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Oltre la sopravvivenza

Premessa al 47° Rapporto annuale CENSIS sulla situazione sociale del Paese

1.           Non è mai stato facile negli ultimi decenni interpretare la nostra società, di sua natura complessa e che nel tempo ha subito continui intrecci di innovazione e di regressione.

La sfida interpretativa è però diventata in questo 2013 ancora più difficile. Non solo e non tanto per l’affollarsi in esso di vicende così impressive (l’esito tripolare delle elezioni politiche, la elezione-rielezione del Presidente della Repubblica, la compresenza di due pontefici, le primavere arabe, i tentativi di successione generazionale nella politica, ecc.) che avrebbero fatto sostanza di un lustro breve, più che di un lungo anno. Ma anche e specialmente perché nella dialettica sociale e politica degli ultimi mesi si sono imposte tre tematiche (e tre convinzioni) che sembrano onnipotenti nello spiegare la situazione:

  • la prima è che l’Italia è sull’orlo del baratro o dell’abisso;
  • la seconda è che i pericoli maggiori derivano dal grave stato di instabilità (nazionale o internazionale, economica o politica che sia);
  • la terza è che non abbiamo classe dirigente adeguata a evitare il pericolo del baratro e a gestire la instabilità, e molti addirittura ritengono che essa non esista affatto.

Sono così evidenti queste tre convinzioni che l’opinione pubblica ne fa la base per un’interpretazione facile e per uno sconforto continuato che traspare in ogni commento, sia elitario che popolare.

Ma l’abisso non arriva, l’instabilità si ripresenta quotidianamente e la classe dirigente resta sempre inadeguata. Così fra le citate convinzioni si è andato formando un intreccio di diabolica reciproca accentuazione. La classe dirigente, infatti, tende a ricercare la sua legittimazione nell’impegno a dare stabilità al sistema, magari partendo da annunci drammatici, decreti salvifici e complicate manovre che hanno la sola motivazione e il solo effetto di far restare essa stessa la sola titolare della gestione della crisi.

Ma non si costruisce nessuna classe dirigente con annunci di catastrofe emessi a ritmo continuo, con continue chiamate all’affanno, con continue affannose proposte di rigore, magari con un continuo atteggiamento pedagogico cui è sottointeso un moralistico pregiudizio nei confronti delle qualità civili della gente. Non si illumina una realtà sociale (fosse pur fatta di materiale scadente, come qualche volta si sottolinea) con questi atteggiamenti; ed è impossibile pensare a un cambiamento. La classe dirigente non può e non vuole uscire dalla implicita ma ambigua scelta di “drammatizzare la crisi per gestire la crisi”: una tentazione che peraltro vale per tutti, politici come amministratori pubblici, banchieri come opinionisti.

2.           Altrettanto ambigua è la propensione a credere, per alcuni addirittura la certezza, che buona parte dei nostri guai sia dovuta alla instabilità politica e istituzionale,   e che quindi sia necessario perseguire, se non imporre, una alta stabilità del sistema (vale per la cultura di governo dell’Europa come per l’affezione per elezioni maggioritarie capaci di creare quinquenni di stabile governo). 

Si tratta di una stabilità vista come valore unificante ‒ addirittura una sorta di “pacificazione” ‒ della vita collettiva, quasi una nostalgia del mare calmo, come immagine di ordinata e obbligata modulazione della esistenza dei vari soggetti sociali. Questa coazione alla stabilità nel momento più critico dell’anno ha portato anche a una tale paura del conflitto da sfociare in una “reinfetazione” delle forze politiche nelle responsabilità del Presidente della Repubblica.

Non si è avuta però adeguata coscienza che mare calmo e reinfetazione sono grandi incubatori di disturbi esistenziali e di sistema: la reinfetazione, infatti, riduce nei singoli individui la liberazione e la maturazione delle energie vitali e delle autonomie di responsabilità dei vari soggetti; mentre il mare calmo, apparentemente calmo, è foriero non solo del ponentino romano, ma più spesso di fenomeni violenti (“dal mare nascono le piogge, le tempeste, le trombe d’aria, i maremoti”, scriveva Senofane), che sul piano sociale possono essere fenomeni conflittuali senza possibilità di controllo e gestione.

