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Si profila un conflitto tra pensionandi e pensionati (*)

La legge di stabilità di Monti nel 2011 ha segnato, con tutta probabilità, uno spartiacque negli interventi sul sistema pensionistico. Da un lato, è intervenuta sull’età di accesso alla pensione portando a compimento un processo iniziato nel 1992 con la riforma Amato, dall’altro, ha limitato pesantemente sull’indicizzazione delle pensioni.

Il primo tipo d’intervento è quello che, unitamente al cambiamento della modalità di calcolo delle pensioni introdotto con il metodo contributivo nel 1995, ha caratterizzato tutte le riforme del sistema pensionistico dal 1992 al 2011. Tutte queste misure hanno avuto come platea d’intervento i futuri pensionati, ossia i lavoratori, colpendoli progressivamente in misura via via maggiore sia nelle modalità di computo della pensione sia nell’età di pensionamento. Questo processo è ora giunto a compimento e le previsioni a medio-lungo termine della Ragioneria Generale dello Stato sulla spesa pensionistica indicano “come, nel panorama europeo, l’Italia risulti uno dei paesi con la più bassa crescita della spesa pensionistica in rapporto al PIL segnalando, sotto questo aspetto, un rischio contenuto in termini di impatto dell’invecchiamento demografico sulla sostenibilità delle finanze pubbliche”. 

Questo significa che se nelle prossime leggi di stabilità si volesse ancora fare cassa sulle pensioni come si è fatto sino al 2011, la platea d’intervento non potrà più riguardare i lavoratori-pensionandi, ma dovrà riguardare i pensionati.

Monti-Fornero l’hanno già fatto attraverso il blocco dell’indicizzazione delle pensioni superiori a tre volte l’integrazione al minimo e l’ha ripetuto in forma più attenuata Letta, modificando in peggio le norme sull’indicizzazione.

Già negli anni novanta si è intervenuti sull’indicizzazione delle pensioni, eliminando l’aggancio ai salari e con blocchi ripetuti della perequazione per le pensioni superiori a 8 volte il minimo. Con Monti e Letta si è abbassato questo limite da 8 a 3 volte il minimo intervenendo, quindi per la prima volta, sulle pensioni medio-basse pari a 1.400/1.500 euro lordi al mese (1.150/1.250 euro netti). A questa novità si aggiunge oggi il fatto, come detto, che le pensioni in essere sono nel sistema pensionistico l’unica fonte a cui il governo può attingere per drenare risorse.

A questa nuova situazione di fatto si aggiunge un altro importante elemento su cui nessuno in ambito sindacale sembra riflettere e che trova invece udienza in qualche politico, vedi Renzi e Grillo, e in qualche economista, vedi Boeri.  

Un sistema pensionistico a ripartizione, con le pensioni finanziate dai contributi di chi lavora, è accettabile dai lavoratori nella misura in cui le loro pensioni attese siano simili a quelle per le quali versano i contributi. Diventa non accettabile se i lavoratori debbono finanziare con i loro contributi pensioni sensibilmente più alte di quelle che potranno avere. Nel nostro sistema pensionistico siamo oggi di fronte a quest’ultimo scenario per effetto da un lato delle riforme fatte e dall’altro di un mercato del lavoro che ha reso precarie, oltre al lavoro, anche le aspettative pensionistiche.

Basta fare un giro in internet per accorgersi di quale sia l’umore di molti lavoratori specialmente, ma non solo, precari verso gli attuali pensionati e le loro pensioni. E la critica non riguarda solo le cosiddette “pensioni d’oro”, bensì il livello delle pensioni percepite come d’oro ed esso, spesso, coincide con quello individuato da Monti/Letta. Del resto un lavoratore con tanti anni di precariato e con un futuro atteso non particolarmente migliore può considerare “d’oro”, rispetto alla pensione che riuscirà a percepire dopo i 70 anni, una pensione attuale di 1.500 euro, soprattutto se pensa che non corrisponda ai contributi versati. Da qui il diffondersi in rete di richieste d’intervento drastico sulle pensioni in essere.

