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Prodi: bene il piano Macron. Da noi, è il momento di dare gas

«Le dico subito quella che vedo come la priorità per il Nord-Est: quattro istituti per il trasferimento tecnologico, come sono i tedeschi Fraunhofer, due in Veneto e due in Emilia. Per aiutare i distretti più importanti ad affrontare le nuove sfide e dare l’esempio di un metodo giusto. Nei progetti italiani per il Recovery fund non devono mancare». Quando ha l’occasione di parlare di industria, e non di politica, Romano Prodi ringiovanisce. Torna ai vecchi amori e intervistarlo è un gioco da ragazzi. Mi è capitato lo scorso week end per il Festival Città Impresa di Vicenza e questo spiega anche l’incipit sui Fraunhofer italiani. 

Ma con tutto il rispetto per il nuovo triangolo industriale la conversazione con il professore è partita dal concetto di globalizzazione regionale: sta succedendo davvero quello che lo stesso Prodi aveva intuito, stiamo andando verso una segmentazione delle produzioni e dei flussi di merce suddivisa per macro-aree come Usa, Cina ed Europa? «La tendenza è quella ma è un processo ancora largamente in corso – risponde il Professore –. Per fare qualche esempio gli Stati Uniti hanno sofferto l’effetto mascherine e deciso che certe produzioni andavano riportate in casa. Anche l’Italia ha fatto una scelta analoga. La Cina, adottando la stessa logica in un settore ad alta tecnologia, sta operando uno sforzo enorme per produrre i chip e rendersi indipendente dagli Usa». Nessuno può più permettersi di veder bloccato il proprio sistema industriale per la mancanza anche di un solo tassello chiave. Purtroppo l’Europa è in ritardo nel concepire una politica esplicitamente rivolta a governare questa transizione, «ma ci arriveremo senz’altro e comunque non vuol dire che la globalizzazione si è fermata, ha solo mostrato i suoi limiti».

Cosa pensa del France Relance?

Tra gli economisti industriali il tema del momento è il giudizio sul piano Macron, France Relance: è una tappa di avvicinamento a un’Europa protagonista oppure il preambolo che inneggia all’autosufficienza dell’Esagono e definisce lo stesso Piano letteralmente come un acceleratore di sovranità palesa un’insanabile contraddizione con una politica industriale comune? La risposta di Prodi è pragmatica. Comincia sottolineando come la rincorsa all’autonomia produttiva, almeno inizialmente, abbia un’impronta inevitabilmente nazionalista ma poi osserva come «è più semplice che partano prima i singoli Paesi che Bruxelles». Le parole di Macron lo hanno sorpreso perché mentre tedeschi e italiani scelgono la strada degli incentivi a pioggia, un modo per accontentare tutti, Parigi investe tutto sul nuovo, sulla riorganizzazione industriale. «Il presidente ha riportato in vita un vecchio arnese, le Plan, ma lo ha adattato ai tempi e alla discontinuità tecnologica. E lo riconosce uno che in passato non ha mai amato la politica industriale francese ed oggi è costretto ad ammettere che questa strategia gli piace». In più Macron mostra del coraggio quando va in tv a dire che non diminuirà di un euro l’imposta personale. Non cede alle sirene elettorali come accade ai politici italiani e anche a quelli tedeschi.

E noi?

Come è ovvio transitare dalla Francia allo Stivale governato da Giuseppe Conte è un attimo. Prodi è preoccupato per quello che considera «il rinvio del rinvio, senza idee forti». Ci sono momenti della storia in cui mediare è necessario ma quando bisogna rimettere in moto un corpo fermo quella regola non vale più. «Noi emiliani diciamo che è il momento di dare gas». Ed è proprio il timing giusto perché il campo di gara sta cambiando a velocità inaudita. Il professore racconta di una capacità della Cina di raccogliere big data superiore a quelli degli Usa e dell’Europa, ma riconosce al sistema delle imprese italiane di aver saputo conservare il posto nelle grandi catene del valore, di aver dimostrato al mondo intero di essere insostituibili in alcuni settori e in alcune lavorazioni. «Sono imprese non grandissime ma globali. Sono la nostra fortuna. In Veneto, Emilia e Lombardia ce ne sono tante». E racconta che quando nella meccanica strumentale un’impresa italiana ne compra una tedesca in perdita la risana con una sola mossa: cambiare i fornitori, portare die Italiener. Gli italiani.