3.           Del resto, la coazione alla stabilità non può certamente coprire lo sconforto collettivo di fronte al permanere dei pericoli di catastrofe e della sfiducia in una inadeguata classe dirigente. E viene allora spontaneo domandarsi come si atteggia e si comporta la componente ordinaria della società (di terzo, quarto o quinto “stato” che sia) di fronte a una tale ansiogena situazione.

In altri periodi sarebbe scattato il mix fra l’adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) e l’orgoglio di una “società civile” che si proponeva come soggetto di autonoma responsabilità collettiva; ma questa volta del mix citato ha funzionato solo la prima componente, forse con una tentazione di ulteriore acquattamento negli interessi particolari (specie delle imprese e delle famiglie) nella speranza di resistere al baratro. Mentre sempre più in ombra appare la so- cietà civile che verosimilmente ha consumato il suo orgoglio in illusorie ambizioni di una superiorità morale utilizzata come strumento politico. Oggi circolano altre e più dure tensioni: il popolo dei girotondi è sostituito, come operatore d’opinione, dai cortei antagonisti, quale che sia il valore che ad essi possiamo attribuire. Così è oggi forse giunta l’ora di non usare più una espressione (“società civile”) datata e con declinante forza di identificazione e mobilitazione.

4.           È naturale, come si è detto, che in questo progressivo vuoto di classe politica, di società civile e di leadership collettiva, i soggetti della vita quotidiana rischiano di restare in una solitudine senza élite, con il pericolo che si possa dare ragione a chi ha sempre sostenuto che “il popolo italiano è materia inerte, che si muove insieme e in avanti solo quando è illuminato dalla luce di una élite intelligente”. Se così fosse sarebbe davvero vicino il baratro, non solo dell’economia, ma anche del disfacimento della struttura stessa della società, magari accentuato dalla bassa qualità, anzi da una profonda crisi antropologica, delle singole molecole sociali, divenute inerti elementi di moltitudine.

Rispetto a questa pessimistica prospettiva interpretativa, riproposta da quasi duecento anni nella cultura di élite, l’unica alternativa è quella di prendere fenomenologicamente atto che comunque milioni di singoli operanti nella vita quotidiana esistono e si comportano in maniera omogenea e tutto sommato coesa. Realismo vuole che si convenga che, al di là di tutti i baratri imminenti, una società italiana esiste e vive come portato storico. “La realtà è”, al di là di come a diverso modo ne diamo rappresentazione; e “vive nei processi”, non nella progettazione del nuovo che tanto è andata di moda negli ultimi anni.

E converrà ripetere, alla luce del primato della realtà e dei processi, che la nostra identità nazionale si è costruita nei processi socio-economici e socio-politici degli ultimi duecento anni, dove i singoli cittadini si sono immersi e sono cresciuti (solo per restare al secondo Dopoguerra, i processi della ricostruzione, dell’emigrazione interna, dell’esplosione dei consumi, dell’industrializzazione di massa, della cetomedizzazione, ecc.). L’Italia di oggi sarà bella o brutta, a seconda degli occhiali con cui la si guarda, ma resta una realtà solida perché non è figlia di idee e di progetti, ma della collettiva partecipazione ai processi storici che l’hanno attraversata.

5.           Se ne è avuta la prova negli ultimi anni di grave crisi: parole tante, idee tante, progetti tanti, manovre tante, ma nei fatti abbiamo avuto il dominio, tutto realistico, di un solo processo: quello della sopravvivenza. Esso ha impegnato ogni soggetto economico e sociale, e ha mostrato ancora una volta che la nostra società dà il meglio nei momenti bui, o meglio quando vive intensamente i pro- cessi che la storia le propone. Abbiamo fatto tesoro anzitutto di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato, anche remoto (lo scheletro contadino, l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile, ecc.); abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di cambiare e orientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo); e abbiamo sviluppato di conseguenza la propensione a riposizionare interessi e comportamenti (nelle strategie aziendali come in quelle familiari).

È su queste tre basi che il Paese ha fatto sopravvivenza rispetto ai tanti pericoli e alle tante paure del periodo, e anche all’insieme degli interventi “rigorosi e pedagogici” che tanto hanno accentuato la fatica del vivere quotidiano e la mancanza di speranza per il futuro. Il crollo atteso da molti non c’è stato, l’estate è stata migliore del previsto, e non fa scandalo che in autunno si siano affacciate autorevoli previsioni di ripresa. Non c’è una diffusa soddisfazione per tutto ciò, ma certo serpeggia una silenziosa constatazione che “ce l’abbiamo fatta”.