Si profila una frattura tra mondo del lavoro e pensionati sempre maggiore, con una spinta crescente a trovare nello stock di spesa pensionistica una riserva di risorse per ridurre la spesa pubblica e/o finanziare interventi di spesa. 

Rispetto a questa insofferenza del mondo del lavoro, o di una sua parte, vi è una colpevole disattenzione e sottovalutazione del fenomeno e vi sono anche risposte demagogiche e, spesso, ignoranza dei numeri concreti.  

Il governo Letta ha introdotto un nuovo contributo di solidarietà (è dovuto un contributo di solidarietà a favore delle gestioni previdenziali obbligatorie, motivazione considerata utile per superare lo scoglio della Corte Costituzionale) per gli importi di pensione sopra i 150.000 euro. Il gettito del contributo è quantificato nella Relazione tecnica in 12 milioni netti di euro all’anno a fronte di una spesa pensionistica stimata nella stessa relazione in 250 miliardi di euro annui. In base ai dati del Casellario l’importo complessivo annuo delle pensioni soggette al contributo è di circa 1 mld; i 12 milioni risparmiati dallo stato corrispondono all’1,2%. Più che un contributo di solidarietà è un obolo. E’ evidente che il governo è incapace/o non vuole/o non può intervenire sulle pensioni più alte; un contributo mensile, per lo più lordo, di 2.250 euro su importi di pensioni di 30.000 euro non solo, come è ovvio, non da risposte dal punto di vista macroeconomico, ma nemmeno da quello di equità. 

Ma quanto potrebbe dare un intervento più drastico sulle pensioni? E’ ragionevole pensare di poter passare dai 12 milioni della legge di stabilità ai diversi miliardi a volte ipotizzati? E ancora, a cosa destinare queste eventuali risorse?

L’ammontare di risorse che si possono ottenere, tralasciando i non piccoli aspetti giuridici, dipende dalle modalità d’intervento e dal livello d’importo da cui operare. Riferirsi alle pensioni d’oro non significa nulla, finché non si indica la cifra, sapendo che più in alto si colloca l’asticella dell’intervento più limitato è l’importo su cui intervenire. 

Il casellario Inps valuta la spesa pensionistica annua in circa 270 miliardi di lire. Un intervento sulle pensioni superiori a 10 volte il minimo, ossia circa 5.000 euro mensili lordi nel 2014, interesserebbe una platea di 190.000 persone con un importo pensionistico complessivo di 15,6 miliardi di euro. Se si volesse intervenire su di un ammontare maggiore, bisognerebbe spostare in basso l’asticella. I pensionati con un importo superiore a 8 volte il minimo (4.000 euro lordi mensili) sono 350.000 con un ammontare complessivo di pensione pari a 24 mld; quelli con un importo superiore a 6 volte il minimo (3.000 euro lordi mensili) sono 800.000 con un ammontare complessivo di pensione pari a 44 mld.

Boeri ipotizza tre diversi scenari con contributi di diverso importo operanti sulle pensioni superiori a 6 volte il minimo. A seconda dei livelli del contributo (che dall’1% per le pensioni più basse arriva al 15% per le pensioni più alte) ottiene un ammontare che varia da 800 a 900 milioni. Boeri considera il prelievo lordo trascurando che questo contributo sarebbe deducibile e trattandosi di fasce di pensione soggette ad aliquote del 38%, 41% e 43%, il risparmio netto ottenuto andrebbe ridotto del 40%, scendendo a 500 milioni circa. Inoltre, Boeri applica il contributo all’intera pensione e non sola alla parte superiore a 6 volte il minimo. Se si adottasse quest’ ultima soluzione, come fa il governo, il contributo darebbe un gettito netto inferiore ai 100 milioni di euro. 

Applicando le ipotesi di Boeri anche alle pensioni sopra tre volte il minimo (5 milioni di persone per un importo complessivo di 155 miliardi) si otterrebbero risorse nette per circa 1,2 miliardi di euro.

