“Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori famigliari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”
Bob Kennedy – 1972
La convinzione che non possa più bastare il PIL come indicatore della condizione in cui si trova un Paese è motivata dalla crescente insoddisfazione dei risultati cui si è pervenuti con la dottrina utilitaristica che ha promosso il concetto di benessere inteso come somma del benessere dei singoli individui.
L’importanza del PIL è indiscutibile e mai come oggi, nella gran parte dei Paesi industrializzati, si potrebbe chiaramente negarla; meno ancora nel nostro, dove, si è sempre più consapevoli dell’importanza della domanda di beni e servizi come stimolo per accrescere lo sviluppo economico in un mondo sempre più globale ed interconnesso.
Il ruolo chiave del PIL è evidente, questo però non equivale a dire che tutto il resto non conta, sappiamo infatti che vi sono diversi fattori che influenzano la qualità della vita degli esseri umani. L’economista e padre della contabilità nazionale Simon Kuznetz, sosteneva che il PIL non potesse essere il solo ed unico misuratore del benessere, non includendo –per definizione– attivitàfuori mercato, condizioni ambientali o diseguaglianze tra cittadini.
Uno dei problemi che oggi riscontriamo con la costruzione del Prodotto Interno Lordo, deriva proprio dal fatto che nel suo computo vengono prese in considerazioni solo transazioni in denaro positive o negative, beni e servizi che hanno un prezzo o che partecipano sul mercato, escludendo invece, tutte quelle attività che riguardano, per esempio, l’economia familiare e le attività di volontariato.
Nelle società dinamiche in cui viviamo è fondamentale saper intercettare con tempestività i cambiamenti e le conseguenti azioni correttive da intraprendere; introdurre indicatori di benessere nella misurazione della crescita di un Paese presuppone il tentativo ambizioso, quanto utile, di comprendere il progresso. L’economista Indiano Amartya Sen a riguardo ha infatti osservato che “discutere di questi indicatori significa ragionare sui fini ultimi e piùprofondi della società”.
Se prendiamo come riferimento la nostra Costituzione colpisce l’assonanza degli indicatori di benessere – individuati come tali da numerosi studi a livello internazionale – rispetto alle prescrizioni contenute in molti articoli della nostra Carta. Di questo bisogna rendere grazie alla capacitàdei nostri Padri Costituenti che hanno avuto non solo un’idea, ma un vero e proprio “progetto di benessere”. Da questo punto di vista si può senz’altro ricordare l’indicazione relativa al dominio della “salute”, a quello del “lavoro e conciliazione dei tempi di vita”. o quello dell’”istruzione e formazione”.
Proprio con riferimento a quest’ultimo, l’Italia presenta un forte ritardo in termini di istruzione e formazione rispetto alla media dei paesi europei, ma, nell’ultimo anno, l’incremento di diplomati e laureati insieme a quello delle persone che hanno svolto formazione continua e alla significativa riduzione del tasso di abbandono precoce degli studi hanno ridotto il divario che ci separa dal resto dei paesi industrializzati. Migliorare l’accesso e la partecipazione ai percorsi formativi e di istruzione significa prima di tutto accrescere il capitale umano del Paese, un obiettivo questo, che richiede che siano perseguite anche equità e pari opportunità nell’accesso ai percorsi di istruzione e formazione.
Le differenze con il Sud sono ancora profonde e non possono non essere imputate anche alla carenza del sistema scolastico. A ciòsi aggiunga che ovunque nel Paese la classe sociale di provenienza continua a condizionare la riuscita dei percorsi scolastici e formativi dei ragazzi. I figli di genitori con titoli di studio elevati o professioni qualificate abbandonano molto meno gli studi, hanno minori probabilitàdi diventare NEET (ndr ragazzi che non sono inseriti in percorsi lavorativi o di istruzione e formazione), presentano livelli di competenza informatica maggiore e partecipano ad attivitàculturali molto più frequentemente dei figli di genitori poco istruiti o con bassi profili professionali.