6.           Sarebbe comunque un errore adagiarsi su tale atteggiamento. Si potrebbe infatti correre il pericolo di restare impantanati nell’insieme dei comportamenti adattativi, e talvolta ambigui, con cui abbiamo perseguito la sopravvivenza.

Tocca allora a coloro che fanno interpretazione, e che si vedono come sentinelle dell’evenienza, analizzare e rendere esplicito ciò che della sopravvivenza è rimasto nelle fibre intime della vita sociale. Quale tipo di realtà sociale abbiamo di fronte “dopo” la sopravvivenza? A tale proposito occorre avere il coraggio di segnalare due non entusiasmanti orientamenti di psicologia collettiva.

In primo luogo, è facile notare che siamo una società più “sciapa” che nel recente passato. L’affanno degli ultimissimi anni ci ha tolto la tensione a vivere “con vigore e fervore” i processi che hanno costituito il nostro sviluppo nella seconda metà del ’900. Senza “il fervore del sale”, dicevano gli alchimisti, “non si può produrre alcuna mutazione degli elementi”: si diventa sciapi, come collettività e forse anche come singoli. E così sembra avvenire in Italia, con la conseguenza di veder circolare troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo complessivo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa. Ci si ritrae dall’impegno e si perde al tempo stesso il fervore con cui abitualmente abbiamo vissuto per decenni.

Senza fervore non si diventa solo sciapi, si diventa anche malcontenti, quasi infelici. Non perché ce lo dicono le classifiche internazionali sulla qualità della vita e sul benessere dei cittadini; ma perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali. Si è rotto il grande lago della cetomedizzazione, storico perno della agiatezza e della coesione sociale; e sono così saltati i meccanismi di identità sociale; con un malcontento che è spesso rancoroso, perché non viene da motivi identitari (come avviene ad esempio in Francia, con il declino dell’orgoglio di grande nazione), ma viene dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali e configurazioni identitarie di individui e ceti. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale; e da ciò nasce un sottile scontento, che peraltro non riesce neppure ad aggregarsi in tensioni collettive, ma resta come diffusa, inerte infelicità, spesso anche individuale.

7.           “Sciapa e malcontenta” sarebbe una invitante interpretazione, capace anche di facile impressività per la comunicazione mediatica. Ma chi fa interpretazione in profondità non può rinchiudersi nelle formule, anche se impressive, e deve necessariamente guardare in controluce ciò che avviene nella realtà.

In particolare, occorre capire se davvero è del tutto scomparso quel fervore che ha fatto da “sale alchemico” a quei tanti mondi vitali che hanno operato come motori dello sviluppo degli ultimi decenni. Non è inutile, in particolare, portare l’analisi su tre fondamentali domande:

  • quanto fervore di sale esista ancora nei soggetti e nei processi che hanno in- nervato il nostro modello di sviluppo;
  • se e dove siano in crescita altri e nuovi meccanismi di emersione di processi e soggetti di sviluppo;
  • se e come alcune sfide di crescente attualità (si pensi alla riforma del welfare e al processo di digitalizzazione) possano dare luogo all’esplicarsi di nuove energie e responsabilità.

 

8.           Nessuno più di noi, che lo abbiamo conosciuto “dal principio”, conosce le debolezze congenite del nostro “capitalismo molecolare”, innervato da milioni di comportamenti quotidiani di individui, famiglie e imprese. Ma il modo in cui esso ha gestito la sopravvivenza degli ultimi mesi fa ritenere che possa esprimere ancora un po’ di vecchia o nuova vitalità:

 

  • il radicamento sulla terra tende a innervare una crescente imprenditorialità nel mondo dell’agricoltura, dell’agroalimentare, dell’agriturismo, dell’enogastronomia, dei vari comparti emergenti della green economy;
  • lo spirito mercantile si è andato spostando verso una connessione stretta con l’export manifatturiero, con nuove strategie di spendita dei nostri brand di alto e medio rango;
  • e la vocazione al lavoro individuale (il “fai da te” magari troppo ideologizzato di recente) anima con crescente intensità il comparto artigiano e delle imprese di media serie, sperimentandosi anche sui più moderni campi innovativi, se è vero che si moltiplicano negli ultimi tempi le iniziative di artigianato digitale.

