L’ Italia ha il più alto numero di giovani che non studiano e non lavorano. Cioè di parcheggiati che non sanno cosa fare. Aggiungiamo, per fare il quadro più complesso, che associato a questo malessere giovanile con un particolare riferimento al lavoro, l’Italia è il Paese con il tasso di crescita demografica più basso d’Europa. I nostri giovani se mai arrivano alla decisione di fare una famiglia ci arrivano molto tardi. Una situazione ripeto molto grave. Non è per fare disfattismo. Ma perché altrimenti non si capisce di cosa sui parla.
Usando un termine di un collega che insegna a Parigi il populismo politico è figlio del populismo industriale. Qualcosa che viene prima. Che cos’è il populismo industriale? Una stagione che l’Italia ha vissuto in maniera particolarmente becera in cui il lavoro e la cura delle persone sono state ampiamente svalorizzate a vantaggio del mero consumo.
Il populismo industriale è un’idea di crescita economica sbagliata e che non sta in piedi, in cui si immagina che la stessa sia determinata dai consumi. Certamente perché ci sia crescita centrano i consumi. Ma soprattutto, da quando è finita la droga della finanza, oggi che siano esclusivamente i consumi a determinare la crescita è un paradigma che non regge più. Bisogna dire che un’economia avanzata vive e prospera se investe sulle persone e sulla qualità delle comunità, delle infrastrutture e delle istituzioni. Per altro nessuno dice la verità: la crisi dei consumi dipende dalla disuguaglianza sociale. Quindi il nostro sistema economico funzionerà se prima si generarà valore insieme. Solo con questa precondizione poi si genereranno anche i consumi. Non è vero invece il contrario, che consumando si va da qualche parte. Il populismo industriale dunque sfascia le società. Quando le società sono sfasciate allora emerge il populismo politico. Ecco perché le questioni del lavoro, dell’educazione e della formazione dei giovani in Italia è centrale. È uno dei pochi punti su cui dobbiamo concentrarci se vogliamo interrompere il declino che dall’inizio degli anni 90 stiamo vivendo.
Dobbiamo anche dirci che la generazione che ha più di 60 anni ha fallito. La ricchezza prodotta dagli anni ‘50 agli anni ‘70 è stata bruciata negli anni ‘80 e ‘90. Un ventennio devastante che ha bruciato tutto. Questo è il panorama da conoscere per cogliere la serietà delle sfide che abbiamo difronte.
Per realizzare il cambio di paradigma economico arrivando a produrre valore insieme bisogna però ascoltare i ragazzi. I giovani desiderano avere spazi di realizzazione che non passano in prima battuta dal consumo. La spinta motivazionale passa dal senso di quello che si fa. Il primo elemento che dobbiamo recuperare, per superare il populismo industriale, è che la spinta che muove le persone non è come abbiamo creduto il consumare di più. I nostri figli, cresciuti nella società del benessere, intuiscono che felicemente consumano ma la loro realizzazione non passa semplicemente da lì. È un salto importante da dirci. Che i consumi vengono dopo è importante da dire. Che la soddisfazione passa dal fare qualcosa di sensato è importante da dire. Si tratta di una domanda fortissima che non riesce ad esprimersi. C’è dunque un elemento motivazionale e culturale che non è quella degli anni passati. Come diceva Max Weber “l’economia rende fatto concreto l’evoluzione culturale dei popoli”.
Il secondo punto riguarda invece la formazione. È un tema strategico che purtroppo è stato vittima del populismo industriale. Quello che sta emergendo è che senza formazione non esisti, e noi perdiamo troppi ragazzi che non arrivano neanche al diploma. È strategica ma va articolata. Pensiamo alla fine dell’800: sapeva leggere il 5% della popolazione e a qualcuno è venuto in mente di immaginare delle scuole per arrivare a una situazione in cui tutti avrebbero letto e scritto. I primi che l’hanno pensato sono stati presi per matti. Voglio dire che siamo figli di gente che ha avuto pensieri grandi non piccoli. I pensieri piccoli non servono a nulla.
Per quanto riguarda la formazione, in una società come quella italiana, non si può limitarsi al pilastro fondamentale della scuola. Dobbiamo avere un pensiero come quello dei nostri antenati. La formazione non è la scuola e formazione e scuola non sono costi ma investimenti rispetto cui bisogna avere cura. Perché se non si passa di lì si salvano solo quelli che possono arrangiarsi privatamente. Quindi il secondo aspetto è che dobbiamo occuparci tutti di formazione. Le famiglie, gli enti locali, le associazioni, le imprese, le associazioni di categoria. Devono mettersi insieme e creare nuove possibilità
Un mio collega di Harvard, Michael Port, che scrive sulla Harvard Business Revue parla di “share value”. Il “valore condiviso”. Che cos’è? Proprio questo che sto dicendo: costruire ecosistemi che generino formazione e valore. Siamo in una fase in cui è finita l’idea che tutto si espande e ciascuno per conto proprio corre dietro alle possibilità che aumentano. Siamo in una stagione per cui bisogna mettersi insieme. Solo chi si mette insieme e genera valore riesce a generare ricchezza.
Per finire ci sono le imprese. Senza le aziende non si può andare da nessuna parte. Bisogna che l’impresa capisca che il futuro passa dalla qualità generale dell’presa compresa la qualità della forza lavoro, della vita della loro forza lavoro e dell’ambiente. Oggi non c’è più posto per chi usa la logica dello sfruttamento perché affonda tutti. Abbiamo bisogno di buoni imprenditori.
Se non cambiamo la direzione di fondo e mettiamo al centro il lavoro L’Italia sarà un Paese di anziani arrabbiati e timorosi di tutto e di tutti.
*Mauro Magatti, docente di Sociologia all’Università Cattolica ed editorialista del “Corriere della Sera” e di “Avvenire”