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Notizie buone ma anche cattive per i lavoratori

Nella vita ci giungono continuamente notizie, alcune buone altre meno. La prima notizia è che il Jobs Act è ancora in corso di definizione. Sono arrivati alcuni primi provvedimenti che hanno suscitato reazioni contrapposte ma preferiamo aspettare di vedere le prossime evoluzioni per fare una valutazione più approfondita che vada oltre i semplici commenti su titoli ed indici.

In ogni caso, vale la pena di sottolineare subito che, per rilanciare il lavoro in Italia, non sono sufficienti piccoli accorgimenti, ma bisogna avere il coraggio di fare delle scelte forti che creino nuovi e concreti posti di lavoro. Finché continueremo a perderci nelle contrapposizioni ideologiche tra lavoratori e imprenditori, lavoro autonomo e dipendente, il tentativo di incidere pragmaticamente sulla crescita dell’occupazione è destinato al fallimento.

La seconda notizia (buona) è che la politica ha avuto il merito di rimettere, finalmente, il lavoro al centro del dibattito pubblico, ma il rischio che vediamo è di insabbiare immediatamente gli elementi di novità tornando alle solite diatribe ideologiche. L’unico cambio di passo possibile è nel passaggio dalle polemiche tra lavoro autonomo, dipendente e imprenditoriale al “lavoro” senza altri aggettivi: un orizzonte di sviluppo basato sulla capitalizzazione personale delle competenze e delle conoscenze attraverso un’attenzione ossessiva ai processi formativi e ad un meccanismo di “continuità professionale” volto ad assicurare nel tempo le diverse modalità di esercizio.

Non dobbiamo infatti dimenticare è che la cornice è cambiata. Sono già passati 13 anni del XXI secolo e siamo passati da un’economia in prevalenza industriale ad un economia della condivisione basata sulla rete dove si vince solo se si alimentano costantemente lo scambio e l’innovazione. Non è più possibile essere competitivi investendo nel solo capitale materiale e finanziario. Questo significa che, per creare nuova occupazione, non bastano alcuni provvedimenti relativi alla contrattualistica ma sarebbe necessario cominciare con alcune misure indirette ma fondamentali per indurre uno shock positivo come, ad esempio:

 

  • una riqualificazione dell’IRAP che elimini i lavoratori dipendenti dalla base imponibile;
  • la realizzazione di una rete wi-fi aperta a tutti;
  • la consapevolezza operativa che il Sud Italia è l’area che da sola rappresenta la priorità di qualsiasi azione. 

 

Resta poi il problema delle regole. In questo ambito, una soluzione che guarda ad un futuro del Paese tarato sui processi espansivi del mondo dei servizi potrebbe essere quella di avere almeno fino a 35 anni (orizzonte dopo il quale scatterebbe l’articolo 18), un contratto a tutele non crescenti ma decrescenti dal punto di vista normativo, ma con tutele obbligatorie legate a percorsi formativi per il giovane lavoratore o professionista. 

Percorsi formativi che devono rappresentare una delle infrastrutture più importanti e significative per il futuro del Paese, e che devono essere oggetto di una rimodulazione rapida e totale affinché siano impostati non solo su competenze verticali (che diventano rapidamente obsolescenti) ma anche orizzontali (change management, inglese, comunicazione, leadership, personal branding), come avviene ad esempio nel sistema formazione-lavoro tedesco. Si costruirebbe un sistema che disincentiva lo sfruttamento dei giovani e che porta le aziende a investire e capitalizzare sulle competenze dei propri lavoratori.

La notizia meno buona è che il Governo ha messo in campo un DL che rappresenta invece una sostanziale liberalizzazione del contratto di lavoro a termine che già oggi copre il 60% degli avviamenti al lavoro. Una misura che potrebbe essere considerata utile (nel breve periodo) se non fosse che si pone in piena contraddizione, nel medio e lungo periodo, con la filosofia più volte annunciata di lotta al precariato. 

Basta qualche valutazione anche solo superficiale per capire che l’articolo 18, già praticamente svuotato dalla Riforma Fornero a causa del mancato reintegro, viene quasi del tutto accantonato se il periodo di tempo entro cui si può essere licenziati si estende, come previsto, fino a 3 anni. Tutto questo significa che aumenta ulteriormente la distanza tra contratti a tempo determinato e contratti a tempo indeterminato, e che diminuiscono anche le tutele contro le potenziali discriminazioni nei confronti dei giovani e le donne. 

Ma c’è di più. Sappiamo che il Jobs Act è (sarà) un insieme di provvedimenti complessi che devono riguardare non solo le regole del lavoro, E qui la notizia è ancora meno buona. Sono quasi 3 milioni e mezzo quelli che potremmo definire i “dimenticati del jobs act”, professionisti e lavoratori autonomi che sono rimasti per il momento fuori da tutti i provvedimenti proposti dal Governo. Un numero impressionante fatto di lavoratori che non godono certo di redditi medi alti. E visto che oltre al danno c’è spesso anche la beffa, i contributi previdenziali loro richiesti, se non ci saranno ulteriori provvedimenti di blocco, continueranno ad aumentare per alimentare quella vera e propria gallina dalle uova d’oro che è la gestione separata dell’INPS.

Se questo è il quadro generale, non si può non notare come in tale disegno le donne siano le più svantaggiate tra gli svantaggiati. E’ la vera notizia cattiva. E non solo per quello che non c’è – incentivi fiscali e ammortizzatori sociali per le lavoratrici autonome, norme più stringenti sulla maternità per le subordinate e, più in generale, politiche di conciliazione – ma anche, e forse soprattutto, per quello che c’è.

Le nuove norme sui rinnovi contrattuali, con la possibilità per un triennio di licenziare al di fuori della giusta causa, rischiano infatti di comportare una vera e propria ecatombe di lavoratrici. Un sistema del genere può essere tranquillamente strumentalizzato per mandare via le donne, evitando il rischio di dover sostenere i costi legati alla maternità delle lavoratrici, soprattutto delle più giovani.

E questo è un comportamento di miopia colossale, al di là di ogni discorso sulla “giustizia di genere”, per un Paese che voglia tornare a crescere. Ci siamo dimenticati infatti che una parte importante della perdurante crisi strutturale del PIL e del drammatico cuneo previdenziale del nostro Paese è generata dal bassissimo tasso di natalità che ci caratterizza. Verrebbe la tentazione di fare una proposta provocatoria: perché non impiegare una parte delle risorse della spending review per mettere la maternità a carico della fiscalità generale? Pensate a che effetti positivi si produrrebbero sull’occupazione in generale e su quella femminile in particolare.

Ma, al di là delle proposte provocatorie, tutte le analisi concordano infatti nel dimostrare come le donne sul lavoro ottengano risultati migliori degli uomini, ma nel loro percorso di crescita professionale abbiano una fase “piatta” coincidente con il periodo della maternità. Un sistema efficiente lavorerebbe per eliminare, o almeno abbreviare, quella fase, non per prolungarla tendenzialmente all’infinito. 

Comunque, quasi tutti i provvedimenti di cui si parla sono ancora in fase progettuale. L’auspicio è che il dibattito che si è aperto possa portare i decisori politici a includere nel loro disegno di sviluppo i lavoratori autonomi e, soprattutto, le donne. A beneficiarne sarebbero non solo loro, ma l’intera economia italiana.

 

 

  (*) Presidente Confassociazioni

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