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La poverta’ sta cambiando tipologia, le politiche no

Il presente tra bisogni inevasi ed esigenze di riforma

 
Lo scorso 11 marzo il Cnel e l’Istat hanno presentato congiuntamente il 1° Rapporto sul Benessere equo e sostenibile, nel quale si tratteggia lo stato del paese, a partire da una elevata quantità di indicatori. Per quanto riguarda il Benessere economico, il Rapporto evidenzia come le famiglie italiane siano tradizionalmente caratterizzate da un’elevata propensione al ri­sparmio, una diffusa proprietà dell’abitazione, un contenuto ricorso all’indebitamento e una significativa diseguaglianza della ricchezza. Con un sistema di welfare sbilanciato verso la componente previdenziale, la famiglia ha assolto una funzione di ammortizzatore sociale a difesa dei membri più deboli (minori, giovani e anziani), supplendo alle carenze di tutela e nascondendo le difficoltà di accesso all’indipendenza economica di giovani di ambo i sessi e donne di ogni età.


Ma il Rapporto segnala come “La crisi economica degli ultimi cinque anni sta mostrando i limiti di questo modello, accen­tuando le disuguaglianze tra classi sociali, le profonde differenze territoriali e riducendo ulteriormente la già scarsa mobilità sociale. Alcuni segmenti di popolazione e zone del Pa­ese sono stati particolarmente colpiti dalla riduzione dei posti di lavoro: la percentuale degli individui in famiglie senza occupati è passata, tra il 2007 e il 2011, dal 5,1% al 7,2%, con una dinamica più accentuata tra gli under 25 (per i quali è cresciuta dal 5,4% all’8%) e nel Mezzo­giorno (dove dal 9,9% si è saliti al 13,5%). Il potere d’acquisto, cioè il reddito disponibile delle famiglie in termini reali, è diminuito del 5% tra il 2007 e il 2011, ma fino al 2009 ciò non si è tradotto in un significativo aumento degli indicatori di povertà e di deprivazione grave (…), grazie al potenziamento degli interventi di sostegno al reddito dei lavoratori (indennità di disoccupazione e assegni di integrazione salariale) e al funzionamento delle reti di solidarietà familiare. 

Sempre secondo il Rapporto “le famiglie hanno tamponato la progressiva erosione del potere d’acquisto intaccando il patrimonio, risparmiando meno e, in alcuni casi, indebitandosi: la quota di persone in famiglie che hanno ricevuto aiuti in denaro o in natura da parenti non coabitanti, amici, istituzioni o altri è passata dal 15,3% del 2010 al 18,8% del 2011, mentre nei primi nove mesi del 2012 la quota delle famiglie indebitate è passata dal 2,3% al 6,5%. Con il perdura­re della crisi, nel 2011 si segnala un deciso deterioramento della situazione, testimoniato dall’impennata degli indicatori di deprivazione materiale: la grave deprivazione aumenta di 4,2 punti percentuali, passando dal 6,9% all’11,1%, mentre il rischio di povertà calcolato sul reddito 2010 cresce dal 13,6% al 15,1% nel Centro e dal 31% al 34,5% nel Mezzogiorno. Inol­tre, aumenta anche la disuguaglianza del reddito: infatti, il rapporto tra il reddito posseduto dal 20% più ricco della popolazione e il 20% più povero sale da 5,1 del 2008 a 5,6 del 2011.”

