Che la politica si sia fatta sempre più spettacolo, dove conta più l’apparire dell’essere, è un dato acquisito da tempo, ma non tutti erano ancora completamente preparati alla “spettacolarizzazione” dell’azione di Governo.
Il Governo dovrebbe parlare attraverso atti ufficiali, ma nel caso della legge di stabilità per il 2015 gli italiani, compreso il Presidente della Repubblica, hanno dovuto attendere diversi giorni per avere una prima stesura coerente della legge che era stata “raccontata” in conferenza stampa dopo il Consiglio dei Ministri e poi ritoccata in diretta televisiva dal Presidente del Consiglio nel corso di un noto programma domenicale.
Questi antefatti servono per sottolineare che ha poco senso perdersi in un esame analitico del provvedimento, dovremo aspettarci ancora aggiustamenti e rettifiche, e già in queste ore appaiono molto ridimensionati gli effetti pratici che la legge dovrebbe produrre.
Le stesse osservazioni dell’Unione Europea sono destinate ad indurre ulteriori modifiche, quel che però difficilmente verrà scalfito è il segno complessivo della manovra, un segno che resta saldamente ancorato nella sua qualità se non interamente nella sua quantità, alle scelte sbagliate delle politiche europee di questi anni che, con ogni evidenza, hanno condannano l’intera Unione, sia pure con gradazioni di diversa gravità tra Paese e Paese, all’incertezza circa l’uscita dalla crisi, a tassi di crescita risicati alternati a fasi di stagnazione, al perdurare di un’altissima disoccupazione e per ultimo, al rischio evidente di deflazione. La lontananza tra quanto, a parole, si considera indispensabile anche da parte del Presidente del Consiglio e quanto concretamente si realizza è abissale.
L’ossatura della legge non sfugge al classico mix di tagli e prebende, tuttavia si possono individuare alcuni assi principali. Ovviamente si continua col contenimento della spesa pubblica, e se tutti sono certamente d’accordo sulla necessità di eliminare gli sprechi, nessuno è onestamente in grado di garantire che sarà proprio quel che accadrà, così come nessuno è all’oggi in grado di garantire che i tagli alle Regioni e agli Enti Locali non si tradurranno in nuove tasse. Quel che è certo è che il contenimento dalla spesa pubblica (paradossalmente vale anche per gli sprechi) comporterà una ulteriore caduta di domanda che andrà ad aggiungersi alla stagnazione dei consumi e degli investimenti in essere. Drammaticamente, quel che non si riesce a scorgere è un’idea di vera riforma della spesa pubblica, sorretta da un progetto non di mero contenimento ma di ricerca di efficienza ed efficacia della macchina pubblica per aiutare la ripresa.
Allo stesso modo non è convincente una politica che affida alla logica dei “bonus” l’intervento sul taglio dell’irpef. Ben altro impatto avrebbe una riforma organica del fisco! Sembra quasi di assistere alla moltiplicazione dei mitici 80 euro come fosse ormai un brand di successo da usare di volta in volta con questa o quella categoria fuori da una sensata scala di priorità.
Ancora più contraddittoria e fuorviante la misura sul TFR in busta paga, con relativo aggravio fiscale per il lavoro dipendente e la potenziale devastazione del sistema della previdenza integrativa che, a sua volta colpita dal fisco, rischia di non poter assolvere al ruolo fondamentale di assicurare un reddito sufficiente per la vecchiaia, specie alla luce della sciagurata riforma Fornero.
Insomma, siamo di fronte non ad una coerente e profonda azione riformatrice di cui tanto si blatera, ma semmai alla mossa della disperazione, all’estremo azzardo di chi non potendo contare su risultati concreti da esibire, “compra tempo” e non esclude una campagna elettorale ravvicinata.
A confermare questa impressione c’è il pacchetto dedicato alle imprese. Confindustria parla di un sogno che si realizza, altri di svolta epocale, sopratutto se considerato assieme alla Legge Delega sulla riforma del lavoro.
