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Oltre l’emergenza e la speculazione politica

I dati internazionali mostrano come sia quasi impossibile trovare una soluzione stabile e in tempi brevi, al problema della crescente ondata di immigrati e rifugiati  e della loro accoglienza in Italia e in Europa. 

La FAO stima ad esempio per i soli nove paesi dell’Africa Subsahariana, che nel 2015 oltre 20 milioni di persone rimarranno in condizioni di insicurezza alimentare. Questo dato va ad aggiungersi agli altri relativi agli impatti che i conflitti, le crisi umanitarie, i disastri ambientali  hanno su miliardi di persone che  già oggi sono povere ed escluse.

Secondo OXFAM il numero delle persone colpite dalle crisi umanitarie è più che duplicato negli ultimi 10 anni. Alla fine del 2014, oltre 51 milioni di persone nel mondo sono state  costrette a sfollare a causa di conflitti, persecuzioni o violazioni dei diritti umani. E da qui al 2030, i paesi dell’Africa del Sud, dell’Asia meridionale e orientale saranno esposti ancora di più a siccità,  alluvioni e ad altri rischi.

Un recente rapporto di Amnesty International sulla regione  dell’Africa Subsahariana ricorda come: “Questi conflitti hanno portato a persistenti e sistematiche gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto umanitario. I conflitti armati hanno alimentato i peggiori crimini immaginabili, ingiustizia e repressione. Emarginazione, discriminazione e persistente negazione delle libertà fondamentali e dei diritti socioeconomici più basilari sono a loro volte diventate terreno fertile in grado di generare ulteriore conflitto e instabilità.” E ancora:
Nel corso dell’anno, (2014) molti paesi africani, tra cui Kenya, Somalia, Nigeria, Mali e paesi della regione del Sahel, hanno dovuto affrontare gravi minacce alla sicurezza, come diretta conseguenza della crescente violenza esercitata da gruppi armati estremisti, come al-Shabaab e Boko haram. Decine di migliaia di civili hanno perso la vita, altre centinaia sono stati vittime di rapimenti e innumerevoli altri continuavano a vivere in un clima di paura e insicurezza. Ma la risposta data da molti governi è stata ugualmente brutale e indiscriminata e ha portato ad arresti arbitrari, detenzioni di massa ed esecuzioni extragiudiziali. In Kenya, l’anno si è concluso con l’approvazione della legge (emendamento) sulla sicurezza del 2014, che ha apportato modifiche a 25 legislazioni esistenti e che era destinata ad avere notevoli implicazioni sui diritti umani. Un altro elemento comune nelle situazioni di conflitto in corso nella regione africana è stato l’impunità per i crimini di diritto internazionale commessi dalle forze di sicurezza e dai gruppi armati. “

L’emergenza dell’accoglienza in Europa di questo fiume di esseri umani non è  quindi che il terribile frutto di una pluralità di complessi problemi che hanno origine nei paesi poveri e che necessitano di una serie di azioni politiche, diplomatiche e di cooperazione da attuarsi con il contributo di tutti i soggetti istituzionali e sociali.

Ciò nonostante, sempre di più in Italia e in altri paesi europei, anche storicamente aperti e accoglienti, il rapido aumento degli sbarchi d’immigrati e rifugiati sta alimentando una inaccettabile speculazione politica che mira a creare, come già è avvenuto nel passato recente, una diffusa insofferenza sociale nei confronti di migliaia di persone che cercano rifugio in Europa per sfuggire a fame, povertà, e violenza. Un’insofferenza sociale che fa leva sulle insicurezze interne determinate dalla crescita della disoccupazione, dell’emarginazione sociale e amplificate dalla difficoltà della politica, a tutti i livelli,  di trovare risposte “socialmente accettabili” per garantire una accoglienza dignitosa e rispettosa dei diritti umani fondamentali delle migliaia di  profughi. 

Necessario ed urgente è individuare soluzioni “concertate” a livello europeo e nazionale in grado di contrastare efficacemente un clima di crescente malessere sociale che inevitabilmente rischia di essere il naturale “brodo di coltura” per la crescita del consenso e la strumentalizzazione politica delle Destre nazionaliste, ormai sempre più razziste. Senza tenere conto  che questo fenomeno non riguarda solo paesi occidentali ed europei (vedi Sudafrica, Australia, o la lunga crisi politica ed umanitaria dei Rohingya in Birmania e nel Mar delle Andamane, etc).

