Gli intendimenti effettivi di Matteo Renzi nei confronti della politica del lavoro sono emersi con chiarezza soltanto venerdì 26 aprile, durante la visita agli impianti della Chrysler, in compagnia di Sergio Marchionne. In quell’occasione, il presidente del consiglio ha rotto tutte le residue prudenze quando ha mostrato un consenso totale verso la linea sindacale di Fiat-Chrysler.
Mai prima Renzi si era espresso con altrettanta nettezza; anzi, a lungo aveva curato di lasciare indistinti i capisaldi del Jobs Act, ciò che gli garantiva quel tanto di ambiguità necessario per non estremizzare lo scontro con i suoi critici, all’interno del fronte sindacale, ma soprattutto dentro il suo stesso partito, il Pd. A Detroit, invece, ogni margine di ambiguità è venuto meno: Renzi ha detto di stare dalla parte di Marchionne, con un endorsement quale non era mai giunto dalla politica italiana in direzione del vertice di Fca. Certo, prima c’era stato qualche precedente, come la visita di Mario Monti, capo del governo in carica, all’impianto Fiat di Melfi. Ma l’approvazione della strategia del Lingotto non era stata così totale, forse perché i piani di quella che sarebbe diventata l’attuale Fca cominciavano appena a delinearsi.
Con la sua visita a Auburn Hills, il quartier generale di Fca, Renzi ha fugato ogni dubbio: Marchionne ha agito per il meglio, salvando due case automobilistiche, la Fiat e la Chrysler, che altrimenti non se la sarebbero cavata. Avallando la strategia di Marchionne, Renzi non poteva non sapere di stare avallando anche l’aggressiva politica sindacale del manager italo-canadese. Una politica che ha teso ha rendere palese la crisi di legittimazione dei vertici confederali contrari a trasferire le prerogative fondamentali dalla contrattazione nazionale di categoria a quella aziendale. Un colpo ulteriore recato alla Confindustria di Giorgio Squinzi, particolarmente in dissintonia con gli indirizzi governativi di Renzi, e naturalmente alla Fiom e alla Cgil, protagonisti di un interminabile scontro – peraltro quasi esclusivamente svoltosi nelle aule giudiziarie – col Lingotto.
Col suo viaggio americano, Renzi ha così voluto dare un segnale molto preciso. Da un lato, come si è detto, ha voluto fornire il suo avallo a Marchionne, dicendo a chiare lettere che condivide i capisaldi della sua strategia di cambiamento. Dall’altro, ha fatto intendere che la resistenza di chi si è opposto a Marchionne ha una natura intimamente conservatrice, di impaccio all’innovazione economica e sociale. Di colpo, si è rivelata la strumentalità su cui si è fondato nei mesi passati il dialogo tra Renzi e Maurizio Landini: il leader della Fiom è andato bene al capo del governo finché si è prestato a essere usato come una testa di turco contro Susanna Camusso. Non appena non ce n’è stato più bisogno, e Landini è tornato a riallinearsi con la segretaria della Cgil, è stato subito abbandonato al suo destino.
A questo punto, dovrebbe essere palese che i contenuti dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non costituiscono la vera posta in gioco per nessuno. Non per Renzi, che sa benissimo che l’incidenza reale della norma sulla situazione occupazionale è al momento irrilevante; non per la Fiom né per la Cgil, che semplicemente in questi ultimi vent’anni non hanno saputo esprimere una proposta originale di politica del lavoro e dunque sono costrette a ripiegare sulla difesa dell’esistente; non per la cosiddetta “sinistra” del Pd, che cerca di preservare il proprio bacino politico ed elettorale attraverso una battaglia di resistenza per la quale non ha voglia, tuttavia, di pagare prezzi troppo elevati.
Gli altri attori sul proscenio sono toccati marginalmente dalla commedia che vi si recita: la Confindustria di Squinzi sa di essere alle corde e soffre dell’antipatia che le dimostra il presidente del consiglio, sicché sembra appoggiare il Jobs Act quasi per dovere d’ufficio, perché in fondo non può chiamarsene fuori; la Cisl e la Uil, al momento prive di fatto del proprio vertice, hanno da elaborare una strategia di sopravvivenza, che consenta loro di preservare uno spazio anche all’interno di uno scenario sfavorevole in generale alle rappresentanze degli interessi.
