità che si aprono ad una sua rivalutazione retributiva e professionale saranno gestite, in termini selettivi, dalle imprese più innovative, mancando al lavoro una sua efficace capacità rappresentativa per il declassamento persistente della contrattazione decentrata e per l’indebolimento delle strutture sindacali di impresa. Si può tornare all’apologo di Karl Marx, il quale osservava come i processi di distribuzione del reddito dipendessero da due variabili: l’ampiezza della zuppiera e la dimensione dei cucchiai dei commensali. Il lavoro contribuisce ad accrescere la dimensione della zuppiera ma il suo cucchiaio rimane sempre piccolo. Un fatto che non ha solo risvolti sociali di impoverimento del lavoro ma anche economici: il declino della massa salariale nella composizione del reddito che produce effetti depressivi sui consumi, in presenza, peraltro, di un divenire incerto dell’export in un mondo sempre più turbolento; l’indebolimento della “frusta salariale” che rallenta l’innovazione dei processi produttivi offrendo una tutela all’imprenditore più pigro nel cogliere le opportunità di mercato. Va ricordato, a tale proposito, il declino di un paese che nel 2000 vantava un reddito pro-capite pari al 130% di quello medio dell’eurozona e che ora è al di sotto di pochi punti percentuali di tale media. 

C’è un legame fra l’impoverimento delle strutture economiche e quello delle istituzioni rappresentative, sia politiche che sociali, dovuto alla riduzione della coesione sociale che, nei sistemi democratici, è il fattore propulsivo di uno sviluppo equilibrato. L’arte di arrangiarsi del popolo italiano, che ha consentito fino ad oggi al sistema Paese di galleggiare, in virtù della combinazione di economia sommersa e evasione fiscale, non è più sufficiente per affrontare le sfide di un nuovo ciclo di sviluppo che deve privilegiare, come avvenuto nel secondo dopoguerra, una intensificazione degli investimenti pubblici e privati. In questa partita aperta, la politica esercita il suo primato, in quanto legittimata dal consenso popolare espresso dal voto, ma, nel nostro Paese, la sua fragilità solleva dubbi sulla sua “capacità governante”, cioè di produrre quella forza d’urto in grado di contrastare le resistenze corporative degli interessi più forti e organizzati. È un dato strutturale delle democrazie che la politica per realizzare i suoi obiettivi, non disponendo di un potere autocratico, debba interagire con le rappresentanze collettive degli interessi per un insieme di materie che, in una economia di mercato, sono soggette alla loro autoregolazione (per tutte, il rapporto produttività/lavoro). 

Nello stesso tempo però anche queste rappresentanze collettive hanno bisogno di confrontarsi con il Governo su alcune questioni che sostengono l’allargamento del gioco democratico. Le imprese italiane devono competere con quelle di paesi (Usa, Germania) che sono in grado di impegnare imponenti risorse pubbliche a sostegno della transizione “green” ed energetica del loro apparato produttivo. Da qui la richiesta, da parte delle nostre imprese, di politiche di sostegno da parte dello Stato per non essere discriminate nella loro crescita innovativa. 

Nello stesso tempo il mondo del lavoro deve fare i conti con gli squilibri occupazionali e con le diseguaglianze sociali attivate dalla transizione economica in atto e deve interagire con il Governo per ottenere politiche economiche e del lavoro che promuovano una occupazione di qualità ed offrano protezione sociale alle categorie sociali più fragili, in un sistema di welfare che recuperi la sua capacità inclusiva. 

Una competizione di tutti contro tutti che rischia di dar vita a un gioco a somma zero, dove il vantaggio dell’uno andrebbe a svantaggio dell’altro, radicalizzando il conflitto sociale.

4) Draghi, fin dal suo insediamento a Palazzo Chigi ha evidenziato l’importanza di una prospettiva economica condivisa in cui si riconoscessero le diverse rappresentanze degli interessi nell’obiettivo di ricomporre le loro diversità su alcuni obiettivi comuni. Un qualcosa di non estraneo alla cultura europea, se si ricorda la lunga stagione nel corso del processo di industrializzazione in cui questa confluenza di interessi, per quanto conflittuale, è avvenuta, nella condivisione dei valori costitutivi della cosiddetta economia sociale di mercato. Un modello di capitalismo responsabile, crocevia di molteplici indirizzi ideali (socialista, cattolico, liberal-democratico) che associava alle dinamiche di mercato un ruolo attivo dello Stato nelle politiche economiche e del Welfare e un protagonismo dei movimenti sociali (partiti e sindacati di massa) che hanno alimentato partecipazione alla vita politica ed associativa. 