Tuttavia questo non basterà. Se non ci si sforza di comprendere e spiegare gli elementi chiave di un fenomeno strutturale che si prolungherà per diversi anni e rispetto al quale gli interventi necessari dovranno riguardare tutti i livelli dell’azione politica, si ridurrà unicamente l’impatto ma non si risolveranno alle radici i problemi. Diplomazia, negoziati economici, aiuti, investimenti commerciali persino gli interventi di “peace keeping” saranno inutili, addirittura in qualche caso controproducenti, se non collocati in un coerente quadro di analisi che sappia anche spiegare ai comuni cittadini, le radici di questi fenomeni di migrazione di massa con criteri che si allungano nel tempo.

Ad oggi, infatti,  vuoi per i media interessati a mettere in evidenza il conflitto sull’emergenza, lo scontro e i casi limite, vuoi per la distanza  siderale tra i piani e le strategie diplomatiche e la vita reale, si parla poco o per nulla della situazione dei paesi di origine e soprattutto di quanto stanno o non stanno facendo i singoli paesi, l’Europa e l’ONU messi insieme per affrontare i i nodi di fondo all’origine dei problemi.

I milioni d’italiani di fronte ai televisori all’ora di cena non dovrebbero essere sommersi solo dalle immagini degli sbarchi o da interviste sul clima di paura nelle cittadine soprattutto del Nord d’Italia, ma dovrebbero poter essere anche informati (e non nelle trasmissioni di mezzanotte) sui perché, sui drammi che scaturiscono dai violenti conflitti in atto in molti paesi e sulle iniziative in atto per ridurre e superare i  conflitti e le tensioni alimentate dall’assenza dello stato di diritto, dall’impunità, da intolleranze religiose ed etniche, da violenze diffuse, spesso da parte delle stesse forze di polizia, da gruppi armati,  che utilizzano il terrore, le torture,  la pena di morte, le discriminazioni che stanno alimentando questo flusso interminabile di migranti.

Solo chi continua ad agitare il drappo rosso di fronte al toro e non vuol capire né vedere, può ritenere che basterebbe aprire improbabili e irrealizzabili campi profughi in Libia per risolvere la questione e tranquillizzare la cosiddetta casalinga di Voghera, impedendo l’arrivo in Italia di persone indesiderate.

Per affrontare nel medio lungo periodo, la complessa situazione, che per altro non riguarda solo i paesi africani e in particolare la Regione del Sahel, ma anche molte altre aree di crisi, quali Africa del Nord  e Medio Oriente (oggi aggravate dal dilagante  conflitto  terroristico dell’IS)  e Asia, servirebbe un maggiore e più efficace intervento  dell’Europa, ma anche dell’ONU e dei suoi organismi, a partire dal Consiglio per i Diritti Umani – organismo sempre più debole – e un ruolo più robusto degli stessi governi delle regioni  africani.

L’Europa, in particolare, primo donatore di aiuti umanitari al mondo, dovrebbe irrobustire ulteriormente la propria strategia politica e diplomatica nell’affrontare le enormi questioni causa della miscela esplosiva in atto. Quindi aiuti umanitari, ma anche un rafforzamento  e una maggiore articolazione delle strategie negoziali e di sostegno alle istituzioni e organizzazioni democratiche della società civile e del lavoro dei paesi interessati.

Le crisi politiche sono alimentate oltre che dai conflitti anche da povertà estrema, discriminazioni, disoccupazione giovanile diffusa, debolezza dei sistemi d’istruzione, esclusione sociale, mancanza di servizi sociali e sanitari, mancato sostegno alla crescita di una società civile forte e qualificata e di media indipendenti. Mentre, ad esempio, si sostiene, attraverso UNICEF, l’istruzione di base  gratuita per tutti e tutte le bambine, poco si fa a sostegno della crescita di parti sociali indipendenti e democratiche e di misure di governo dei mercati del lavoro, di promozione dell’occupazione o di formazione professionale di qualità in grado di fornire sbocchi occupazionali e inclusione sociale a livello locale. Tutti questi fattori hanno bisogno di specifiche politiche e programmi di cooperazione che coinvolgano e utilizzino soggetti locali e non solo le grandi multinazionali della cooperazione. 

