Gli scenari che vediamo da diversi mesi sembrano un film apocalittico. Eppure sono una triste realtà. La siccità incalza il Paese, devasta le produzioni agricole, costringe interi comuni a razionalizzare l’acqua. Con la dichiarazione dello stato di emergenza, sono stati stanziati i primi 36,5 milioni per le regioni più colpite: Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia ed Emilia-Romagna.
Ma l’emergenza non risparmia neanche il Centro, né il Sud Italia. È difficile al momento una valutazione precisa dei danni alle coltivazioni italianee delle conseguenti giornate di lavoro perse. Di sicuro, andranno in fumo percentuali consistenti di alcuni specifici raccolti, e i rincari sull’ortofrutta, prima voce di spesa degli italiani, rischiano di abbattersi sulle tasche dei consumatori assieme a speculazioni, caro energia, inflazione.
Quello che è chiaro, è che i fenomeni siccitosi, come tutti gli eventi climatici più estremi, sono destinati a ripresentarsi con sempre maggiore frequenza. Anche la tragedia del ghiacciaio della Marmolada è lì a ricordarcelo. Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, l’aumento di eventi estremi in Europa ha già fatto decine di migliaia di morti e 50 miliardi di danni negli ultimi 20 anni.
L’emergenza idrica che ci troviamo ad affrontare dunque non è la prima e non sarà neanche l’ultima. La comunità scientifica non ha dubbi: è una crisi che ha radici storiche ma essenzialmente è conseguenza di quel “degrado” del territorio di cui parlano anche i recenti dati del Global Land Outlook, con il 28% del suolo italiano e il 40% di quello terrestre colpiti da desertificazione e siccità.
Il dramma è che siamo un Paese che disperde 9 miliardi di litri di acqua al giorno e che non fa innovazione sulle proprie reti idriche da decenni, disperdendo il 30% delle risorse, mentre gli altri Paesi europei si fermano al massimo all’8% e Paesi come Israele, che stanno facendo agricoltura nel deserto anziché subire la desertificazione delle terre verdi, arrivano al 3%. Solo l’11% delle acque piovane, inoltre, viene raccolto, mentre il resto finisce in mare.
È una condizione che come Fai Cisl stiamo denunciando da tempo e sulla quale chiediamo una svolta. Quello che sfugge spesso alla politica è che per uscire dalla logica emergenziale e governare i cambiamenti climatici in maniera strutturale serve il protagonismo delle parti sociali: un’azione concertata tra sindacati, imprese e istituzioni per garantire infrastrutture adeguate e progetti condivisi di breve, medio e lungo periodo. Al centro delle azioni, gli investimenti in capitale umano, conoscenza, nuove tecnologie. Perché senza investire sul lavoro non avremo alcuna risposta da dare e condanneremo il Paese a subire passivamente i cambiamenti.
Tuttavia, in Italia abbiamo la fortuna di non partire da zero, ma da un sistema produttivo molto avanzato dal punto di vista della sostenibilità e da categorie di lavoratori dal grande valore sociale, ambientale ed economico. Sono quelle che vogliamo chiamare con orgoglio le “tute verdi”, i lavoratori e le lavoratrici dell’agroalimentare, dei consorzi di bonifica, della forestazione. Categorie che, come sosteniamo con la nostra campagna “Fai bella l’Italia”, bisogna rendere protagoniste di un nuovo rapporto tra persona e ambiente.
Nessuno ha bacchette magiche, ma le misure da intraprendere sono ben note agli addetti ai lavori. Dotare i territori di impianti a pioggia e manichette, costruire dissalatori, praticare rotazioni, qualificare i consorzi di bonifica anche in termini di produzione energetica, con la possibilità di installare pannelli fotovoltaici galleggianti senza consumare altro prezioso suolo agricolo.