È evidente che questi antichi germi, pur attivando nuovi processi, non sono in grado da soli di dare potenza a una più avanzata fase di sviluppo e di fare da traino a un sistema complesso qual è quello italiano; ma lavorarci sopra si può e si deve, con risultati che potrebbero essere più positivi di quelli promessi dalle ambizioni di fare innovazione e modernità che tanto prendono oggi l’opinione pubblica e l’azione di governo.

9.           Lavorare si può e si deve anche sui processi che sono ancora allo stadio di lenta emersione. Per andare oltre la sopravvivenza si può pensare di fare conto infatti su quattro interessanti dinamiche:

 

  • il consolidarsi di una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione, ecc.);
  • l’emergere di una faticata (e non potrebbe essere altrimenti, visti i punti di partenza) soggettività degli stranieri che vivono in Italia, che si esplica sia in termini imprenditoriali (in alcune regioni la percentuale delle aziende gestite da stranieri supera il 10-12%), sia in termini di partecipazione sociale;
  • la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, visto che al tradizionale localismo si va sostituendo una forte carica di immedesimazione fra vita locale e imprese locali (cosa che una volta valeva solo per l’Olivetti);
  • la importanza crescente, e non solo numerica, delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono essere chiamati non a una banale e rituale invocazione al “ritorno”, ma a fare un’Italia orizzontalmente operante nella grande platea della globalizzazione.

Sono quattro soggetti e processi che hanno una loro forza autonoma, che andrebbe però curata e potenziata con adeguati interventi di incentivazione, che potrebbero dare luogo a una stagione di economia mista che non sia prigioniera della storia passata (grandi imprese private e grandi imprese pubbliche), ma sia capace di integrare e potenziare le energie private oggi in crescita in un complessivo disegno pubblico di valorizzazione della dimensione “micro” e “dal basso” del nostro sistema.

10.           In questa auspicabile tensione pubblica a suscitare e sostenere iniziative e vitalità sia individuali che collettive occorre anche domandarsi se non ci siano al- l’orizzonte grandi processi sociali da sfruttare. In questa prospettiva, due sono i processi da approfondire: uno caratterizzato da dinamiche in corso, l’altro di cui si colgono segnali più deboli ma incoraggianti.

a)  Il primo è il processo di radicale revisione del nostro welfare. È chiaro a tutti che l’impalcatura che ha caratterizzato quasi tutto il secolo scorso (la totalizzante responsabilizzazione pubblica, il welfare state) è oggi in profonda revisione e in tendenziale ridimensionamento, sia per il carattere sempre meno preciso dei bisogni da coprire, sia e specialmente per la crescente in- sufficienza delle risorse finanziarie pubbliche. E si moltiplicano le strade alternative di copertura dei bisogni. Così abbiamo:

 

  • la crescita del welfare privato, basato sulla crescita dell’impegno finanziario diretto dei singoli e delle famiglie e realizzato attraverso il ricorso alla spesa “di tasca propria” e/o attraverso il ricorso alla copertura assi- curativa;
  • la crescita del welfare comunitario, dove i bisogni sociali sono coperti dall’impegno della comunità locale, che si attua attraverso la spesa degli enti locali, il volontariato, la socializzazione delle singole realtà del territorio;
  • l’inatteso ritorno di un welfare aziendale, che sembrava un reperto del passato e che tende a coprire bisogni specifici, nati e risolvibili all’interno delle singole imprese;
  • e anche l’emergere di esperienze di welfare associativo, con il ritorno a logiche mutualistiche (anch’esse fino a poco tempo fa considerate superate) e la responsabilizzazione di associazioni di categoria (specialmente nel mondo del lavoro autonomo).

Se il welfare garantito dallo Stato lascia spazio a questi quattro tipi di responsabilità, è possibile che in essi possano svilupparsi nuovi spazi di imprenditorialità e di lavoro sociale, solo che si abbandoni rapidamente la propensione di quanti operano nel settore a fare esclusivo riferimento all’intervento e al finanziamento pubblico.

b)    Il secondo processo che permette di immaginare l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni occupazionali è quello della cosiddetta “economia digitale”: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al com-mercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati agli applicativi basati sulla localizzazione geografica, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione.