Milioni di persone vivono con meno di 1,25 dollari al giorno e hanno poche alternative tra l’aggregazione in movimenti religiosi e politici estremisti o la fuga verso l’Europa. E le difficoltà nell’attuazione di strategie complesse, che dovrebbero legare negoziati politici, diplomazia, cooperazione allo sviluppo, aiuti umanitari, sono evidenti.  La diplomazia europea ha adottato vari programmi, ma quanto di quello deciso è stato poi attuato in modo coerente? Qual’ è il  grado di delivery? Quanto si è fatto, ad esempio dopo la primavera araba, per sostenere e irrobustire le organizzazioni politiche democratiche e le organizzazioni della società civile e del lavoro come lotta alla corruzione e promozione di una democrazia partecipata e contro gli estremismi? Quale sostegno si è dato per la l’attuazione degli obiettivi del lavoro dignitoso e non solo per la creazione di imprese o di joint ventures, che spesso non rispettanoi diritti fondamentali del lavoro?

Questi temi di fronte all’emergenza possono sembrare cavillosi, ma sono sicuramente ingredienti fondamentali di contrasto al crescere  tra i giovani dei paesi poveri, del mito dell’estremismo come forma di contrapposizione alla cosiddetta “ideologia occidentale di dominio e di depauperamento delle risorse locali”.

L’Europa ha una grande sfida di fronte a sé: quella di superare le divisioni tra i paesi membri e di porre in atto una strategia di prevenzione e contrasto al radicalismo politico religioso, di sostenere la governance democratica e pacificazione dei paesi in conflitto, di promuovere il rafforzamento delle organizzazioni politiche e della società civile e programmi integrazione sociale e occupazionale dei giovani e delle donne. L’Italia, dal canto suo, contribuisce da anni con una presenza  qualificata in molte aree di crisi ed è riconosciuta per la grande esperienza di peacebuilding e peace keeping. Lo scorso marzo è stata nominata nella Commissione ONU per il peacebuilding e potrebbe dare un contributo verso approcci più integrati e qualificati. 

Il dibattito in atto da mesi sulla nuova agenda di sviluppo non può prescindere da queste emergenze e dalla necessità di risposte adeguate ed efficaci che leghino insieme assistenza umanitaria, sviluppo  sostenibile e investimenti nella lotta all’insicurezza alimentare, lavoro di qualità con un sistema di  misure di tutela delle popolazioni dalle violenze, dagli spostamenti forzati, dall’accaparramento delle terre. 

Poiché molti piani d’azione sono già oggi ben delineati, come sottolineato nelle conclusioni della Tavola Rotonda sul ruolo dell’Italia nel peacebuilding, tenutasi a novembre 2014 a Roma, le sfide riguardano:

  • il gap tra la teoria e la pratica, ovvero tra le dichiarazioni e la capacità di fare sistema superando  sia la frammentazione nella prevenzione e risposta ai conflitti, che la pluralità di istituzioni e strumenti utilizzati, che oltretutto indeboliscono il raccordo tra le istituzioni e le organizzazioni della società civile;
  • la priorità nelle attività di cooperazione europea alle risposte alle crisi  e alle emergenze, piuttosto che a piani di prevenzione di lungo periodo;
  • la diversità di interessi tra i paesi membri dell’Europa; 
  • le limitate risorse finanziarie e umane dedicate al peacebuilding nel bilancio europeo, inadeguate a rispondere alle ambizioni e alla complessità delle questioni sul tappeto; 
  • lo scarso coinvolgimento  delle donne nelle attività di peacebuilding e come mediatrici
  • lo scarso  inserimento di analisi sistematiche dei conflitti e di interventi connessi, nei programmi di cooperazione.
  • la  necessità di una maggiore trasparenza e informazione su strategie, decisioni, strumenti  e ostacoli che si stanno incontrando.

 (*) Segretario Generale di Italia-Birmania.Insieme

 

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