Il nostro Paese, come è noto, ha poco partecipato di questa cultura cooperativa che, in ogni caso, è stata travolta dal nuovo capitalismo della globalizzazione che ha prodotto uno sfasamento fra la sovranità delle istituzioni, a livello nazionale e la dimensione globale dei mercati.

Gli squilibri che si sono determinati nella sfera politica e sociale hanno portato ad un indebolimento delle istituzioni rappresentative, inceppando i meccanismi della partecipazione democratica. Si è rimesso in moto un processo di ricentralizzazione del potere decisionale ai vertici delle organizzazioni politiche e sociali, con il primato del Governo sul Parlamento e con il rafforzamento del centralismo burocratico nella rappresentanza collettiva del lavoro e del capitale. Il tessuto dei rapporti cooperativi fra le parti sociali e tra queste ed il Governo si è sfaldato, e il Paese ora affronta la nuova stagione del capitalismo della sostenibilità in presenza di condizioni di polarizzazione conflittuale. Il lavoro è la pedina perdente della situazione in atto e, avendo perso la capacità di esprimere una soggettività collettiva unitaria, rischia di porsi ai margini dei cambiamenti, accentuando le sue condizioni di sfavore. 

Non è ancora però detto che non si possa invertire questo declino. Il nuovo capitalismo della sostenibilità può divenire l’occasione per un più avanzato riequilibrio fra gli interessi generali della collettività e quelli di parte, rappresentati dal capitale e dal lavoro. 

Esso propone un modo nuovo di fare impresa e mercato, indirizzando il profitto verso mediazioni con l’ambiente e fattori produttivi. Una cesura con una esperienza di globalizzazione passata, in cui il profitto è stato conseguito, spesso, a scapito dei lavoratori, dei consumatori e dei territori. Sono le aziende più innovative, come già detto in precedenza, a cogliere la portata innovativa della sostenibilità, integrando i propri bilanci finanziari con un complesso di valutazioni riguardanti l’impatto delle politiche aziendali sull’ambiente, sul sociale e sulla “governance” (il metodo ESG). Per le grandi aziende è prevista una regolazione europea di controllo e si può prevedere una estensione di tali pratiche al loro indotto. In ogni caso si tratta di una parte significativa ma ridotta del nostro apparato produttivo, povero di campioni nazionali e fortemente rappresentato da aziende minori, forza fondamentale della resilienza del nostro Paese, ma poco inclini ad innovare le loro strategie di impresa, soprattutto dal lato del lavoro.

Si può quindi pensare che il lavoro, nelle condizioni attuali di mercato, difficilmente possa recuperare la capacità di farsi promotore di un progetto capace di invertire il suo attuale declino.

La rivalutazione del lavoro non può essere dissociata da una rigenerazione del sistema democratico che riattivi la partecipazione dal basso, a correzione dell’attuale configurazione oligarchica delle diverse istituzioni politiche e sociali. Va recuperato quanto suggerito da Norberto Bobbio, nel suo “Il futuro della Democrazia” (edizioni Corriere della Sera, pag. 57) laddove indica, quale parametro dello sviluppo democratico, il numero di sedi, diverse da quelle politiche, in cui il cittadino, nelle sue diverse posizioni sociali, è chiamato a partecipare. Oggi il cittadino, nella democrazia politica, una volta deposto il suo voto nell’urna, è impotente e subisce passivamente le inefficienze di un blocco burocratico sindacale che co-gestisce malamente quei servizi pubblici di prossimità (sanità, trasporti pubblici locali) essenziali per la qualità della sua vita quotidiana. Così come il lavoratore non trova nella democrazia sociale, costituita dalle istituzioni rappresentative del lavoro, quegli spazi di accoglienza solidale cui portare la propria adesione. 

La complessità dei cambiamenti che accompagnano la crescita di una nuova società digitale richiede una “governance” partecipata che recuperi, accanto al ruolo della politica, quello delle rappresentanze collettive degli interessi che dovrebbero essere chiamate, legittimamente, a partecipare a decisioni pubbliche quando sono in gioco materie che, in una economia di mercato, sono di loro pertinenza. È questo ruolo dei corpi intermedi che consente di indirizzare la molteplicità disordinata degli interessi individuali in una prospettiva di sviluppo condivisa. Laddove prevale il populismo, alimentato dalle comunicazioni in rete, si assiste ad onde emotive capaci di unificare temporaneamente una opinione pubblica frammentata ed eterogenea ma che si rilevano, presto, fuochi di paglia, incapaci di costruire un progetto di governo dotato di un minimo di coerenza.

