Lo sciopero Generale c’è stato, cosi come da regola seguito dalle solite polemiche sul tasso di adesione, elevatissimo per i proponenti, scarso per i detrattori.
Non so quanto il Governo, e la sua, ormai rissosa, maggioranza ne voglia tener conto, non credo che ci possano essere molti spazi per una modifica sostanziale della Legge di bilancio, almeno nella direzione richiesta dai proponenti dello Sciopero Generale a sostegno della loro piattaforma.
Le richieste ovviamente, tutte legittime e condivisibili, (come diceva Victor Hugo “è facile essere buoni, è difficile essere giusti”) per essere anche solo in parte realizzate avrebbero richiesto decine di miliardi di euro, la cui copertura sarebbe stata davvero difficile indicare.
Di queste condizioni ne erano consapevoli tutti, come tutti ormai sanno che, ogni anno, la nostra Legge di bilancio deve sottostare al severo giudizio degli Organismi europei, ma ancora di più a quello spietato dei mercati. Ne sa qualcosa la Francia, in questo momento.
Eppure i nodi centrali di uno specifico caso italiano che meriterebbero una paziente ed attenta azione sono chiari a tutti quelli che non vogliono utilizzare le lenti deformate della retorica.
In primis una struttura del prelievo fiscale sul reddito da lavoro, che non penalizza i redditi più bassi, ma quelli intermedi quelli nella fascia dei 30.000 – 50.000 euro lordi annui. Sono questi i nuovi Kulaki da reprimere? Eppure di questa specifica tematica non si fa cenno, se non in generiche, quanto confuse rivendicazioni per una miglior riforma fiscale, un aumento della lotta all’evasione (panacea di tutti i mali del nostro sistema).
Si invoca una generica rivolta sociale invece che indicare un paziente e faticoso sentiero di gestione del conflitto sociale che, lasciato cosi alle sue spontanee dinamiche, non potrà che favorire un esito di destra e di ulteriore riduzione dello stato sociale, almeno cosi come noi l’abbiamo conosciuto.
Conflitto sociale e rivolta sociale sembrerebbero due sinonimi ma non lo sono.
L’uno indica una condizione endemica, inestinguibile, per fortuna, caratteristica delle “società aperte”, in cui la regolazione dei diversi interessi avviene attraverso la negoziazione degli stessi.
Il conflitto sociale, nelle società moderne, si è evoluto all’interno di regole abbastanza precise, innanzitutto, relative alla rappresentanza stabile di questi interessi, poi in seguito al concetto di delega senza vincolo di risultato, infine alla negoziazione attraverso processi di mediazione, più o meno determinati anche dai rapporti di forza in campo.
Insomma, il conflitto sociale è connaturato alle società moderne democratiche ed evolute, ha le sue regole e per quanto possa essere molto intenso, come capita in diversi casi, non ultimo l’attuale vertenza per il rinnovo del CCNL dei metalmeccanici, esso non può mai perdere di vista un eventuale accordo tra le parti. Il mancato accordo sarebbe una sconfitta, non una vittoria per i diversi interessi in campo.
In questo senso l’apertura di un conflitto sociale presuppone sempre la trattativa e l’esito della stessa, verificato, sulla base delle regole del mandato irrevocabile dato ai negoziatori, ne è la misura del suo successo o del suo fallimento.
Non è mai solo una prova di forza muscolare, non è mai l’avvio indistinto e senza prospettive di una rivolta.
Le parole hanno un significato preciso.
Insomma il conflitto sociale non è sinonimo di rivolta sociale, esso aborre lo spontaneismo, rifugge dalla generica insoddisfazione, non è una fiammata di disperazione. E’ la lenta, paziente costruzione di una organizzazione, di una piattaforma di rivendicazioni, alla quale segue sempre un faticoso negoziato e non in sporadici casi, sofferte mediazioni.
Perché il problema vero di uno sciopero generale non è se esso riesce o meno, ma soprattutto è cosa succederà il giorno dopo.