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Pensioni, quelle d’oro a volte non luccicano

Circa una quindicina di anni fa una signora friulana balzò agli onori della cronaca come colei che era andata in pensione (Inps) prima di aver compiuto i trent’anni. Assunta come bidella in una scuola, appena finita la scuola media, aveva legittimamente usufruito della norma che permetteva alle donne di andare in pensione con quattordici anni, sei mesi ed un giorno. Ovviamente, la pensione aveva avuto l’integrazione al minimo. Non mi soffermo sulle ragioni di quella norma, piuttosto ovvie. Quello che vorrei sottolineare è che il rendimento dei versamenti contributivi, in termini di anni di pensione attesi, tre volte quelli di lavoro, era tale che neppure Madoff avrebbe potuto assicurarglielo. E tuttavia il livello della pensione era ed è rimasto molto basso.

La discussione e le (vaghe) proposte sui pensionati d’oro (ladri!) da colpire mi sembra che nascondano una confusione evidente tra alto rendimento (dei contributi versati) e alto livello della pensione. E’ bene chiarire che spesso i due aspetti sono disgiunti. 

Come è noto i sistemi retributivi e contributivi sono due sistemi a ripartizione. Nel sistema retributivo l’obiettivo non è quello di assicurare un uguale tasso di rendimento a tutti i lavoratori, ma di stabilire una relazione tra prima pensione ed ultime retribuzioni. Il sistema permette poi dei trasferimenti di risorse a fini equitativi. Chi ne beneficia avrà un rendimento più alto rispetto a chi invece cede una parte delle risorse. Se la media del sistema ha un rendimento pari al tasso di crescita del Pil (o meglio della massa salariale) il sistema è in equilibrio (a parte eventuali fluttuazioni demografiche).

Quello che è successo da noi è stato il fatto che la distanza tra il rendimento medio e la crescita economica è diventata, in particolare a partire dagli anni ottanta, sempre maggiore, determinando la prospettiva di un crescente peso della spesa pensionistica. Rendimenti alti potevano ottenerli sia gli operai con carriera piatta, ma che potevano andare in pensione a cinquanta anni, sia i dirigenti che avevano grandi aumenti retributivi negli ultimi anni prima del pensionamento (analogo discorso dal 1990 per gli autonomi). Ma la differenza è che la pensione dell’operaio cinquantenne era bassa, mentre quella del dirigente sessantenne era alta. 

Si può sintetizzare con una tabella l’azione dei due fattori che determinano il livello del rendimento e quello della pensione; i due fattori sono la carriera (alta o bassa) e gli anni di vita attesa, che ovviamente dipendono dagli anni di pensionamento (la vita attesa tende ad aumentare, ma lentamente):

Tabella 1

 

Carriera veloce

Carriera lenta

Vita attesa lunga

Rendimento alto

Pensione media

Rendimento alto

Pensione bassa

Vita attesa breve

Rendimento medio

Pensione alta

Rendimento basso 

Pensione media

 

Si può costruire qualche esempio a titolo illustrativo. Si supponga un operaio che inizi con una remunerazione pari al 60% di quella media, con una crescita media lenta di 1,5% (senza inflazione) per 35 anni. Il calcolo della pensione retributiva avviene sulla media degli ultimi dieci anni. La pensione sarà pari a 63,41 (1); nel caso di pensione calcolata col metodo contributivo, ipotizzando 23 anni di vita attesa, sarebbe di 39,7, cioè il 63% di quella retributiva. Nel caso di 40 anni lavorativi (vita attesa 18 anni), la pensione retributiva è pari a 78,1, mentre quella contributiva a 72,4, che costituisce il 93%. 

Nel caso di un impiegato con remunerazione iniziale media, con carriera rapida (2,5%) con 35 anni abbiamo la pensione retributiva a 147,5, mentre col contributivo avrebbe 87,6, cioè il 59%. Con 40 anni di lavoro abbiamo 190,7 col retributivo e 164,8 col contributivo (differenza di 86%).

 

Tabella II Anni 35 Anni 40 

Carriera

Retributivo

Contributivo

Retributivo

Contributivo

Lenta

63,4

39,7 – 63%

78,1 

72,4 – 93%

Veloce

147,5

87,6 – 59%

190,7

164,8 – 86%

 

Nel caso poi di magistrati o professori universitari, che hanno un pensionamento tra 70 e 75 anni, iniziando con una remunerazione di un terzo superiore a quella media, supponendo 45 anni di attività lavorativa, abbiamo 323,7 col retributivo, ma 560,4 col contributivo, ipotizzando 8 anni di vita attesa (quindi il 173% della pensione retributiva). In questo caso cioè il contributivo sarebbe nettamente più alto del retributivo. 

Gli esempi sopra evidenziati servono a dare solo un’idea del problema; quello che si può notare è che l’elemento che ha il maggior peso nella differenza tra retributivo e contributivo è costituito dagli anni di vita attesa, cioè dall’età del pensionamento. Questo elemento conta di più della velocità di progressione della retribuzione. A questo proposito non va dimenticato che in molti casi la scelta del pensionamento non è stata spontanea, ma “spintanea”; una significativa fetta delle ristrutturazioni industriali sono state fatte nei decenni passati usando il sistema pensionistico a volte con misure ad hoc (prepensionamenti). Operai, impiegati, ma anche dirigenti sono stati messi in pensione che lo volessero o meno. 