Anche da questa angolatura, risaltano l’analogia e la sostanziale continuità fra la partita in corso sull’articolo 18 e la svolta che Marchionne ha impresso sulle relazioni industriali dal 2010 in avanti. Il confronto è manifestamente sui princìpi e sulle regole, non sulla sostanza dei problemi. Al momento di ristrutturare radicalmente l’impianto di Pomigliano d’Arco per destinarlo a una nuova missione produttiva, Marchionne scelse di sostituire il contratto nazionale di categoria con una contratto aziendale specifico, sapendo che per una parte del movimento sindacale era una svolta inaccettabile. Per molti osservatori, quel gioco non sembrava valere la candela: la Fiat non aveva convissuto per molti anni con la Fiom, in un regime di adattamento continuo? Già, ma questo cozzava con l’obiettivo della nuova Fiat che voleva costituire con la Chrysler un gruppo globale, contraddistinto dal medesimo codice operativo a tutte le latitudini. Non c’era più margine, quindi, per la conservazione delle anomalìe italiane.
A ben vedere, l’operazione che sta svolgendo oggi Renzi si muove su una falsariga analoga. Si tratta di liquidare le componenti della sinistra che si sono fatte forza del rapporto e della sintonia con un’ala del movimento sindacale, la Cgil, traendone consenso e legittimazione. Oggi tutto questo è d’ostacolo a Renzi, giacché ha in mente un nuovo Pd, depurato dalle eredità del passato, e assimilato alla deriva neocentrista che caratterizza ciò che resta della sinistra di estrazione socialdemocratica nell’Europa attuale. Ecco perché il giovane presidente del consiglio ha deciso di collocarsi nella scia di Marchionne, che ha già combattuto e di fatto vinto la sua battaglia: non è chi non veda che la reintegrazione dei rappresentanti della Fiom nelle fabbriche della Fca è senza conseguenze, in quanto essi non hanno parte alcuna nello schema negoziale che è stato messo a punto in questi ultimi anni.
Fin qui i termini della lotta in corso. Ma quali auspici se ne possono ricavare per quanto riguarda i rapporti fra politica, governo e rappresentanze degli interessi nel prossimo futuro? Molti commentatori hanno già notato che con Renzi la politica si è fermamente riappropriata dello spazio che considera suo proprio. Tutti gli indicatori, ma soprattutto l’entità e gli effetti della crisi, inducono a ritenere che la tendenza a quella che viene definito il processo di “disintermediazione” sia destinata ad andare ulteriormente avanti. Questa politica considera di non avere bisogno dei corpi intermedi. Anzi, li giudica un ostacolo sul proprio cammino, un impaccio che ne rallenta la marcia. Non a caso, alcune delle organizzazioni d’interesse – la Confindustria, la Cisl e la Uil – sembrano aver già capito la lezione e paiono intenzionate a tenerne conto. Restano la Cgil e l’arcipelago politico-sindacale che fa capo ad essa: queste componenti sanno che un arretramento equivarrebbe alla loro scomparsa e per questo sono riluttanti ad arrendersi senza combattere. La loro resistenza sarebbe oggi più forte, se nel passato non si fossero limitate a esprimere un cartello dei no, arroccandosi attorno a capisaldi che andavano sguarnendosi. Ma ormai è troppo tardi per cambiare strada.
L’esito più probabile è quello di una politica più lontana da un corpo sociale a cui si limita a domandare il consenso. Una politica che dialoga – ammesso che si possa parlare di dialogo – con forze economiche che tendono a coltivare la loro autosufficienza, nel rispetto di un gioco delle parti basato su distinzioni precise. Questo scenario, se si realizzerà, è destinato comunque a generare esiti inattesi per un paese come l’Italia, cresciuto lungo linee di evoluzione più confuse ed eterogenee.