Questo processo è stato, da una parte, confinato a una imponente esplosione della sua componente consumistica e a basso valore aggiunto per le nostre imprese; e, dall’altra, mediaticamente affidato a un protagonismo dell’azione pubblica, con la anche troppo enfatizzata “Agenda digitale italiana”, che stenta a entrare nel vivo dell’azione amministrativa e a coinvolgere energie private, a tutti i livelli.

Se lo Stato sarà capace di fare un passo indietro, rafforzando la sua capacità interna di usare le potenzialità delle reti e dei servizi digitali, senza pretendere di sostituirsi al privato nell’utilizzare web o social network per la promozione del Paese e della sua economia, è probabile che un processo così invasivo come lo sviluppo delle information technologies apra spazi per nuovi operatori privati, singoli come imprese medio-grandi. Se ne vedono i sintomi nella crescita massiccia dei cosiddetti “artigiani digitali” (quasi sempre giovani con una certa aggressività, sia pure soft, come si conviene al settore) e nell’interesse crescente per movimenti di mercato che potrebbero dare luogo a una significativa presenza di nuove aziende private strutturate. Sarebbe un passo avanti anche nel campo delle privatizzazioni, rispetto alla presenza privata nei servizi “a tariffa” per le amministrazioni pubbliche che ha caratterizzato l’“economia mista” degli ultimi vent’anni.

11.           Ma quale filo rosso, quale anima segreta dei vari processi richiamati nei precedenti paragrafi può fare da nuovo motore dello sviluppo? La risposta è riassumibile in un concetto: la connettività.

Non si può pensare il futuro dello sviluppo digitale se non lo si vede come progressiva connettività (non banalmente connessione tecnica) fra i soggetti implicati nel processo; non si fa e non si può pensare il futuro del nuovo welfare (comunitario, aziendale, associativo, privato che sia) se non lo si vede come progressiva connettività di comportamenti individuali e collettivi; non si può pensare al futuro dei soggetti “nuovi” della vitalità d’impresa se non lo si constata animato da una connettività crescente di comportamenti e culture individuali e collettive; non si può pensare a una ulteriore potenza del modello che ci ha connotato per decenni, e a cui dobbiamo la sopravvivenza dell’ultimo anno, se non lo si vede animato, nei singoli segmenti prima ancora che nella dinamica complessiva, da una forte carica di connettività, più matura e sottile rispetto al- l’ormai stanco richiamo alla “coesione sociale” (altra espressione forse da superare). Senza capacità e cultura di connettività, non sarebbero possibili i processi di responsabilità e sviluppo; è la connettività la cifra della necessaria rimodulazione della coesistenza dei soggetti sociali.

12.           I dubbi su una tale prospettiva sono tanti e tutti comprensibili. Siamo pur sempre una società a forte impronta di individualismo; di egoismo particolaristico; di resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi; di gusto per la contrapposizione emotiva, almeno sulle grandi questioni nazionali; di scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni, che dal perseguimento dell’interesse collettivo traggono ruolo e legittimazione. E non è quindi facile prevedere una progressiva, spontanea accettazione dell’obiettivo e della prassi di una crescente connettività.

Eppure la speranza che ciò avvenga non è del tutto irrealistica. Non solo perché di connettività implicita ce ne è già tanta nei vari processi su cui è costruita la nostra società, ma anche e soprattutto perché la crisi antropologica prodotta dalle propensioni sopra citate (dall’individualismo alla contrapposizione emotiva) sembra aver raggiunto il suo apice e sembra destinata a un progressivo superamento. Certo, il primato della lunga deriva che anima il lavoro interpretativo ci richiama alla prudenza nel considerare tale superamento come effetto “da pendolo” più o meno ravvicinato e nell’accettare che la crisi antropologica non si risolve di punto in bianco. Ma va segnalato che i motori di tale crisi vanno perdendo la loro forza di spinta: siamo sempre più stanchi del primato del soggetto e della sua narcisistica onnipotenza; siamo sempre meno convinti che sia fatale degenerare in mucillagine; siamo sempre meno persuasi che il particolarismo, anche quando aiuta a sopravvivere, migliori la qualità della vita; cominciamo a capire che l’indulgere alle contrapposizioni non aiuta a crescere, se non si tramuta in più articolate dinamiche socio-politiche; senza contare che stiamo cominciando a capire che è meglio avere attenzione diffusa al benessere collettivo, piuttosto che farcelo imporre da poteri e parametri a noi esterni. Ci stiamo cioè rendendo conto che il tempo delle pulsioni, talvolta sregolate, è destinato a farci regredire nella civiltà collettiva.

