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Quando le elezioni servono a capire dove stanno i problemi

Al di là della campagna elettorale, condotta in ogni paese -come sempre- solo sui temi di politica interna, non c’è dubbio che nella storia delle elezioni europee, a partire dal 1979 ad oggi, mai come in questo 2024 esse hanno avuto tanta risonanza, prima del voto, come pure tanta attenzione alle conseguenze politiche, dopo il voto. Almeno due sono le spiegazioni: in primo luogo, tutti, anche i più distratti, avvertono l’importanza delle sfide prossime venture che l’Europa deve affrontare, dalla guerra in Ucraina alle conseguenze economiche della rivoluzione digitale, dal Green deal al problema dei dazi verso la Cina e i paesi dell’Estremo oriente; in secondo luogo, non è chiaro chi e come deve guidare l’Ue, visti i problemi interni ai paesi più importanti dell’Unione, come nel caso della Francia e della Germania.  Entrambe le spiegazioni rinviano al “nuovo mondo” nel quale siamo approdati in questo primo quarto del XXI secolo senza prenderne una adeguata consapevolezza e senza elaborare adeguate strategie di risposta. 

1. Guardiamo innanzitutto all’affluenza alle urne, che per la prima volta in Italia è rimasta sotto il 50% degli aventi diritto. Come si può vedere nella Tabella 1 non vi è una tendenza univoca in Europa, anche perché si vota, a seconda dei paesi, in giorni feriali e festivi, in uno o due giorni, con la possibilità del voto postale o meno, con differenti definizioni degli aventi diritto al voto. Ma anche, non da ultimo, a seconda di come è stata percepita questa elezione all’interno di ogni paese in riferimento alla valutazione del proprio governo, visto che quasi ovunque le elezioni europee corrispondono ad una sorta di referendum di mid-term su governo ed opposizioni.  

Inoltre, va considerato che nel nostro paese si conteggiano come elettori anche i residenti extraeuropei iscritti all’Aire (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) ma in questo caso non è previsto il voto per corrispondenza e neppure il voto presso i consolati (previsti invece per i residenti nella Ue). Dal momento che nessuno o quasi intraprende il viaggio dall’America latina per venire in Italia a votare per il parlamento europeo, sarebbe ragionevole togliere gli elettori Aire dal computo degli aventi diritto, come del resto si fa nel caso del voto per Camera e Senato. La Tabella 2 propone questo esercizio per tutte le consultazioni europee dal 1979 al 2024, mostrando come vi sia una forbice tra “partecipazione elettorale apparente”, gonfiata dagli elettori Aire extra Ue, e la “partecipazione elettorale reale”, calcolata sui soli elettori italiani (nel 2024, il 53,3%, il 3,6% in più). 

Si tratta di dettagli tecnici, certo, ma che hanno una loro rilevanza, anche solo psicologica, ad esempio per decidere se davvero si è scesi sotto il 50% di votanti o meno. Ma anche per non cadere nel ridicolo. Prendiamo il caso di un piccolo comune della provincia di Belluno, Soverzene. Secondo il sito Eligendo del Ministero degli interni è andato a votare il 23,9% degli elettori. E’ realistico, oppure c’entra qualcosa il dettaglio di cui abbiamo appena discusso? Il mistero è subito risolto: i votanti sono stati 199, però gli iscritti alle liste elettorali a fine 2023, in questo piccolo comune del bellunese, erano 1148, di cui 752 iscritti all’Aire extra Ue.


Del resto, tutti gli altri paesi offrono opzioni per chi è temporaneamente lontano dai luoghi di residenza. Noi lo facciamo solo per gli studenti, e in forma troppo macchinosa, tant’è che questa possibilità è stata pochissimo utilizzata (si sono iscritti in questa apposita lista solo 21.699 “fuori sede” sul alcune centinaia di migliaia di potenziali interessati).  Altrove esiste l’election day, il voto anticipato, il voto per corrispondenza, il voto a casa per chi non può muoversi, addirittura il voto tramite smartphone. Insomma, un conto è chi non vuole andare a votare -e ne ha comunque tutto il diritto- un conto è chi vorrebbe ma non può andare a votare, e anche questo elettore avrebbe tutto il diritto a farlo se lo stato lo aiutasse. Specie se si tiene conto che nel XXI secolo almeno un 10% di elettori si trova ogni giorno a più di 400 chilometri dal luogo di residenza per i motivi più vari (studio, lavoro, vacanze, cerimonie, sport, etc.) e che nessuno si preoccupa di come far votare i grandi anziani, i malati in casa, e così via. In conclusione su questo punto, è comodo e non costa nulla   versare lacrime di coccodrillo sull’astensionismo in crescita -sport in cui son maestri tanto i giornalisti quanto i politici- mentre più utile sarebbe porre la dovuta attenzione ai dettagli e agli aspetti tecnici in grado di portare a votare chi vuole andare a votare e non riesce a farlo.