È più che giustificato il pessimismo sulla capacità della società italiana di liberarsi dal prevalere degli egoismi corporativi. E in questa realtà di egoismi corporativi, il mondo del lavoro è il manzoniano vaso di coccio tra i vasi di ferro. Si ripete, spesso, che la dignità del lavoro è un tratto distintivo della civiltà democratica, sottovalutando che la sua attuale negazione rende fragile la nostra democrazia, approfondendo i solchi fra blocchi sociali e fra generazioni. Ricostruire una capacità rappresentativa dei segmenti più deboli della collettività è la condizione per rinsaldare la coesione sociale necessaria per la tenuta dei sistemi democratici. Ciò significa che, accanto alla politica, devono tornare in campo le istituzioni rappresentative della società civile per recuperare quel senso di comunità che arricchisce i rapporti sociali in un percorso più ampio di democratizzazione della società. 

È questo il contesto nel quale il lavoro può trovare le energie interne per avviare un percorso di promozione sociale, perchè è solo nei sistemi democratici che sussiste la possibilità di coniugare lo sviluppo economico con la giustizia sociale che ha, come suo presupposto, un contesto di libertà individuali e collettive. Di fronte all’attuale smarrimento di una società che sta perdendo la percezione del proprio futuro, c’è da attendersi che ciò che non produce l’attuale intelligenza delle istituzioni lo possa produrre lo stato di necessità. E ciò può valere soprattutto per il lavoro. Un mondo del lavoro, frustrato ed impoverito, perchè debole nella sua capacità contrattuale con le imprese e privo di una sua autorità rappresentativa nei rapporti del Governo, non può che essere l’anello debole nella traiettoria dei cambiamenti in atto, destinati a modificarne il suo posizionamento nelle organizzazioni produttive e la sua ricollocazione in un mercato del lavoro investito dalle nuove tecnologie. 

È già avvenuto nel passato, nel passaggio da una economia agricola ad una industriale, che il lavoro abbia tardato nel dar vita ad un contropotere collettivo in grado di ricostruire un sistema di tutele sociali. Il sindacalismo industriale è stata la risposta che è però divenuta sempre più debole nel passaggio ad una successiva economia terziaria che ha dissolto i blocchi sociali legati alla figura dell’operaio di massa. L’evoluzione delle strutture economiche non è stata accompagnata da una corrispondente evoluzione delle strutture sociali, ancora riflettenti le condizioni di un mercato del lavoro industriale, riducendo la rappresentatività sindacale nel campo dei nuovi lavori. L’età del lavoro dipendente non è però finita né è venuta meno la necessità di una tutela collettiva che integri la strutturale debolezza di una tutela individuale in una evoluzione che accentua le diseguaglianze sociali. 

Va, infine, considerato che il futuro del lavoro non solo richiede una ricomposizione unitaria delle sue rappresentanze, che appare sempre più anacronistica per il venir meno delle ideologie di riferimento. Deve anche sincronizzarsi con la nuova stagione che si è aperta, che ha accentuato gli squilibri geo-politici, riaccendendo la competizione fra sistemi democratici e sistemi illiberali. La dimensione europea è il contesto in cui ambientare i nuovi percorsi istituzionali di integrazione per arrivare ad un nuovo stadio di maturità economica e sociale che riassorba le diversità strutturali, economiche e sociali ancora esistenti fra i diversi paesi aderenti. La dimensione globale è, invece, il contesto in cui promuovere uno sviluppo stabile ed equilibrato al cui interno sostenere la vitalità delle istituzioni democratiche. 

La rivalutazione del lavoro è parte integrante di tale progetto complesso. Agli scettici va ricordato il valore liberante della democrazia che, combinando democrazia politica e democrazia degli interessi, costituisce ancora l’unico modello in grado di soddisfare l’aspirazione di ogni essere umano di sottrarsi al dispotismo di chi governa, divenendo protagonista del proprio destino. Vale ancora il monito di W. Churchill “La democrazia è la peggiore forma di governo se si escludono tutte le altre”.

In conclusione, è nella riattivazione dei meccanismi della partecipazione democratica che il lavoro può ritrovare le energie per recuperare un ruolo nei processi di produzione e di redistribuzione del reddito. Il nuovo modello di capitalismo della sostenibilità offre nuove opportunità per ricalibrare gli interessi di parte in un progetto di sviluppo condiviso. Il mondo del lavoro non può perdere questa occasione perché la sua marginalizzazione indebolirebbe la transizione verso un nuovo modello di sviluppo sostenibile dal lato ambientale e sociale, aggravando, nel contempo, l’impoverimento partecipativo delle nostre democrazie.

*da Nota ISRIL, n.1 2024

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