 
Lo sguardo Caritas: una povertà che si trasforma e cambia aspetto
 
In base all’esperienza di ascolto delle Caritas diocesane spiccano alcune tendenze dei fenomeni di povertà ed esclusione sociale:
 
  • crescono le persone che si rivolgono ai Centri di Ascolto e ai servizi socio-assistenziali gestiti dalle Caritas diocesane e  cresce la percentuale di italiani;
  • cresce la multi-problematicità delle persone prese in carico: soprattutto nel caso degli italiani, le storie di vita sono sempre più complesse e si caratterizzano spesso per la presenza di patologie socio-sanitarie di non facile risoluzione;
  • la fragilità occupazionale è evidente: cassa integrazione, occupazioni saltuarie, lavoro nero, rendono difficile per molte famiglie coprire le necessità, anche più elementari, del quotidiano;
  • aumentano gli anziani e le persone in età matura che si affacciano ai servizi Caritas;
  • coerentemente con le tendenze sopra evidenziate, diminuiscono i “senza reddito” e i “senza-tetto”: ormai dal 2010 calano infatti, in modo vistoso, coloro che si dichiarano a “reddito zero” e vivono sulla strada;
  • anche se si assiste ad una “normalizzazione sociale” nel profilo dell’utenza Caritas, si registra un peggioramento di chi stava già male: aumentano in percentuale le situazioni di povertà estrema, che coesistono tuttavia con una vita apparentemente normale, magari vissuta all’interno di un’abitazione di proprietà.
 
 
Alcuni limiti dell’intervento nel contrasto alla povertà
 
L’assenza di una strategia nazionale di contrasto alla povertà – grazie anche alla poco meditata riforma del Titolo V della Costituzione e della contestuale assenza di uno strumento di sostegno al reddito delle famiglie povero sul modello europeo – è evidenziata da una serie di limiti del sistema di protezione sociale italiano, tra i quali:
 
  • la dispersione delle misure economiche su una pluralità di provvedimenti nazionali, regionali, locali, gestiti da enti e organismi di diversa natura, al di fuori da qualsiasi tipo di regia e coordinamento complessivo;
  • l’estrema varietà e sperequazioni nella definizione del livello di reddito della famiglia, necessario per poter usufruire di determinate prestazioni, calcolato spesso sulle condizioni socio-economiche dell’anno precedente;
  • il forte carattere categoriale di gran parte delle misure di sostegno economico o di agevolazione tariffaria degli enti locali;
  • il progressivo restringimento delle disponibilità finanziarie nel settore socio-assistenziale, che sta determinando la negazione o la riduzione repentina dei diritti ad una serie di fasce sociali.
 
A questo quadro si aggiunge il dramma dei divari territoriali, il quale rende meno cittadini in alcuni contesti territoriali e rappresenta una ulteriore sfida al modello attuale di welfare, che si coniuga al tema di un nuovo modello di sviluppo per le regioni meridionali.
L’effetto complessivo di quanto sopradescritto è quello di un vero e proprio percorso ad ostacoli per quanti si trovano in condizioni di bisogno nei diversi territori.
 
Agenda per la nuova legislatura
 
Appare evidente che tra i rischi generati dalla instabilità politica consegnataci dalle elezioni del febbraio scorso, vi è quello di un governo debole, in grado di trovare accordi solo per i problemi considerati più urgenti.
 
La sottovalutazione della condizione di sofferenza sociale che il paese sta affrontando non sarebbe però un segnale di lungimiranza politica. E allora occorre chiedersi: quali sono, in campo sociale, gli ambiti di intervento normativo non rinviabili?
 
Anzitutto è necessaria una decisa azione di sostegno alle famiglie, che offra garanzie e tutele certe, al di là dei drammatici differenziali regionali (pure parzialmente livellati dalla minore disponibilità di risorse in tempo di crisi), a partire da una misura universalistica di contrasto della povertà. E si propone come necessario un ripensamento “concettuale” del sistema di welfare, da orientare sempre più alla famiglia come soggetto  certamente esposto ai rischi dell’esclusione, ma anche come agente per l’inclusione.
 
La sola cassa integrazione – comunque da rifinanziare nei prossimi mesi – non è sufficiente per contrastare gli effetti della crisi, innanzitutto perché tutela solo alcune tipologie di condizioni occupazionali, con un approccio categoriale. D’altro canto la pur lodevole sperimentazione della nuova social card, avviata a gennaio nelle 12 città metropolitane, rappresenta una prospettiva interessante, a patto che operi in una prospettiva di generalizzazione sempre più sussidiaria. Oggi, infatti, l’unica forma esplicita di contrasto istituzionale alla povertà è rappresentata dalla social card ordinaria, finanziata parzialmente per il 2013, accanto al programma di aiuti alimentari gestito dall’AGEA  – che nel 2012 hanno aiutato 4 milioni di persone – anche questo senza una garanzia di prosecuzione. 
 
