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Pensioni e speranza di vita, un rapporto dimenticato

Anche nella recente legge di bilancio il problema pensionistico è stato parte non marginale delle decisioni assunte. Per la verità ci si è guardati bene dall’assumere decisioni di una certa rilevanza strutturale, ma si sono operati alcuni adeguamenti di durata limitata, che hanno talvolta creato più discussioni che risolto problemi. 

In concreto, si è assunta la regola di quota 103 per l’uscita dal lavoro (62 anni di età e 41 di contributi), si è decisa una nuova versione di “opzione donna” con l’aumento dell’età pensionabile a 60 anni, mentre rimane a 58 anni per le donne con due figli, e si sono aumentate le pensioni minime a 600 euro per gli over 75. Il tutto finanziato con il taglio della rivalutazione delle pensioni superiori a 2100 euro mensili. 

Nel complesso, alcuni ritocchi per dare risposta parziale a richieste presenti nella coalizione, con l’attenzione rivolta alla situazione presente, tuttavia lontani dalla proposta della Lega, secondo la quale tutti avrebbero potuto andare in pensione sulla base del solo requisito di 41 anni di contributi. Rinviando a un futuro indefinito, e probabilmente sempre più complesso e difficile, una riforma strutturale del sistema che riporti maggiormente sotto controllo la dinamica della spesa pensionistica facendo i conti con l’evoluzione futura dei pensionati e della loro speranza di vita. 

Attualmente la spesa del sistema pensionistico italiano, avendo presenti gli effetti non positivi della crisi economica iniziata fin dal 2008 e della pandemia, arriva a 239 miliardi (17,6% del Pil) nettamente superiore alla media dei Paesi Ue e Ocse e che contribuisce in modo significativo ad alimentare il nostro debito pubblico. Le cause di tale divario internazionale sono rappresentate dall’età pensionabile relativamente bassa, dal rapporto di sostituzione (rapporto tra pensione e ultima retribuzione) relativamente alto, quindi dalla qualità della regolazione legislativa. 

Il dibattito politico sulla necessità della riforma è stato in gran parte egemonizzato dalla Lega, che ha fatto dell’attacco frontale alla Legge Fornero l’obiettivo strategico, motivando la sua critica radicale soprattutto sull’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni. In tal modo, grazie anche ad un certo assecondamento sindacale, nel dibattito ha nettamente prevalso la parte destruens della riforma, mentre hanno dimostrato tutta la loro inconsistenza strategica le proposte di modifica di segno chiaramente corporativo con effetti più o meno immediati. 

Anche queste ultime scelte della manovra, tendenti a favorire, in vario modo, l’uscita anticipata dal lavoro, cozzano con la dinamica della speranza di vita che per il nostro Paese ha ripreso a salire, e nel 2021 registra un valore medio di 82,4 anni (80,1 per gli uomini e 84,7 per le donne). Un dato che, sia pure condizionato dai progressi della medicina, consente una vita caratterizzata dalla piena integrità fisica e psichica protratta per alcuni anni oltre i valori indicati dall’attuale età di pensionamento. 

Poiché il lavoro regolato, sicuro e retribuito, anche se protratto per alcuni anni, rimane pur sempre una espressione positiva della propria personalità e strumento di ulteriore autonomia economica personale e famigliare, oltre che opportunità di servizio sociale solidale, è tempo di considerare l’allungamento dell’età di pensione come una ulteriore conquista frutto del benessere raggiunto. Non a caso la scelta di aumentare l’età pensionabile è attualmente seguita da Francia e Germania, che non credo manifestino una sensibilità minore nella difesa dei pensionati. 

Certamente questa scelta ha anche effetti positivi nella tenuta complessiva dei conti del sistema pensionistico, perché alla fine, consente di aumentare il versamento dei contributi e a ridurre il tempo di erogazione della pensione, ma sarebbe erroneo pensare soltanto agli effetti finanziari come la sua vera motivazione. In realtà si tratta di un adeguamento della durata del lavoro, che rimane diritto fondamentale della persona, alle nuove e maggiori possibilità di vita. 

Credo che riportare a questo livello le scelte di riforma delle pensioni consenta di semplificare il sistema e di renderlo trasparente nei suoi meccanismi di funzionamento e nelle sue finalità. Certo un modo nuovo di affrontare la riforma che richiede visione strategica, coraggio e determinazione, da tempo perse per strada e sostituite dalle ambiguità e contraddizioni di segno populista e corporativo, che caratterizzano le scelte anche di questo governo. 

Una possibilità che avrebbe la duplice conseguenza di rendere la riforma delle pensioni più aderente alle vere esigenze della vita post lavorativa degli anziani, e di poter realizzare un maggiore impegno per risolvere i crescenti problemi di inserimento nella vita attiva e di lavoro dei giovani, che stanno diventando sempre più il maggior capro espiatorio della nostra società.

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