Le vicende delle ultime settimane che hanno caratterizzato la gestione dell’epidemia da coronavirus, hanno dimostrato con molta chiarezza i limiti e i problemi del federalismo all’italiana. Da più parti si è sostenuto che bisognerebbe intervenire a correggere le cose che non vanno.
In proposito i pregiudizi ideologici e gli interessi contingenti dettati dalla convenienza politica sono duri a morire; tuttavia oggi, dopo 20 anni, dovremmo essere in grado di ragionare in modo razionale sulla riforma costituzionale del 2001 che appare tecnicamente errata e frutto di una pulsione antistatalista chiaramente eccessiva.
Si parte dall’art. 114 che stabilisce che la Repubblica «è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle città metropolitane, dalle Regioni, e dallo Stato» (!) come se lo Stato fosse cosa distinta (ed equiparabile) alle sue componenti. Si procede con l’art. 117 che contiene non già i princìpi generali dell’assetto regionale (federale?) del Paese, bensì un elenco (lungo e nelle intenzioni esaustivo) di competenze esclusive dello Stato, e di competenze concorrenti tra Stato e Regioni alle quali viene peraltro attribuita la potestà legislativa in materia, salvo la determinazione dei princìpi generali lasciati allo Stato. L’obiettivo era quello di limitare, per quanto possibile, il ruolo dello Stato. Tale soluzione non poteva che creare confusione, errori, dimenticanze, conflittualità, difficoltà nei processi decisionali, contenzioso costituzionale.
Il fatto è che l’approccio seguito postula un rapporto competitivo e conflittuale tra i diversi livelli di governo, il che è sbagliato e non corrisponde alla realtà economica e sociale del Paese.
In realtà, se si fa riferimento alla teoria economica sul federalismo fiscale, è facile rendersi conto che la questione non può essere affrontata in termini di scelte nette e definitive da cristallizzare in una carta costituzionale. La teoria, infatti, giustifica l’intervento pubblico ai diversi livelli di governo in relazione alla natura dei beni pubblici che devono essere prodotti e che possono avere una rilevanza sia nazionale che regionale o locale.
Tuttavia, poiché i benefici di una attività pubblica non sono quasi mai circoscrivibili con esattezza a un determinato livello centrale o locale, esisterà (quasi) sempre una mancata corrispondenza tra produzione di beni e servizi e relativi benefici, e i costi sostenuti, sicché, sia ai fini della fornitura dei beni che del loro finanziamento sarebbe necessario prevedere accordi tra i diversi enti relativi per quanto riguarda l’esercizio delle rispettive competenze e il finanziamento delle diverse attività.
È per questo motivo che in tutti i Paesi, oltre alle entrate proprie, per gli enti decentrati sono sempre previsti anche trasferimenti dagli enti sovraordinati a quelli di livello inferiore proprio per far fronte alle esternalità che inevitabilmente si producono. È singolare quindi che l’art. 119 non preveda, anzi escluda la possibilità di trasferimenti tra gli strumenti di finanziamento degli enti decentrati, il che ha prodotto negli anni passati contorsioni operative e notevole esercizio di fantasia, con la conseguenza che non si è mai arrivati a un assetto definitivo della finanza locale dopo ben 20 anni.
Queste considerazioni portano a ritenere che l’attuale titolo V vada rivisto piuttosto in profondità. Non si tratta di trasferire competenze esclusive o concorrenti da un elenco a un altro, ma di stabilire princìpi generali da cui far discendere le scelte concrete. Ciò significa che nella Costituzione, per quanto riguarda le relazioni tra Stato centrale ed enti decentrati, sarebbe sufficiente prevedere che essi vanno stabiliti in base al principio di sussidiarietà, ferma restando la prevalenza dell’interesse generale, quando necessario.
*da 24 Ore, 20/05/2020