Yoram Gutgeld ipotizza un contributo del 10% sulle pensioni sopra i 3.500 euro, con un risparmio di circa 3,3 mld se è colpito l’intero importo della pensione. Calcolo corretto, ma anche lui dimentica che il contributo è deducibile e quindi il risparmio netto scenderebbe a 2 mld.

La strada del contributo, pur esteso a livelli bassi di pensione e/o con aliquote alte, non può quindi dare le risorse spesso indicate di diversi miliardi, a meno di aliquote espropriative.

Un altro intervento ipotizzato è quello di un “taglio” delle pensioni legato al rapporto tra importo goduto e versamenti effettuati, intervento che non sfugge comunque al fatto che a una minore spesa pensionistica corrisponderebbe anche un minor incasso fiscale per lo stato. Questo tipo d’intervento, tuttavia, se correlato anche all’età di accesso alla pensione, colpirebbe in primo luogo le pensioni di anzianità del settore privato, pensioni normalmente d’importo medio e medio-basso, e potrebbe colpire meno le pensioni alte di dirigenti pubblici e privati, medici, magistrati e categorie simili che solitamente sono andati e vanno in pensione a età molto più alte rispetto ai percettori di pensioni di anzianità. Sarebbe singolare ridurre una pensione di anzianità 1.500 euro e non ridurre, o ridurre in misura percentuale minore, una pensione di vecchiaia di 5/10.000 euro.

Chi propone questa strada generalmente la limita alle pensioni sopra una certa soglia. Questo, tuttavia, riduce fortemente la massa di spesa su cui intervenire, come si è visto. Vi sarebbero poi numerosi problemi per la sua applicabilità concreta, specie nel settore pubblico, quello per altro in cui sono maggiormente presenti le alte pensioni, particolarmente carente dei dati necessari per questo ricalcolo delle pensioni. Ai giuristi infine il compito di capire se un intervento che modifica ex-post il calcolo della pensione è fattibile o meno.  

In merito al punto relativo a come utilizzare queste eventuali risorse, credo sia da respingere l’ipotesi prospettata da Amato e altri di usarle per alzare le pensioni basse. Si tratterebbe di un trasferimento tra pensionati, non necessariamente equo, che lascerebbe inalterata la situazione e le prospettive dei lavoratori non ricomponendo la frattura tra il mondo dei pensionati e quello del lavoro.

Si fa spesso demagogia sulle pensioni più basse trascurando sempre la loro origine. Bisognerebbe in primo luogo parlare di pensionati e non di pensioni considerando che a fronte di più di 23 milioni di pensioni vi sono circa 16 milioni di pensionati, il 33% dei quali percepisce due, tre o quattro pensioni. 

Vi sono certamente più di 5 milioni di pensionati con una pensione tra 500 e 1.000 euro e poco più di 2 milioni con una pensione inferiore a 500 euro, ma chi sono? I pensionati sociali, sotto i 500 euro, sono circa 1 milione, le pensioni integrate totalmente o parzialmente al minimo sono circa 3,4 milioni, d’importo medio di poco superiore ai 500 euro mensili. Vi sono poi buona parte delle pensioni di guerra e molte pensioni di reversibilità. Da ultimo, molte pensioni delle gestioni dei commercianti e degli artigiani, spesso integrate al minimo.

 Le pensioni sociali e quelle integrate già ricevono un aiuto dalla collettività per l’intero importo della pensione o per parte di essa. Molte delle pensioni degli autonomi sono frutto di autonome “scelte” contributive da parte degli attuali percettori. A fronte della mancanza totale di misure contro la povertà e di sostegno al reddito dei disoccupati e dei mai occupati, a fronte della diffusione di retribuzioni inferiori ai 1.000 euro lordi, che senso avrebbe indirizzare risorse ulteriori verso chi già usufruisce di un aiuto o verso chi ha una pensione bassa per propria scelta?

Se queste risorse ci saranno, dovranno essere utilizzate all’interno del sistema pensionistico per ridurre il divario tra le attuali prestazioni e quelle future.

 

(*) Articolo tratto dal sito di “Eguaglianza & Libertà”

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