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Qualcosa non quadra

E’ cronaca di questi giorni che la vecchia SIP passi la mano a compratori stranieri e che altrettanto accada per la compagnia aerea di bandiera. Che francesi e nuovi ricchi  ( cinesi, russi, arabi ) comprassero le grandi griffe della moda italiana era abbastanza comprensibile, così come che svizzeri, belgi e perfino turchi comprassero le aziende storiche del nostro agroalimentare. Ma che adesso si venissero a comprare anche Telecom e Alitalia non era proprio prevedibile…

Poiché come diceva Andreotti, “a pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina”, evidentemente c’è qualcosa che non quadra, perché i grandi investitori internazionali non sono certo benefattori e se fanno un passo del genere qualche tornaconto lo hanno certo calcolato per comprare due aziende che siamo stati bravissimi da soli a portare sull’orlo del baratro. Vediamo quali possono essere.

La Telecom ha ricevuto in dote da mamma SIP non solo una rete di cui si fa difficoltà a calcolare il valore ( e badate bene non solo il famoso ultimo miglio ma fibra e centrali di commutazione ) ma anche altissime professionalità nella ricerca e nel marketing, apprezzatissime a livello internazionale.

E se anche Pirelli Re Estate ha fatto man bassa degli immobili di pregio che possedeva, rimangono ancora in tutte le città d’Italia immobili e aree che possono far gola a molti.

Infine i clienti: quasi tutti noi abbiamo fatto esperienza che dopo un primo momento in cui allettanti offerte ( o presunte tali ) hanno portato ad un esodo da Telecom per approdare ad altri provider, le carenze in termini di assistenza tecnica hanno causato un precipitoso rientro al fornitore originario, che rimane leader di mercato della telefonia fissa e mobile.

Tra queste tante ragioni di interesse, l’unica che sembra alla ribalta è la questione della rete, ma resta molto complicata una soluzione legislativa ( che pare tra l’altro orientata solo ad un’OPA obbligatoria a tutela dei piccoli investitori), come pare pure improbabile una moral suasion ad uno scorporo volontario di questo ramo d’azienda.

E non si capisce perché questa misura, logica per un mare di ragioni, non sia stata fatta quando lo Stato era ancora proprietario, prima di vendere a Colaninno e soci bresciani e poteva autonomamente decidere di mantenere o gestire diversamente quella parte strategica di proprietà.

Colaninno che riappare come cavaliere bianco al salvataggio dell’orgoglio nazionale costituito dalla compagnia di bandiera. Orgoglio che si rimette in tasca dopo un tentativo ( costato qualche miliardo alle tasche degli italiani ) di rendere Alitalia competitiva.

Anche qui evidentemente ci deve essere un valore fatto di un mix di licenze, proprietà immobiliari e preziose professionalità in grado di rendere redditizio l’acquisto.

Tutta questa storia conferma un’opinione ( del tutto personale ) che non è la proprietà privata una garanzia assoluta di buona gestione e di efficienza delle aziende. Ben lungi dall’essere statalista è nella prova dei fatti che Telecom e Alitalia, benché privatizzate, non hanno fatto meglio di quando erano carrozzoni statali.

La SIP macinava migliaia di miliardi di lire di utili, certo sfruttando una posizione di monopolio, ma la risposta alla liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni poteva e doveva essere diversa. 

Invece di perpetuare logiche clientelari per cui si entrava senza concorso in un posto praticamente pubblico, bisognava razionalizzare e organizzare la produzione di un servizio, separando quello che era sostanzialmente di interesse pubblico da quello che doveva confrontarsi sul mercato.

Ed altrettanto è accaduto di fronte all’incapacità di Alitalia a reagire al low cost, per costi troppo alti che non si è riusciti a tagliare anche a causa delle varie lobbies ( dei piloti, delle società di gestione aereoportuali, etc )  che hanno condizionato le scelte di un management forse non all’altezza ( il forse non è dubitativo ).

Il problema non è allora pubblico o privato, ma management capace e sistema di governance e controllo efficiente.

Le reti sono un asset strategico di un Paese e non solo quelle telefoniche e aeree di cui abbiamo parlato ma anche quelle autostradali e ferroviarie, l’etere e l’energia. Che non si sia stati capaci in tutti questi campi di separare quello che è del mercato da quello che è un bene pubblico è questione che rischia ancora una volta di rimanere irrisolta.

I vari gestori o concessionari di questi beni si sono preoccupati di estrarre valore economico senza scelte lungimiranti e di lungo periodo. Valga per tutti l’esempio di una rete autostradale dove l’unica innovazione tecnologica è stata il telepass, che serve sostanzialmente a diminuire costi e personale, e dove poi il gestore è sotto inchiesta della magistratura per le carenze della sicurezza ( autobus precipitato docet).

A fianco delle inefficienze burocratiche la carenza di reti ed infrastrutture moderna è una delle maggiori cause della poca attrattività ad investire nel nostro Paese, investire che, intendiamoci bene, non significa comprare società esistenti per farne spezzatini e predare ciò che si può, ma creare nuove imprese competitive di respiro internazionale.

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