Vedremo la effettiva portata dell’intervento sulla sterilizzazione della componente lavoro sull’IRAP e sugli sgravi contributivi per i nuovi assunti, ma quel che più preoccupa è la lettura che da lo stesso Presidente Renzi quando sostiene di aver così determinato, unitamente all’intervento sull’articolo 18, le condizioni per far ripartire l’occupazione.
C’è da augurarsi che menta sapendo di mentire, altrimenti significa che ancora non si è compresa minimamente la natura profonda della crisi del nostro Paese.
L’ Italia, contrariamente a quel che si vuol far credere, non ha un problema di alto costo del lavoro, che risulta essere inferiore rispetto a quello tedesco o francese. Neppure il famigerato “cuneo fiscale” ci condanna alla marginalizzazione; anche in questo caso, il nostro cuneo è inferiore a quello di altri Paesi considerati più virtuosi. E anche per ore annue lavorate per dipendente occupiamo le parti alte della classifica. Tuttavia i nostri tassi di crescita sono sensibilmente inferiori al resto d’Europa da almeno venti anni, e la performance nella crisi globale e molto peggiore rispetto alla media dell’Unione.
Domandarsene la ragione è doveroso, darsi la risposta giusta è fondamentale per invertire il trend. Il nostro problema è principalmente riconducibile ad una drammatica carenza di investimenti. Tranne rare eccezioni che hanno saputo innovare e che ora, contando sull’esportazione, hanno superato la fase critica della crisi, non si sono generalmente innovati i processi produttivi e non si sono innovati i prodotti. L’insufficienza infrastrutturale e la scarsa efficacia del credito e della pubblica amministrazione hanno fatto il resto.
Per recuperare il tempo perduto servono le riforme di struttura, serve una migliore giustizia civile, serve investire nella scuola e sulla formazione, serve combattere la burocrazia e la corruzione, serve la realizzazione di infrastrutture materiali e immateriali, e servono degli imprenditori che investano nelle loro aziende e non si perdano nella finanza creativa o nella ricerca di rendite speculative.
Accreditare che il problema della mancata crescita sia il costo del lavoro o il presunto eccesso di diritti e tutele dei lavoratori equivale a comportarsi come l’ubriaco che cerca la chiave di casa sotto il lampione, non perché si è persa lì, ma perché lì c’è luce.
Affidarsi al buon cuore del mondo dell’impresa perché faccia oggi, a fronte di qualche sconto sul lavoro, quello che non ha voluto o saputo fare da decenni è appunto un azzardo, la mossa della disperazione.
Un Governo progressista dovrebbe porsi il problema di superare nei fatti l’idea fallimentare che sarà il mercato a risolvere i guai che proprio un eccesso di mercato senza regole ha procurato. Gli Stati Uniti di Obama sono un esempio di intervento pubblico sull’economia e i risultati ci sono, solo un cieco può non vederli.
Un Governo progressista dovrebbe avere l’ambizione di lavorare concretamente per l’uguaglianza delle opportunità, per rimettere in moto l’ ascensore sociale che appare, particolarmente nel nostro Paese, immobile da decenni.
Creare lavoro e innovazione è l’unica opzione possibile. Creare direttamente lavoro e, insieme, orientare le riforme di struttura per rendere conveniente investire sul lavoro.
Serve un piano straordinario per l’occupazione giovanile, serve che il 10 per cento delle famiglie italiane che possiede il 50 per cento della ricchezza sia chiamato a sostenere questo sforzo, serve una politica industriale che non affidi alla convenienza speculativa di corto respiro le scelte di investimento necessarie per riposizionare il nostro apparato produttivo, serve un investimento sulla scuola e la formazione per poter competere col segmento alto della produzione sfuggendo alla illusione, come all’epoca delle svalutazioni competitive della lira, che limare il costo del lavoro o comprimere i diritti dei lavoratori sia la soluzione.
Il mondo è cambiato profondamente e ancora cambierà, nessuno può illudersi di mantenere invariate le proprie abitudini e le proprie certezze. Certo vale anche per il mondo del lavoro, vale per il sindacato, ma la sfida del cambiamento deve avvenire guardando realmente al futuro, dismettendo tutti i panni della rappresentazione per tornare ad essere classe dirigente.
(*) Segretario Confederale CGIL