E poi, costruire nuovi invasi. Pieno sostegno, da questo di vista, al Piano Laghetti di Anbi, che pone l’obiettivo di realizzare 10 mila bacini medio-piccoli, multifunzionali ed ecocompatibili, entro il 2030, con i primi 223 progetti già pronti e cantierabili. Un piano che comporterà nuova occupazione, stimata in circa 16.300 unità lavorative, e un incremento di quasi 435 mila ettari delle superfici irrigabili, con risvolti positivi anche in termini di minore dipendenza dall’estero per le produzioni agricole.
Bisogna poi valorizzare la bilateralità per migliorare il mercato del lavoro, per formare i lavoratori nell’utilizzo virtuoso delle nuove tecnologie, che parlano il linguaggio dell’agricoltura 4.0 e offrono tante possibilità di gestione virtuosa dell’acqua. E ancora: programmare un uso produttivo e rigenerativo dei boschi, anziché abbandonarli a sé stessi in nome di un’ambigua e pericolosa idea di tutela ambientale. E infine: gestire in modo partecipato e lungimirante gli 880 milioni previsti dal Pnrr per le infrastrutture irrigue, in modo coerente con la Strategia europea per il suolo al 2030.
Risorse che sono comunque insufficienti per finanziare tutti i progetti necessari e che rendono doveroso, da parte del Governo, lo stanziamento di ulteriori finanziamenti, provenienti da altri fondi, sia nazionali che europei.Anche per gli investimenti complementari, i fondi andrebbero aumentati. Risultano ad esempio inadeguati i 10 milioni sul comparto silvicoltura, dove è necessario investire sulla multifunzionalità del settore puntando sulla formazione dei lavoratori, ricambio generazionale, rilancio della filiera del legno, nuove piantumazioni, accordi di filiera, bioeconomia, produzione energetica.
Ma soprattutto, occorre finanziare i progetti solo se garantiscono alcune condizionalità, come la qualità del lavoro, le competenze, nuove assunzioni volte al ricambio generazionale, la sicurezza e salute in tutti i luoghi di lavoro, la concreta applicazione dei contratti nazionali e provinciali di settore.
È così che va affrontata la transizione ecologica. Non impattando negativamente sul lavoro ma, al contrario, costruendo nuove opportunità di crescita e sviluppo sostenibile. Tema sul quale anche l’industria alimentare sta facendo passi molto significativi e dovrà farne di nuovi, con azioni e progetti di sostenibilità che meritano di essere monitorati attentamente, partecipati, anticipati, se vogliamo uscire dal solito approccio emergenziale.
Tutto questo è possibile, purché si comprenda il principio che a fare la differenza, nel lungo periodo, sarà sempre il capitale umano. Promuovere il dialogo sociale e la buona contrattazione, in questa visione, è l’abc per un Paese che voglia dirsi avanzato.
“There are no jobs on a dead planet”: con questo slogan il sindacato internazionale ci ha ricordato, in occasione della Giornata mondiale dell’ambiente, che il cambiamento climatico ha un impatto diretto sulla società e dunque sul mondo del lavoro, e richiede perciò che a occuparsene siano anche le parti sociali, con un ruolo che deve essere di primo piano. È vero, “non ci sono posti di lavoro su un pianeta morto”, ma è vero anche il contrario: non c’è tutela del pianeta senza il lavoro qualificato, ben retribuito e contrattualizzato. Questo non è un principio populista, anzi, è una visione di responsabilizzazione che deve coinvolgere tutti, nella sfida ai cambiamenti climatici, a partire dalle scelte quotidiane di ciascuno: lavoratori e imprese, cittadini e istituzioni, amministrazioni locali e regionali, governi nazionali e organismi internazionali.
Perché sulla transizione ecologica serve una visione ampia, pragmatica, non ideologica né oscurantista. Come ha detto Papa Francesco: “La siccità è un problema grave, che deve farci riflettere sulla tutela del creato, che non è una moda, è responsabilità di ciascuno di noi: il futuro della terra è nelle nostre mani”. Speriamo che anche la figura del Commissario straordinario per la gestione dell’emergenza idrica, che sarà nominata a breve dal Governo, sappia tenerne conto.
* Segretario Generale Fai Cisl