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”… negli occhi di un giovane la speranza risplende”

Vorticavo sprofondando nei miei sogni e la quiete tutt’intorno si faceva sempre più ombrosa. Le stelle iniziavano a dipingere quella notte fioca e taciturna. Il temporale non riusciva a spegnerle.

Li dove la nostalgia degli uomini conserva ancora un timido bagliore, passeggiavo smarrito, quasi turbato, camminavo un passo alla volta: ero sul promontorio di una stella. Tutto ciò che la Storia aveva rigurgitato dopo il fallimento di un’utopia, dopo l’esalazione di un sogno, dopo una speranza che si intorpidisce, era li, costretto a stare in silenzio, soffocato nelle sue stesse grida spoglie di quell’inebriante fiducia che un tempo riempiva le piazze e animava i cortei.

Vagabondavo nell’ignoto, sempre più incerto ad ogni passo. Camicie nere sciolte nel magma ristagnavano nel puzzo di una palude, scarpette rosse marciavano in cerchio inciampando goffamente l’una sull’altra. Procedevo lentamente, lasciandomi alle spalle quel pantano putrido e orrifico. Il paesaggio iniziava a cambiare e un bosco tetro e fosco cominciava ad inghiottirmi. Una vecchia volpe con gli occhiali camminava avanti c indietro, bisbigliando continuamente, come fosse spiritata, sempre la stessa cantilena. Provai a rivolgermi a lei, ma mi accorsi che in quel luogo ero solo una presenza passiva, osservatrice. Aveva tra le mani un gioiello color pece che accarezzava ossessivamente, come se ne fosse schiavo. Diceva, tra un ghigno e l’altro: “Sei il mio unico padrone, il mio unico Dio”.

Dopo essermi districato tra i rovi di quel labirinto, all’uscita mi attendeva un porco grasso, che si beava tra i piaceri del sesso e del ventre. Mandrie di pecore, come soldati che obbediscono al proprio generale, gli offrivano in pasto la loro prole paffuta e, convinti che fossero buone, si cibavano delle sue feci. Il mio sguardo curioso si posava inorridito sul suo aspetto viscido e ingannatore che tanto affascinava il gregge fesso e ipocrita.

Poi, tutt’a un tratto, come se il tempo rincorresse l’avvenire, mi ritrovai in un non luogo, in uno spazio bianco e a dimensionale, dove il pallore dei confini si confondeva con il cielo e con il suolo. Occhieggiavo di qua e di là, cercando di orientarmi in quello spazio vuoto. Scorsi, non riconoscendo la distanza, un insieme di puntini neri indistinguibili tra loro che mulinavano spaesati seguendo due bandiere, una gialla e una verde. Non erano persone, erano solo macchie informi, magneticamente attratte dalle due insegne.

E in questa totale assenza di forme un bagliore squarciò il nulla, ispirando una strada, e l’eco della voce degli uomini, che sulla terra avevano combattuto l’ignavia, tuonava pugnalando il mutismo dell’indifferenza civile, che in quel non luogo si era condensata fino a dissolversi nel più assordante dei silenzi. 

Allora capii perché mi trovavo lì, perché avevo dovuto ripercorrere il marcio della politica. L’utopia senza ragione, gli intrighi di potere, la comunicazione mercenaria e poi il vuoto totale, l’incompetenza, l’ignoranza, l’inettitudine.

Viviamo in un periodo storico di grande cambiamento, in cui la politica ha mutuato ormai un linguaggio da osteria, in cui si parla al ventre dei cittadini e in cui la cultura sembra non servire più a niente. Ci stiamo terribilmente piegando su noi stessi, ci stiamo appiattendo. Non sembra ardere più nel sotto pelle dei giovani quella fiamma che tanto irresponsabilmente li portava a lottare, ad informarsi, a parteggiare nell’illusione di un mondo migliore. Viviamo di speranze e ci nutriamo di illusioni, non dobbiamo perdere la fame. Se solo potessimo conservare quell ‘atteggiamento realista e disincantato che tanto ci contraddistingue, unendolo alla voglia di imporsi, alla fiamma della pervicacia, al senso di comunità civile che si sta dissolvendo sempre di più, sarebbe forse un mondo migliore, o almeno, vivremmo nell’illusione di crederci.

Pensai a mio nonno, l’uomo più saggio che abbia mai conosciuto, al suo positivismo lucido, alla sua visione sognatrice e al suo pragmatismo efficace.

Poi, come insufflata da lui, sulla Luna che affrescava il firmamento, una poesia fluttuava nel cosmo:

“Brilla color cenere il tuo spirto su nell ‘etra

e parla bisbigliando la tua voce tiepida,

sfingea e cristallina la tua loquela timida,

luccica il tuo fascino nella notte tetra.

Luna, tu che accendi i canti della sera,

non lasciare che il sol mi sorprenda coi suoi dardi,

accogli le mie pene anche solo coi tuoi sguardi

e lumeggia la mia anima del buio ancor più nera.

Quando il sogno svanisce e la fiamma s ‘arrende,

tutto è perduto, tutto è tradito.

Ma negli occhi d’un giovane la speranza risplende,

battendo e svegliando un mondo pigro e assopito.”

*Studente del IV Liceo Classico Dante Alighieri – Roma

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