Questo rappresenta uno svantaggio evidente che richiede di essere preso in considerazione nelle politiche nazionali: in questi anni di sfavorevole congiuntura economica infatti, il titolo di studio conseguito ha rivestito un ruolo sempre più centrale per la partecipazione al mercato del lavoro e la laurea ha difeso di più dagli effetti negativi della crisi che ancora oggi sortisce i suoi effetti negativi.
Il PIL è una misura essenziale per comprendere lo “stato di salute”di un’economia ma come detto esclude dal suo computo importanti variabili economiche (lavoro domestico, cura dei bambini, capitale sociale) e ricomprende, al contempo, fenomeni negativi quali inquinamento o i disastri ambientali.
Sempre di più le grandi organizzazioni internazionali si stanno rendendo conto che il tentativo di individuare proxy alternative per la misurazione del benessere rappresenta un passo necessario per meglio comprendere i punti di forza e criticità di un sistema Paese. L’OCSE, l’Organizzazione mondiale che raggruppa i paesi industrializzati, ha lanciato ormai da qualche anno il “Your Better Life Index”, un modello che analizza i fattori ecologici, economici, umani e sociali, che sono in grado di influenzare positivamente il futuro.
Interessante in questo senso è la rilevazione sul volontariato che emerge dal rapporto; nell’area OCSE il valore del tempo che le persone utilizzano per svolgere attività di volontariato è prossimo a circa il 2% del PIL (ndr dei paesi dell’area OCSE), confermando il contributo e la centralità di attività, che pur non rientrando nelle metriche di calcolo del prodotto interno lordo, contribuiscono in maniera decisiva allo sviluppo sociale ed economico di un Paese.
L’Italia nel 2013 ha presentato per il tramite di ISTAT e CNEL il primo rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (BES), un analisi basata su 134 indicatori raggruppati in 12 dimensioni (patrimonio culturale, lavoro, ricerca ed innovazione, ambiente, sicurezza solo per citarne alcuni). Il BES mira a valutare il progresso di una società tenendo conto di importanti fattori ambientali generali e specifici, declinati in base a fondamentali criteri di equitàe sostenibilitàsociale e collettiva.
In questa direzione si stanno muovendo anche diverse proposte legislative che intendono porre al centro del dibattito il tema della misurazione del benessere collettivo; lo scorso maggio è stato infatti depositato alla Camera dei Deputati il disegno di legge “Modifiche alla legge 31 dicembre 2009, n. 196, concernenti il contenuto della legge di bilancio, in attuazione dell’articolo 15 della legge 24 dicembre 2012, n. 243”. Tale provvedimento prevede, fra l’altro, che nel Documento di Economia e Finanza sia presentato l’andamento nell’ultimo triennio degli indicatori di benessere equo e sostenibile (BES) accanto al PIL, oltre a una previsione sull’evoluzione degli stessi indicatori sulla base delle misure previste per il raggiungimento degli obiettivi di politica economica.
A livello internazionale uno degli indici di sviluppo umano più noti ed utilizzato èlo Human Development Index, sviluppato dal Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) e ispirato dalle idee dell’economista Sen che prevedeva di dare alla popolazione la capacità di scelta: “una libertà sostanziale di realizzare più combinazioni alternative”, sull’accesso ai servizi della salute, istruzione e diritti civili, per far sì che “ciascuno raggiunga il benessere auspicato”.
Lo HDI è una misura composta da tre elementi: 1) reddito pro capite annuo 2) aspettativa di vita alla nascita 3) un indice di istruzione basato sugli anni di scolarizzazione. In questa direzione si èmosso anche il lavoro della Commissione voluta dall’ex Presidente Francese Sarkozy – e costituita ,tra gli altri, dai premi per l’Economia Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen – che ha prodotto una serie di raccomandazioni utili per misurare la perfomance economica e il benessere sociale nei paesi europei, con uno sguardo sullo stato dell’ambiente e sulla governance.