Per anni abbiamo pensato che le pulsioni venissero dalla dimensione inconscia della vita e che toccasse ai “poteri della ragione” regolarle, se non reprimerle. Oggi le pulsioni sregolate sono nella realtà sociale (addirittura nei poteri della ragione) ed è l’inconscio collettivo che ci segnala la verità, invero traumatica, dell’esigenza di ordinarle e regolarle; è l’inconscio collettivo che impone la connettività a un sistema in costante tentazione e pericolo di sregolatezza.

Trattandosi di un “processo interno ai processi”, la connettività è un fenomeno logicamente incardinato e operante dal basso, nella quotidianità delle cose; non e’ quindi capace di imprimere la propria importanza nelle sfere superiori della vita collettiva, e ancora meno è possibile usarlo come messaggio dall’alto, magari a mo’ di slogan, come “sale alchemico” della lenta mutazione in corso.

13.           In questa prospettiva, la crescita di connettività tende a propagarsi non verso l’alto, ma in avanti, attraverso una sempre maggiore coesistenza orizzontale di soggetti e comportamenti sociali.

Una connettività che lieviti verso l’alto, verso le sfere di responsabilità istituzionale e politica, non avrebbe spazio oggi, forse sarebbe addirittura rifiutata e rimossa. Le strutture istituzionali, quelle che per storia hanno costruito il tessuto connettivo della nazione, stanno subendo una forte regressione di ruolo: non possono fare connettività perché sono crescentemente autoreferenziali e avvitate su se stesse; sono condizionate dagli interessi delle categorie e dei gruppi che le gestiscono; sono avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare; e si sono pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino di quella terzietà necessaria per la gestione della dimensione intermedia fra potere e popolo. Non sono più, in altre parole, titolari della connettività del Paese.

La connettività verso l’alto meno ancora può lievitare nelle ambizioni della leadership politica, che è più propensa all’enfasi di mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la sottovalutazione dell’importanza dei diversi percorsi di vitalità, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide (dalla selva dei decreti legge all’uso continuato dei voti di fiducia). Lontano da un impegno di connettività, il primato della politica (se mai ancora esistesse) diventa ogni giorno regressivo, e può succedere che in una società “sciapa” l’unico fervore sia diventato quello dell’antipolitica.

14.           Se istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzare, o almeno accettare, la spinta a una crescente connettività nel sistema, non cadiamo nella presunzione che possa ricrearsi una spinta verso i livelli alti di responsabilità: la spinta forte sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi di vita collettiva. Se ne è già vista la presenza nei processi che hanno consentito di superare la fase della sopravvivenza, nei processi di emersione di nuovi soggetti imprenditoriali, nel modo in cui i vari soggetti si atteggiano verso le attuali trasformazioni di sistema (revisione del welfare e sviluppo digitale). Ma se ne intuisce la traccia anche in fenomeni e processi più frammentati e poco visibili: si guardi solo nel mondo della rappresentanza degli interessi e si troveranno fenomeni nuovi e interessanti: dalla concentrazione dell’associazionismo datoriale alle reti di nuove professioni, dalle iniziative comuni sulle filiere di business (contratti d’impresa, consorzi, ecc.) al rinsaldarsi del rapporto imprese-territorio. In sintesi, la connettività avanza con la sua dinamica orizzontale, anche se poco compresa dai signori della ragione, ancora in attesa di interventi di grande innovazione che hanno cittadinanza nei loro progetti ma non nella realtà.

La realtà, infatti, giorno per giorno viene palesata dalla crescita di connettività, tanto che le stesse antiche caratteristiche sistemiche della nostra società (l’equilibrio fra città e territori circostanti, la natura mista di pubblico e privato nella dinamica economica, la valorizzazione di una molteplicità che non scade a primato della moltitudine) vanno trovando una nuova e più sofisticata alimentazione proprio nella crescente connettività del sistema. A conferma che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto pensino una opinione pubblica impaurita e una leadership politica e amministrativa forse altrettanto impaurita, ma propensa soprattutto a misurarsi sul controllo della capacità di resistenza polmonare di un sistema che ha bisogno (e voglia) di respirare, di tornare a respirare. Sarebbe cosa buona e giusta fargli “tirar fuori il fiato”.

 

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