Reddito di cittadinanza versus reddito minino
 
Anche in questo ambito il confuso dibattito preelettorale sul tema di una misura di sostegno al reddito delle famiglie in difficoltà ha oscillato tra il populismo di un presunto reddito di cittadinanza – insostenibile per le finanze pubbliche non solo italiane, ma di gran parte delle democrazie occidentali – e un   reddito minimo dai contorni non molto nitidi.
 
Tito Boeri e Roberto Perotti su la Voce.info del 5 marzo scorso hanno chiarito che il  reddito di cittadinanza è un programma di contrasto alla povertà di tipo universalistico in cui la concessione del sussidio non è subordinata a un accertamento delle condizioni economiche e patrimoniali dell’individuo. Ma “proprio per questo è economicamente infattibile. (…) Si consideri un reddito di cittadinanza che garantisca a ogni individuo un trasferimento mensile, indipendentemente dal reddito e dalla situazione lavorativa, di 500 euro al mese (un importo chiaramente prudenziale); si supponga che venga corrisposto ai circa 50 milioni di individui con più di 18 anni. Il totale della spesa per questo programma sarebbe di 300 miliardi di euro, quasi il 20 per cento del Pil. “
 
D’altro canto Il reddito minimo garantito è un programma universale e selettivo, come  spiegano sempre i due economisti “nel senso che è basato su regole uguali per tutti (non limitato ad alcune categorie di lavoratori come nella tradizione italiana), che subordinano la concessione del sussidio ad accertamenti su reddito e patrimonio di chi lo domanda. Questo è uno schema oggi esistente, pur in forme molto diverse, in tutti i paesi dell’Unione Europea a 15. Il reddito minimo garantito dovrebbe sostituire e riordinare molti schemi preesistenti, riducendo sprechi ed evitando la compresenza di tanti strumenti presenti.
 
Dovrebbe infatti sostituire le pensioni sociali e le integrazioni al minimo nonché tutte le prestazioni di indennità civile: assegno di assistenza, indennità di frequenza minori, pensioni di inabilità, e indennità di accompagnamento.” La stima finanziaria – ipotizzando sempre un tetto procapite di 500 euro del reddito minimo è rilevante rispetto alla situazione finanziaria del paese, ma più sostenibile: circa 10 miliardi all’anno.
 
E’ possibile altro?
 
Ma è possibile ipotizzare – con responsabilità e realismo – una misura contestualmente ancora più sostenibile sul piano finanziario e più mirata ai bisogni delle famiglie, non coperte da altre forme di tutela in caso di insufficienza o perdita dei redditi da lavoro?
 
Certamente si, pensando ad una misura con un target dei destinatari limitato alla povertà assoluta, focalizzato nel trasferimento di risorse limitate al superamento di quella soglia, incrementale nel tempo – vale a dire che copre progressivamente i potenziali beneficiari – , sussidiario nella architettura degli interventi di inclusione, fondato sul nuovo Isee disegnato dai progetti di riforma del Governo Monti.
 
Una misura di questo tipo potrebbe rappresentare il primo dei livelli di essenziali vagheggiati dalla legge 328/2000, stimolerebbe la costruzione progressiva di un servizio sociale di base nei territori meno provveduti e di una complessiva rimodulazione della congerie di interventi locali, spesso onerosi e non coordinati.
 
Ma soprattutto ridarebbe diritti universali e cittadinanza effettiva a quanti – nella ingiusta lotteria di una normativa categoriale – è finora rimasto fuori da un accettabile sistema di tutela.
 
(*)  Vice-direttore di Caritas Italiana 
 

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