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Sempre fermo nelle sue convinzioni

La leggenda racconta che i vecchi soldati – reduci da tante battaglie e cosparsi di cicatrici per le ferite riportate (quelle inflitte all’anima non si vedono ma sono le più dolorose) – non muoiono mai: scompaiono all’improvviso nella nebbia. E da lì ritornano quando c’è bisogno di loro. Mi piace pensare che questa storia sia vera anche nel caso di Pierre Carniti, un grande dirigente sindacale scomparso pochi giorni or sono ad 81 anni. Pochi leader sono riusciti, al pari di Pierre Carniti, ad influenzare tanto l’epoca in cui hanno vissuto e a modificare la cultura dominante della propria organizzazione. Carniti veniva da lontano. Giovanissimo era partito dalla provincia di Cremona per frequentare, a Firenze, quella mitica Scuola Quadri, a cui la Cisl aveva affidato la formazione dei suoi gruppi dirigenti. I corsi duravano nove mesi, durante i quali venivano impartite (da docenti che poi “illuminarono” le loro materie, come Gino Giugni e Federico Mancini) nozioni di diritto del lavoro, economia, storia e scienze politiche, nonché lezioni sulle tecniche della contrattazione collettiva. Poi, Pierre era stato inviato a Milano alla Fim-Cisl, mettendosi in luce nel dibattito interno alla sua Confederazione, esprimendo una fortissima personalità, sostenuta da una solida tempra morale. 

All’inizio degli anni sessanta, la prima linea della lotta politica all’interno del movimento sindacale era dislocata sul fronte dell’unità.  Già l’unità sindacale: la grande aspirazione di quella generazione di sindacalisti che presero il posto di coloro che non riuscirono a difendere l’unificazione precaria concordata tra le principali forze politiche antifasciste con il Patto di Roma. Carniti e gli altri leader della FLM (Bruno Trentin e Giorgio Benvenuto) arrivarono ad un passo dal portare a termine un processo di unità che nasceva dal basso, attraverso la partecipazione democratica dei lavoratori. Ma furono sconfitti. Pierre era un profeta dell’unità sindacale, ma la sorte volle che l’ultimo suo atto ai vertici della Cisl fosse un’azione di rottura o quanto meno una giusta risposta a scelte sbagliate della maggioranza della Cgil. 

Nella vicenda della scala mobile (nel 1984 sul decreto di S.Valentino e nel 1985 sul referendum abrogativo) Pierre Carniti guidò la sua organizzazione in una difficile battaglia e vinse, rompendo l’incantesimo secondo il quale nulla poteva essere fatto in tema di lavoro senza il consenso del Pci. Ma quel No giusto che seppe dire gli spezzò qualche cosa dentro che non si è mai più ricomposto. Nel suo commiato, Bruno Ugolini, il giornalista che ha dedicato, per decenni, un’intensa attività professionale ai metalmeccanici fino a divenire il cantore della loro storia, ha ricordato le parole pronunciate da Pierre a conclusione di una delle ultime apparizioni pubbliche. Era la citazione di un brano tratto dal saggio “Il futuro è nel nostro passato”, di Fiorella Casucci Camerini: “E oggi in questi nuovi tempi di individualismo sfrenato, di odio, di violenza, del sonno della ragione, in cui il suono della campana per ciascuno di noi è sommerso da un frastuono assordante, è essenziale recuperare il senso di solidarietà, di fraternità e di unione, pena la dissoluzione della comunità”. Queste non sono solo parole, rappresentano una consegna per ciascuno di noi, che gli fummo amici e compagni e che continuiamo a sopravvivergli, magari ancora per poco.