Un aspetto rilevante sul tema è che le numerose iniziative che si sono sviluppate nel campo della misurazione del benessere convergono tutte su specifiche caratteristiche a prescindere dalle culture e dalle peculiarità dei singoli Paesi; questo punto, come già evidenziato anche dall’OCSE di recente, mette in evidenza che i bisogni individuali e collettivi non sono “segmentati” a livello di singolo Stato ma bensì simili in tutto il mondo.
Se ci si basa solamente sul Prodotto Interno Lordo come strumento per analizzare il grado di crescita di un Paese si corre il rischio di far tendere le politiche nella sola via della diminuzione del debito ma al costo molto elevato di distruggere capitale umano. Per far fronte alle conseguenze di questo tipo di politica bisogna stabilire cosa sia il benessere.
Gli elementi che contribuiscono a determinarlo sono appunto la salute, l’educazione, una partecipazione alla vita pubblica e la qualità dell’ambiente in cui si vive. Quella che si sta sviluppando negli ultimi anni è dunque una visione che, pur riconoscendo il ruolo chiave giocato dal PIL, tende a far rientrare nel grado di benessere e sviluppo di una società, aspetti non esclusivamente legati alla produzione economica in senso stretto. La letteratura economica, che si è espressa lungamente sul tema, è sempre più schierata nella direzione di uno sviluppo economico che deve necessariamente corrispondere ad un reale miglioramento degli standard di vita delle persone.
Le evidenze in questo senso sono molteplici: secondo il c.d. “paradosso di Easterlin”quando aumenta il reddito, e quindi il benessere economico, la felicità umana aumenta fino ad un certo punto, poi comincia a diminuire. Il PIL quindi può essere considerato una misura del benessere economico di un Paese ma non necessariamente del suo benessere complessivo.
Krugman, infatti, in un celebre articolo apparso sul New York Times “The Joyless Economy”, spiega come la contraddizione della formula negativa “più reddito = meno felicità” viene percepita dalla maggioranza degli americani. Essi, pur conseguendo un aumento di reddito, seppur con un minimo miglioramento della vita, non si sentono poi così tanto felici, e quando viene loro richiesto di valutare il proprio benessere soggettivo in base alla situazione economica avvalorano la tesi reddito-infelicità. Un recente studio condotto da un pool di università Statunitensi, inoltre, mostra come in tutti i paesi analizzati la grande maggioranza della popolazione (oltre i 2/3) ritiene che il progresso non vada calcolato esclusivamente tramite indici economici ma anche con l’utilizzo di statistiche sociali ed ambientali.
In conclusione la critica al PIL, ha permesso un mutamento di prospettiva, spostando l’attenzione delle cariche istituzionali ma anche della collettività, verso gli aspetti qualitativi dello sviluppo e non più esclusivamente sulla sua peculiarità quantitativa. E’ stata aperta la strada ad aspetti come equità, sostenibilità ambientale, diritti fondamentali, ridistribuzione delle risorse, che hanno raggiunto, in breve termine, una riconoscenza solida, su tutti i livelli.
Si sono così affermate, nuove dimensioni all’interno del panorama degli indicatori, che hanno permesso il susseguirsi e la nascita di nuove misurazioni. Sarebbe utile possedere una misura condivisa del benessere di un paese; aiuterebbe nella formulazione delle politiche sociali, come le misure della produzione aiutano a orientare la politica economica.
Ritengo che i tentativi fatti sin qui e richiamati poco fa costituiscano indubbiamente un giusto punto di partenza – spostando l’attenzione verso tematiche che non possono più essere sottovalutate e rimandate – ma c’è ancora molto lavoro da fare per giungere all’individuazione di una misura sintetica condivisa del benessere delle collettività che possa essere facilmente integrata all’interno dei sistemi di contabilitànazionale.
* Sottosegretario di Stato presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali