Troppe morti sul lavoro. Il tempo passa, l’indignazione cresce, le contromisure languono. Se nelle dichiarazioni e nei comunicati che commentano vicende come quelle di Firenze, risuonano sempre le stesse richieste, vuol dire che i conti politici, sociali e umani non tornano. C’è troppo squilibrio tra il ripetersi di fatti luttuosi che non dovrebbero succedere e la verifica che nulla cambia nelle situazioni concrete, specie nel settore edile.
Eppure sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro c’è dal 2008 un Testo Unico di tutto rispetto. Da molto di più, ci sono contratti collettivi ricchi di normative per la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori. Anche l’attività di controllo pubblico è stata negli anni affinata, nonostante sia cronica la mancanza di personale che possa pressare le aziende ad avere comportamenti virtuosi. In ogni caso, le responsabilità vengono ben individuate e riguardano tutte le fasi dell’attività imprenditoriale. Però, sembra che tutto ciò non bastI, per fare quel passo di civiltà che si chiama tutela della vita della gente che lavora.
Fa acqua anche l’apparato repressivo che pure è previsto e che di morte in morte, viene inasprito, chiaramente in una progressiva ansia da magica soluzione che coinvolge tutti, Governo, partiti, sindacati, opinione pubblica. Certo, se poi si liberalizza la catena del subappalto, le potenzialità dissuasive della repressione vengono indebolite e giustamente i sindacati chiedono di uniformare il settore privato alle regole sugli appalti che sono in vigore nel settore pubblico.
Ma anche se si arrivasse ad applicare la “patente a punti” (che è presentata dal Governo come l’asso nella manica) o a istituire la Procura Nazionale sulla sicurezza (verso la quale cresce il consenso, anche perchè sarebbe di grande utilità), difficilmente vedremo il trionfo della legalità e della prevenzione. Non sarà mai la paura di andare sotto processo o di perdere un appalto che farà alzare il livello dell’applicazione rigorosa delle leggi e dei contratti e abbassare la tentazione di aggirarli.
Ci vuole un di più di progettualità strutturale. Per gli infortuni non mortali e le malattie professionali, le leggi e i contratti hanno un riferimento istituzionale preciso, l’INAIL. E’ l’unico ente pubblico che consegna da anni allo Stato i fondi (e non pochi) non spesi. Prassi gravissima, perché soprattutto per alcuni rischi, come quello per l’amianto, si potrebbe intervenire meglio. Tanto più che il bilancio dell’INAIL è a totale carico del costo del lavoro, cioè cofinanziato da imprese e lavoratori. Nonostante questa “anomalia”, non è chiacchierato per le cure, l’assistenza e i contributi che garantisce a chi s’infortuna o si ammala a seguito dell’attività lavorativa. Ovviamente, non mancano lagnanze e sicuramente si potrebbe far meglio ciò che già fa, ma è un sistema complessivamente rodato.
Non è così per il “prima” dell’infortunio. Non c’è un soggetto istituzionale dedicato alla prevenzione. Anzi, ce ne sono tanti (Asl, Regione, INL, INAIL, vigili del fuoco, carabinieri), senza un effettivo coordinamento. Ma soprattutto ci si affida alla responsabilità del datore del lavoro che dovrebbe informare e formare il lavoratore assunto dei suoi diritti e doveri in fatto di difesa della salute e della vita; si dà per scontato che il lavoratore sappia e possa valutare sempre i rischi che corre. Presunzione di conoscenza che non ha riscontri oggettivi, continui, cauzionali. Per di più, soltanto nelle aziende medie e grandi c’è il delegato alla sicurezza, mentre nelle piccole e piccolissime spessissimo non c’è neanche un iscritto al sindacato e il datore di lavoro spesso ne sa, in merito alla sicurezza, meno di chi dovrebbe istruire.
Il sindacato è unanime nel chiedere che si faccia più formazione anche ai proprietari e dirigenti delle imprese; che gli ispettori del lavoro siano di più e maggiormente presenti, che la cultura della prevenzione sia meglio curata. Proprio per questo, sia detto per inciso, non si è capito bene perché in occasione della tragedia di Firenze, non ci sia stato uno sciopero delle tre sigle sindacali, ma soltanto di CGIL e UIL.
Forse, una maggiore consapevolezza che sarebbe necessario avere una “testa pensante” permanente per la prevenzione, almeno come quella che si ha per la cura dell’infortunato o dell’ammalato, farebbe fare un salto di qualità nel ridurre significativamente il numero dei morti, degli incidenti invalidanti, delle malattie professionali. Ed evitare, anche a chi non è direttamente coinvolto nelle scelte autonome dei sindacati, di chiedersi le ragioni della mancata iniziativa unitaria.
Cosa impedisce un allargamento delle competenze e dei poteri d’intervento dell’INAIL per far fronte alle carenze evidenti di cultura della prevenzione? Sia verso i datori di lavoro, sia verso i singoli lavoratori? Verso i primi soprattutto per ampliare l’obbligo alla puntuale e continua informativa al soggetto pubblico della prevenzione sulle presenze al lavoro e alle condizioni di sicurezza con cui viene svolto. La tecnologia ormai consente che ciò possa avvenire in tempo reale. Verso i secondi, fornendo a chi viene assunto anche per un giorno le informazioni essenziali per verificare ed esercitare il diritto alla propria tutela.
L’INAIL ha risorse economiche, al suo interno ha professionalità spendibili a questo riguardo, è presente in tutto il territorio nazionale; inoltre, potrebbe rafforzare la cogestione delle parti sociali intorno alla sua attività operativa e così consentire che si riducano drasticamente quel senso di impunità e la propensione all’“ignoranza” della tutela che sono ritualmente il sottofondo funebre delle sciagure sul lavoro.
Si è sempre detto che prevenire è meglio che curare. Ma non si è agito di conseguenza. Il Governo sembra ancora imbrigliato nella risposta emergenziale. C’è il rischio concreto che partorisca il solito topolino. Non si favorisce così un avanzamento della cultura del lavoro sicuro, dignitoso, umano. Diventa urgente invece un cambio di marcia che soltanto una forte pressione sociale può assicurare.