Mi sembra quindi che le affermazioni che spesso si sentono da varie parti – risuonate ad esempio con parole forti alla Leopolda di recente – sulla necessità di colpire le “pensioni d’oro” in quanto non meritate (cioè più alte di quelle che si sarebbero conseguite col contributivo), confondano la pensione alta (più di 3000 euro, per fissare un numero) con il rendimento ottenuto dal lavoratore. In realtà gli scarti più alti li ritroviamo tra le pensioni medie (lavoratori dipendenti) o basse (autonomi), o proprio minime (appunto le pensioni integrate al minimo). 

L’Inps ad esempio fornisce i seguenti dati per quanto riguarda le pensioni dirette (escludendo invalidità e reversibilità):

 

Numero Pensione media mensile

 

Lavoratori dipendenti 5 milioni 800mila 1200 euro

Autonomi 3 milioni 300mila 840 euro 

Integrate al minimo 2 milioni 480 euro 

 

Questi sono valori medi (cifre arrotondate); ma ad esempio i circa 95mila pensionati Inpdai hanno una pensione media di 4362 euro. Tuttavia, è ben possibile che una parte dei dirigenti abbiano pensioni (retributive) che non si discostano molto da quelle che avrebbero col contributivo; si tratta di coloro che hanno lavorato fino a 65 anni.

Un intervento legislativo che rivede ex post le pensioni è una cosa che non credo sia stata fatta in nessun paese; ma ipotizziamo di voler intervenire, perché nel futuro Parlamento emerge una maggioranza di “indignati” nei confronti dei padri che rubano ai figli. Supponiamo anche che in un certo arco di tempo (da misurare comunque in anni) l’Inps possa ricalcolare tutte le pensioni; le formule sono pronte (2), basta adattare una ventina di coefficienti e parametri a ciascuna pensione. A questo punto si prende la differenza tra le due pensioni: supponiamo che una pensione di 2.600 mensili abbia un eccesso del 41% (3); si tratta di 10.660 su base annua. A questa cifra si applica un sistema a scaglioni, così congegnato: i primi mille euro esenti, sui secondi si applica l’1%, sui terzi il 2%, e così via. Il prelievo sarebbe quindi di 516 euro, cioè il 2% (52 euro mensili). Ovviamente il prelievo marginale dovrebbe fermarsi quando si arriva al centesimo migliaio (o forse no! In fondo sono somme restituite dai padri ai figli). 

Come si vede il metodo deve coinvolgere tutte le pensioni, senza eccezioni. Così congegnato potrebbe forse sopravvivere ad un esame di costituzionalità. L’idea invece di fissare un limite inferiore (sia esso 3000 o più al mese) e di applicare un taglio random solo alle pensioni che superano la soglia è un errore logico che diventa un vizio giuridico. Quanti minuti ci metterebbero i pensionati ex magistrati a ricorrere a tutte le Corti nazionali ed europee? Tra l’altro un provvedimento che ottiene un risultato analogo è stato già messo in atto dai governi Monti e Letta, perché le pensioni dai 3000 euro in su perderanno un 10% circa del valore (a meno che l’inflazione non si arresti, ma questo significherebbe guai molto seri per l’economia). 

Quali sono le probabilità che una simile proposta venga approvata da un Parlamento? Gli economisti-politici direbbero che si tratta di confrontare il numero dei pensionati e lavoratori anziani (pre 1995) con quelli giovani (post 1995). Se è così, la risposta è indubitabilmente negativa. E’ comunque chiaro che queste discussioni derivano dal fatto che, se togliamo le pensioni e gli interessi sul debito pubblico, il resto della spesa pubblica costituisce una quota del Pil tra le più basse in tutta Europa (se non erro siamo penultimi davanti ai lituani). Ecco allora che l’attenzione si rivolge verso il nostro record europeo, cioè la quota di spesa pensionistica. L’errore fu fatto con la riforma del 1995 quando si esentarono dal pro-rata coloro che avevano i diciotto anni di anzianità lavorativa. Ma ora è troppo tardi (e Monti-Fornero hanno già provveduto per i pochi anni di lavoro che restano ai “diciottenni”), i lavoratori che avranno la pensione calcolata col retributivo stanno per esaurirsi e quasi tutti i prossimi avranno il metodo misto, su cui non vale nemmeno la pena di intervenire. 

(Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata sul Sole24Ore) 

 

Note
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(1) la differenza tra pensione e stipendio è più favorevole, perché dallo stipendio si deve togliere un 9% di contributi a carico del lavoratore

(2) Si veda “Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario 2013”, Rapporto n. 14, box 6.3, Ragioneria generale dello Stato.
(3) Il 41% è il complemento ad 1 del caso di carriera veloce con 35 anni della Tabella II

 

(*) Articolo tratto dal sito Egualianza & Libertà

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