Ma essere dei fornitori d’eccellenza non diventa però la maledizione dei nostri industriali? Non rischiamo di questo passo di restare eternamente subalterni per via della divisione del lavoro tra componentisti e produttori finali? Risponde (e si accende) Prodi: «Certo, in alcuni settori come l’auto per le politiche sbagliatissime che sono state fatte rischiamo di essere dei meri fornitori e ci salviamo solo perché ci siamo iperspecializzati in alcuni prodotti di eccellenza come i freni». Ma l’industria non è tutta auto: metà delle medicine del mondo sono impacchettate dalle nostre macchine e un discorso analogo si può fare per la ceramica. «E comunque il problema non è sempre quello di gestire il prodotto finale che va al consumatore ma fabbricare prodotti che creino valore e abbiano leadership sul mercato». Da queste riflessioni si potrebbe trarre l’impressione (errata) che la taglia non conti, che le nostre multinazionali tascabili siano grandi il giusto e purtroppo invece avviene spesso che invece di mangiare il concorrente i nostri diventino preda e si facciano comprare. «È la forza e la debolezza del nostro capitalismo familiare. Se mio figlio vuole fare il pittore e non l’imprenditore mica lo posso obbligare. E se due fratelli litigano non li rimetto assieme con il vinavil».

Caso mai il sistema dovrebbe aiutare le famiglie con lo strumento delle fondazioni d’impresa come in Germania. E favorire con norme ad hoc la fusione tra aziende, proprio per evitare la tentazione di vendere al diretto concorrente straniero e ritirarsi in campagna.

«Questa è politica industriale, i provvedimenti per il 4.0 interagivano bene con queste necessità e invece i governi successivi hanno introdotto, come al solito, delle dannose discontinuità». Il futuro dell’Italia però oltre ad adottare buone policy nazionali è tutto «nella risposta europea e fortunatamente anche la Germania ha capito che da sola non ce la fa. Nei grandi settori anche loro hanno bisogno degli altri: vedi alla voce Airbus».

La rete, subito

Capitolo esportazioni. Sono state una delle grandi risposte date dal sistema Italia alla crisi 2008-15 ma oggi nell’era Covid della mobilità malata appaiono un’arma più difficile da usare. O è troppo presto per dirlo? Prodi la prende da lontano e si dichiara esterrefatto dalla ripresa dell’export cinese, «il dato è ancora fresco (+9,5% agosto 2020 su agosto 2019, ndr) ma qualcosa dice». E comunque l’export italiano è molto specializzato ed è difficile che lo stesso know how si sviluppi subito altrove, anche nella stessa Cina. E poi, tornando al sistema dei fornitori, è il loro rapporto con i capifiliera che per ora non è riproducibile dalla concorrenza. «Detto questo bisogna far capire al nostro governo e ai nostri imprenditori di metter mano alle nuove infrastrutture che portano big data e intelligenza artificiale. Si smetta di perder tempo con le liti: la rete la si faccia subito, con quella esistente non riusciamo a far scuola a distanza, figuriamoci se le imprese possono far business».

Idrogeno e figli

Resta il tempo per due curiosità. Professore, lei ci crede alla nouvelle vague dell’idrogeno? «Guardi che con me sfonda una porta spalancata – risponde –. Venti anni fa lo studiavo, poi ho dovuto far altro (ride) ma mi considero un maniaco dell’idrogeno. È una filiera da costruire ed è molto promettente perché essendo una tecnologia ancora in fase iniziale c’è la possibilità anche per l’Italia di inserirsi. So che la Snam ci sta lavorando ma possiamo fare di più come Paese. Anche a questo servono i Fraunhofer italiani piazzati nei territori di cui parlavo all’inizio della conversazione». Del resto, continua, l’auto elettrica l’abbiamo persa per una politica sciagurata e così le fabbriche di batterie saranno aperte in Germania e Francia e non da noi. Ora perdere il treno dell’idrogeno sarebbe un ennesimo autogol. 

Ultima domanda: di fronte a questa tempesta i nostri imprenditori le paiono ancora sufficientemente motivati, hanno ancora qualcosa che ricordi il piglio dei vecchi capitani d’industria? 

Risponde il professore: «È un quesito che da solo richiede un altro convegno. Le dico una cosa sola: dobbiamo potenziare la rete italiana delle business school, strutture che offrano ai giovani un allenamento multiplo e li spingano a fare esperienze all’estero e non solo nell’azienda di famiglia».

 

*da l’economia corriere della sera14/09/2020

 

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