2. Se passiamo ora ad esaminate i voti ai partiti (Tabella 3), appare fuori discussione l’affermazione delle forze governative rispetto alle elezioni politiche del 2022 (+4,5%), in particolare di Fratelli d’Italia (+2,6%), seguiti da Forza Italia (+ 1,5%, e dalla Lega (+0,2%). Si tratta di un risultato non scontato dal momento che in tutto il resto d’Europa è stata prevalente la bocciatura dei governi in carica, a partire dalla Francia e dalla Germania, paesi nei quali il crollo dei consensi ai partiti di governo ha assunto proporzioni del tutto inattese. Poco o tanto, nessuna delle tre principali forze di maggioranza ha perso consensi, e in politica conta innanzitutto questo. La stessa Lega uno “zero virgola” più del 2022 l’ha fatto, per cui nessuno può mettere in croce Salvini. Al riguardo, va sottolineata la crescita del partito al Sud, passando per esempio dal 5,8 al 9,2 in Calabria, probabilmente per effetto delle grandi opere e di Vannacci. Semmai è curioso osservare   che, senza il Sud, la Lega avrebbe perso qualcosa. Analogo discorso per Forza Italia, i cui consensi salgono soprattutto in Sicilia e nelle regioni meridionali. Ironia della sorte, il partito di governo in astratto più meridionalista, Fratelli d’Italia, ottiene i suoi maggiori successi nel Nord padano dove supera ovunque il 30%, in particolare in Veneto (37,6%), in Friuli-Venezia Giulia (34,0%), Lombardia (31,8%) e Piemonte (30,4%), grossomodo dieci punti percentuali in più delle regioni meridionali. 

Ha funzionato bene la soglia del 4% per accedere al riparto dei seggi. Come già nel 2001, quando a cadere nella trappola fu l’Italia dei Valori di Di Pietro (3,9%) e Democrazie Europea (3,5%). Il 4% è un’asticella messa apposta per trarre in inganno, per indurre in errore. Se fosse più bassa, al 3%, sarebbe facile superarla, se fosse più alta nessun piccolo partito si arrischierebbe a correre da solo. Se fossero stati uniti, Renzi e Calenda, con oltre il 7%, oggi potrebbero tranquillamente dividersi e sedere in due diversi gruppi parlamentari, come quasi di sicuro faranno i Verdi e Sinistra italiana. Si tratta di forze politiche -tanto il centro modernizzatore quanto la sinistra ecologista-, le quali hanno ottenuto un risultato sopra le aspettative nelle grandi città. Prendiamo il caso del centro di Milano, che coincide con il municipio I: Renzi 11,3%; Calenda 10,3%; Alleanza Verdi e Sinistra 10,3%. Dunque, un governo più forte, in un quadro politico molto più semplificato visto che solo 6 liste accedono alla ripartizione dei 76 seggi spettanti all’Italia, con una tendenza a guadagnare voti nei comuni di minore dimensione e a soffrire nelle grandi città, specie del centro-nord. 

Se ora guardiamo alle principali forze di opposizione, la competizione per la leadership nell’area del centro-sinistra è stata vinta di slancio dal   Pd, il quale ottiene 5 punti in più del 2022. Dopo le elezioni europee non ci sono più dubbi su chi sia il partito pivotale nel centro-sinistra, dal momento che la distanza tra le due forze politiche passa dai 4,7 punti di due anni fa agli attuali 14,1 punti. I 5 Stelle sono i grandi sconfitti di questa tornata elettorale, in particolare per la grave erosione del loro principale bacino elettorale, le regioni meridionali. con un travaso significativo di voti in direzione Pd. 

Come si è visto da quanto fin qui detto, contrariamente a quanto molti pensano, le elezioni servono, non sono solo un rito, e neppure possono essere surrogate da sondaggi, social, followers su internet, e così via. Servono perché, nonostante i molti difetti, sono l’unica misura affidabile del consenso popolare. E servono tanto all’interno di ogni paese quanto a livello europeo. Basta guardare alla Francia dove il presidente Macron, in seguito alla batosta elettorale, ha già sciolto il Parlamento nazionale il 10 giugno e ha indetto le elezioni il 30 giugno, solo 20 giorni dopo (come facciano a organizzare il tutto in così poco tempo andrebbe spiegato alla nostra burocrazia ministeriale). Oppure basta guardare alla Germania, dove il crollo della Spd (13,9%) e l’avanzata della Afd (15,9%) pone una seria ipoteca sul futuro della coalizione tra socialdemocratici, verdi e liberali. 

Di qui anche una previsione di grande difficoltà dell’Unione europea nei prossimi anni. È infatti un’Europa molto diversa dal passato quella che esce degli scrutini delle elezioni per il Parlamento Europeo. In primo luogo, l’asse tra popolari e socialisti che ha governato l’Europa dal 1979 ad oggi appare in fortissima difficoltà, anche se grazie ai liberali ha comunque la maggioranza nel parlamento europeo. A fine secolo scorso, nel 1999, la somma dei seggi dei due grandi partiti storici (Ppe e S&D) era pari al 66%, oggi è scesa al 44%, 22 punti in meno, in larghissima parte conquistati dai conservatori e dal multiforme arcipelago delle destre. Certo, non è in discussione, come si è detto, la tradizionale formula di governo della UE quanto piuttosto la sua effettiva capacità di agire sui dossier citati all’inizio di questo pezzo.  Di solito, nel secolo scorso, quando l’Europa era silente o distratta, a guidare le scelte continentali sono stati gli Stati Uniti, in particolare attraverso la Nato, l’Ocse, i mille tavoli bilaterali e multilaterali con relative sigle. Sarà ancora così anche domani, nel prossimo quarto di secolo? 

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