 Il senso di solidarietà, di fraternità e di unione è diventato un disvalore nell’Italia di oggi (che plaude, in queste ore, alla miserabile iniziativa del ministro degli Interni nei confronti di centinaia di disperati raccolti nel Mediterraneo). È vittoriosa la politica del rancore, dell’invidia sociale, dell’odio, del giustizialismo forcaiolo nei confronti di atti e vicende del tutto legittime, ma giudicate perseguibili in nome di uno Stato che pretende di dichiararsi etico. Per un leader sindacale come Pierre che ha dedicato l’intera vita alla causa dei lavoratori è doloroso constatare che vasti settori di quella classe operaia ritenuta protagonista della storia e custode della libertà e della giustizia, ha consentito, con il proprio voto, l’affermazione dei partiti populisti. Proprio così. L’Italia – lo ha affermato Steve Bannon – è il primo Paese in cui va al potere un’alleanza (per ora invincibile) dei populismi di destra e di sinistra. In un recente dibattito televisivo un esponente del M5S destinato ad avere un ruolo importante nella compagine governativa ha sottolineato che i tre quarti dei dipendenti dell’ILVA di Taranto hanno votato per il suo partito, nonostante le ambiguità sul futuro dello stabilimento (di recente il comico-guru ha proposto di riconvertire quei lavoratori in guide turistiche). 

 La generazione di Pierre Carniti credeva in una società divisa in classi e che fosse compito del sindacato (di classe, come si diceva a quei tempi) difendere gli interessi, migliorare le condizioni di vita ed affermare il potere dei lavoratori nelle aziende e nella società. L’avversario era il padrone come singolo e come classe sociale. Oggi il nemico è diventato il signore della porta accanto perché sfoggia un’auto più lussuosa o perchè, da pensionato, percepirà un assegno più elevato. Oppure, il profugo che Matteo Salvini vuole deportare sulle spiagge africane con una pacca sulle spalle, un sacco di noccioline e un gelato. Carniti aveva capito e denunciato questo declino etico prima ancora che politico nel suo “testamento”: la lunga lettera aperta che nell’ottobre scorso aveva indirizzato ai dirigenti delle confederazioni sindacali. 

Una lettera che dovrebbe essere assunta come un manifesto-guida da parte di un sindacalismo depresso, che si è accorto di avere il nemico nei propri ranghi e che non sa più che pesci pigliare: se consegnarsi ai nuovi vincitori oppure combatterli non solo per quello che fanno o dicono, ma per quello che sono. Come tanti altri dirigenti sindacali Carniti ha conosciuto clamorose vittorie e patito dure sconfitte. Ci sta. Fa parte dei rapporti di forza e della dialettica della storia. Scrivendo di lui, Marco Bentivogli che lo conobbe da ragazzino, perché suo padre Franco lavorava con Pierre, ha ricordato che il suo monito era quello di non rassegnarsi mai. Ma davanti allo spettacolo che offre oggi questo Paese, io resto convinto che Carniti abbia accolto la morte come una liberazione. 

Quando lasciò la segreteria generale della Cisl nel discorso di commiato volle citare le parole di San Paolo: “ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”. Ecco, la fede: nell’essere umano, nei suoi diritti e doveri. Chi lo frequentava ancora negli ultimi mesi lo descriveva sempre più esile, macerato, provato, ma netto e brillante, sempre tagliente nella battuta, ancora fermo nelle sue convinzioni. Per ritrovare, anche in quel corpo malato, il Pierre delle grandi battaglie bastava incrociare il suo sguardo, quei “rai fulminei”, infossati nel cranio, che non hanno mai perso vivacità nello scrutare l’orizzonte alla ricerca di un’idea alla quale attaccarsi. Per non doversi mai arrendere. 

Quando era ancora alla Fim di Milano (ed io stavo alla Fiom di Bologna), Carniti aveva fondato una rivista intitolata “Dibattito sindacale”, che leggevo sempre con grande interesse per i suoi articoli innovativi. Vi era riportata in copertina una frase di un dirigente laburista inglese (mi pare si chiamasse David Crossman) che mi è rimasta impressa come una regola di vita. Nonostante le ricerche compiute, non sono più stato in grado di ritrovarne il testo. Ne ricordo però il senso. Diceva che la libertà sarà sempre in pericolo e le nazioni rischieranno di perdere il loro livello di civiltà e di benessere se una minoranza non si assumerà la responsabilità di contrastare l’arroganza dei potenti e l’apatia delle masse. Le minoranze, dunque, le élites. Perché uno non vale uno. Quanti adesso invocano la sovranità del popolo farebbero bene a mandare a memoria quel concetto. In democrazia chi ottiene la maggioranza dei voti ha diritto di governare. Ma non ha comunque ragione. 

 

* Membro del Comitato scientifico ADAPT

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