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Per le donne e gli uomini, dal giorno dopo

Inevitabilmente, l’8 marzo di quest’anno è stato dominato dalla questione dei femminicidi e dal dibattito sul patriarcato. C’è solo da augurarsi che esso possa imboccare la strada giusta perché si imponga, come ha detto il Presidente della Repubblica, “una profonda azione culturale per far acquisire a tutti l’autentico senso del rapporto tra donna e uomo”, (dal testo del suo intervento   pubblicato in questo numero). Una diffusa e ben organizzata pedagogia su questo argomento, che coinvolga famiglie e scuola, sarebbe un stimolo vitale per invertire la tendenza alla violenza. 

Ma sullo sfondo resta sempre attuale la centralità della dignità “del” e “nel” lavoro delle donne. Passi in avanti e da non dimenticare mai, se ne sono fatti (ha ben deciso la Fondazione Nilde Iotti che ha pubblicato “Le leggi delle donne che hanno cambiato l’Italia”, Futura Editrice, 2024). Però, tra norme disattese, o che sono ancora insufficienti, o del tutto inadeguate a stare al passo con la complessità dei cambiamenti nella società, ci si rende conto che una serena e condivisa parità di genere è ancora un traguardo da raggiungere.

Limitatamente alla questione della condizione lavorativa delle donne, va detto che è inconfutabile che essa sia in crescita quantitativa negli ultimi anni. L’Istat certifica che tra il 2004 e il 2024 l’occupazione complessiva è cresciuta molto; soprattutto quella femminile di oltre un milione, a fronte di quella maschile che si ferma a poco meno di 150.000. Nonostante questo record, è anche necessario mettere in evidenza che facciamo ancora parte del gruppo di coda in Europa circa le donne che lavorano. Per di più, quella crescita, sotto il profilo qualitativo è carica di precarietà.

Ci sono tre gap che persistono. Il primo è nel rapporto con l’occupazione maschile: rispetto alla media europea che è di 10 punti, da noi siamo a 18, uno dei più alti. Il secondo è tra tempo pieno e tempo parziale: su 100 donne occupate nel 2012, 43 erano a part time, nel 2022 sono 49, con evidenti conseguenze circa la loro autonomia economica, la stabilità d’impiego, le prospettive di miglioramento di carriera. Il terzo riguarda il salario: sempre tra il 2012 e il 2022 a parità di impresa, di condizione professionale e di contratto applicato il divario “comparato” tra uomini e donne è rimasto stabile al 12%, ovviamente a favore dei primi.

Sono divari conseguenti a varie cause strutturali dell’economia italiana e quindi non ci si può illudere di annullarli facilmente e in tempi brevi. Ma se si vuole allargare e consolidare la stabilità del lavoro femminile, ci sono almeno tre obiettivi che potrebbero essere perseguiti.

Il primo è che vengano banditi dal sistema delle relazioni sindacali italiano i “contratti pirata”. Sempre di più, in un Paese avviato verso una diffusa terziarizzazione e a stragrande maggioranza di piccole e piccolissime aziende, vengono utilizzati per sottopagare le persone e soprattutto per peggiorare le condizioni normative di lavoro, specie nei settori a più intensa presenza di donne. 

Senza interferire troppo con la libertà di contrattazione e in attesa del recepimento per legge degli accordi interconfederali sulla rappresentanza, si potrebbe dare valore erga omnes ai contratti maggiormente rappresentativi, impegnando così la magistratura a fare riferimento soltanto ad essi e non a uno qualunque dei contratti certificati dal Cnel, in caso di vertenzialità legale. Un taglio drastico favorirebbe la dignità del lavoro decente che verrebbe accresciuta per tutti, ma maggiormente per la componente femminile.

Il secondo è quello di prepararsi a non subire una vera e propria rivoluzione che è dietro l’angolo, quella della diffusione dell’Intelligenza Artificiale sia nella vita quotidiana delle persone, sia nell’organizzazione del lavoro in quasi tutti i settori. Non solo verranno messi in discussione numerosi posti di lavoro, tanto manuali che tecnici ed intellettuali. I non allarmisti aggiungono subito che verranno create nuove opportunità lavorative. Io che mi colloco tra i realisti, non solo mi chiedo se il saldo sarà positivo, ma soprattutto che difficilmente saranno le stesse persone in esubero a essere chiamate nelle nuove professionalità. Ma non essendo luddista, mi aspetto che una così massiccia innovazione sia fatta oggetto di normazione generale (come ha già iniziato a fare l’UE) e di tanta contrattazione collettiva, capillare (che inizia a fare capolino). In questo contesto, il ruolo della donna potrà essere esaltato e non emarginato; molte funzioni saranno rese automatiche e i processi resi più celeri. Ovviamente devono essere donne professionalizzate e capaci di dominare la “macchina pensante” in tutte le sue fasi. Su queste tematiche il documento di NOI RETE DONNE inviato al G7 indica una serie di rischi ma anche di proposte sui temi dell’IA, del lavoro, della crescita delle professionalità delle donne e del superamento degli stereotipi e degli algoritmi marginalizzanti. 

Il terzo obiettivo riguarda il sistema pensionistico. Resta uno dei più resistenti pilastri del welfare novecentesco che non va buttato alle ortiche. Ma se si continua a giostrare intorno all’età di pensionamento, come unico parametro per accedervi, non si va lontano. Sono anni che Salvini annuncia che la Fornero sarà superata e regolarmente si fanno aggiustamenti spesso insignificanti e irritanti, perché l’obiettivo è puramente propagandistico. 

L’angolo visuale deve diventare un altro: quello che serve alla donna (ma anche all’uomo) nell’arco della sua vita lavorativa. Se è vero che esiste un grande problema demografico, solo in via congiunturale risolvibile con più immigrazione e che si vivrà sempre di più di “lavori” diversi per via dei mutamenti tecnico-organizzativi e degli stili di vita, alle persone servirà più tempo libero per non rischiare obsolescenza e al sistema produttivo più persone disposte al cambiamento. 

Ebbene, una soluzione potrebbe essere l’introduzione del diritto al “sabbatico”, un periodo di 5 anni usabile nell’insieme dell’attività lavorativa per la cura dei figli nei primi anni di vita o degli anziani, per lo studio o la riqualificazione, oppure per comprovate esigenze personali. Un periodo di non lavoro, sostenuto da un assegno significativo ad hoc finanziato dallo Stato e dalla sospensione temporanea dal lavoro. In cambio il lavoratore o la lavoratrice – a meno che non siano stati impegnati prevalentemente in lavori usuranti – che volontariamente utilizzano questo diritto, s’impegnano a proseguire l’attività oltre la data del pensionamento per anzianità o vecchiaia, per la metà del periodo sabbatico utilizzato. In questo modo, l’anzianità lavorativa e l’età pensionistica diventano variabili legate alla vita concreta delle persone e lo Stato recupera parte delle risorse ad esse destinate, attraverso i contributi versati durante gli anni aggiuntivi lavorati.

Questi tre obiettivi rappresentano un riformismo possibile,        soprattutto se le donne l’assumessero come propria prospettiva da realizzare assieme agli uomini. Assieme potrebbero concretizzare quella sintesi tra “Ego sum” ed “Ego cum” che, come dice il filosofo francese Jean Luc Nacy, è l’unico modo per non naufragare nell’individualismo e nell’egoismo e nell’edonismo.       

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