Utilizzare le stragi nel Mediterraneo per finalità politiche interne è un errore che l’Italia non si può consentire.
Dobbiamo affrontare problemi più grandi dei nostri, con limitati mezzi a disposizione e non fornire l’immagine di un Paese che si autocolpevolizza, attribuendo l’origine delle criticità alla inadeguatezza delle nostre leggi.
Purtroppo, anche in questa occasione, sono riemersi i vizi della nostra politica: l’abitudine di parlar male del nostro Paese negli ambiti internazionali, l’idea che basti cambiare le leggi per risolvere i problemi, la consuetudine di affrontare problemi complessi, con approcci ideologici privi di concretezza.
Le polemiche sulla Legge Bossi – Fini, ripercorrono questo schema. Non si comprendono i propositi di coloro che ne auspicano la sua cancellazione, a partire dalle norme che regolamentano il reato di clandestinità, che, peraltro, non sono state introdotte con la Bossi-Fini del 2002 ma con la Legge 94/2009 proposta dal Ministro dell’Interno Maroni.
In premessa è bene ricordare che, per effetto dei vincoli comunitari, tutti i Paesi membri della U.E. sono tenuti a identificare le persone extracomunitarie entrate irregolarmente nel loro territorio, a garantire un’accoglienza dignitosa ai richiedenti asilo, a provvedere all’espulsione degli stranieri che non hanno i requisiti di protezione internazionale. A seguito di tutto ciò, i principali Paesi europei, Germania, Francia, Gran Bretagna in primis, hanno adottato sulla materia una regolazione legislativa che prevede il reato di clandestinità.
Altrettanto, è bene ricordare che le istituzioni europee, nelle varie articolazioni, Commissione, Consiglio d’Europa, Direzioni contestano all’Italia di non applicare adeguatamente, e in tempi celeri, questi indirizzi, trasformando il nostro Paese in una sorta di porta d’ingresso per gli stranieri irregolari. Parte dei quali trasmigrano, grazie alla libera circolazione, verso altri Stati della U.E.
A rendere inefficienti e inapplicate, le norme italiane, concorrono una serie di criticità: il volume abnorme degli irregolari storicamente presente, le difficoltà degli apparati amministrativi nel gestire i procedimenti e non ultimo, gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale, la 241 del 2004, che sanciscono l’obbligo della convalida preventiva dei provvedimenti di espulsione da parte dei magistrati e il diritto dello straniero ad attivare un procedimento di difesa.
Principi sacrosanti, ma che hanno prodotto l’effetto di limitare i poteri e l’autonomia delle autorità di pubblica sicurezza. Queste persone, in genere, sono prive di mezzi di sussistenza. Oltre a non incassare i potenziali introiti delle sanzioni amministrative, lo Stato deve sobbarcarsi gli oneri degli avvocati, nominati d’ufficio, e i costi del sostentamento di queste persone per l’intera durata dei procedimenti. Anche in questo campo, purtroppo, il malfunzionamento della giustizia gioca un ruolo negativo nel garantire il rispetto della legalità.
Stando così le cose, è facile comprendere come problemi di questa natura non si prestino a soluzioni semplici. Non è stata una soluzione la trasformazione del reato da amministrativo a penale operato dalla legge Maroni del 2009. Tantomeno, lo potrà essere un intervento abrogativo delle normative in essere, in assenza di una adeguata riflessione sugli obiettivi e i mezzi da mettere in campo per contrastare l’immigrazione irregolare.
Nel frattempo, è cambiato lo scenario dei flussi migratori. La programmazione delle quote di ingresso per motivi di lavoro, vero cuore della riforma Bossi-Fini, è sostanzialmente impedita dalla crescita del numero di disoccupati italiani e stranieri residenti. Ormai la crescita degli stranieri in Italia è principalmente riconducibile alle ricongiunzioni familiari ed al numero, non programmabile, dei richiedenti asilo.
Non possiamo permetterci di programmare nuovi ingressi di manodopera non qualificata, salvo complicare l’esistenza agli immigrati che perdono il lavoro già residenti in Italia. In molti casi, con familiari carico e con il rischio di dover lasciare il nostro Paese per mancanza di mezzi di sostentamento.
Sono personalmente convinto che le nostre leggi in materia di immigrazione siano superate. Ma le eventuali riforme dovrebbero essere indirizzate verso l’obiettivo di gestire ingressi più selezionati e professionalmente qualificati. Non certo per allargare le maglie verso flussi migratori incontrollati.
Le polemiche di questi giorni, offrono la sensazione che la vera natura dei problemi non sia adeguatamente percepita da coloro che si propongono di riformare le leggi in materia di immigrazione. A partire dalla presa d’atto che, nel breve e medio periodo, esse possono fare ben poco per dare risposte concrete alle migrazioni, e ai drammi, in atto nel Mediterraneo.
In questo momento il nostro Paese ha bisogno di unità d’intenti e di concretezza. Di marcare l’urgenza di una strategia europea nel Mediterraneo che sappia unire le azioni di contrasto, a partire dal rafforzamento delle azioni di pattugliamento volte a scoraggiare i transiti dei barconi della morte, con una strategia di politica estera, e di aiuti, che supporti gli Stati membri nel ricostruire su basi nuove le intese diplomatiche con i Paesi della sponda Sud, messe in crisi dall’avvento delle cosiddette Primavere Arabe, che hanno deluso le nostre aspettative.
(*) Direttore generale dell’Immigrazione del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.