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Ridurre il cuneo fiscale, rimpolpare le buste paga

“Il rischio più grosso è quello di una ripresa senza occupazione”(dichiarazione del Presidente del Consiglio a margine del G-20, a San Pietroburgo). Letta appare consapevole che nei prossimi mesi – stabilità di Governo permettendo – l’ottimismo sull’inversione di tendenza delle aspettative produttive può essere offuscato dalle statistiche sulla disoccupazione e dalle lotte sociali che esse innescheranno. C’è dunque da aspettarsi un impegno del Governo per consentire che il sistema produttivo e quello manifatturiero in particolare, si diano da fare per iniziare ad assorbire disoccupati o cassintegrati.

 

Non mancano gli annunci di questo o quel Ministro. Spesso non tutti all’unisono, come succede quando la coperta è corta e i bisogni sono tanti. Nessuno che dica con quali risorse. Mentre ci sono altri esponenti dl Governo che, più o meno a voce alta, ci informano che le coperture per l’Imu non sono del tutto definite e quelle per evitare l’Iva sono tutte da cercare. Ma tant’è. Occorre essere ottimisti, contare sulla ripresa degli ordini dall’estero e della domanda interna, sperare che lo spread non riprenda a salire, che il clima politico si rassereni, che la gente si senta rassicurata. Poste come date tutte queste condizioni, c’è una ragionevole e non fantasiosa possibilità di inversione della tendenza della disoccupazione?

Con i decreti estivi riguardanti il lavoro, il Governo e la sua maggioranza hanno preferito limitarsi ad una variegata e puntigliosa correzione della riforma Fornero sul mercato del lavoro e a rifinanziare il sostegno al reddito dei lavoratori espulsi dalle aziende. Manutenzione, necessaria ma sempre manutenzione. Hanno rinunciato a costruire, con le parti sociali, un’architettura di sostegno alle ripartizioni degli orari di lavoro e all’incentivazione del part-time finalizzati, sia pure temporaneamente, a recuperare, nel breve periodo, i lavoratori dalla CIGS e dalla mobilità e a dare qualche speranza ai giovani disoccupati. E’ vero che neanche le parti sociali hanno chiesto interventi di questo spessore e tuttora lo hanno confermato con il recente documento congiunto Confindustria, Cgil, Cisl, Uil, ma ciò che conta è la reiterata volontà del Governo di far dipendere l’incremento dell’occupazione dalla crescita economica.

“Crescita”, come dice Jovanotti in una spumeggiante intervista rilasciata a Gramellini, “è una parola bellissima. Non si cresce solo in estensione, anche in profondità”(La Stampa, 1 settembre 2013). Ha ragione. La decrescita non ci ha mai affascinato, specie se si rivela – come attualmente – con la faccia infelice. Ma la crescita, quella non effimera ma coniugata alla maniera di Jovanotti, ha i suoi tempi, la sua gestazione, la sua maturazione. Non influisce a breve, non è miracolistica. Ma, ovviamente, è alla crescitache bisogna pensare nel definire le linee di intervento, con speciale riguardo al settore manifatturiero, che dal 2008 ha perso il 20% della propria potenzialità.

La manifattura è sostanzialmente divisa in tre aree. La prima è quella che produce prevalentemente per il mercato globale e che usufruisce di uno stimolo molto consistente, data la ripresa in quasi tutte le economie forti; le aziende di quest’area sono in larga misura già riallineate alle esigenze di competitività e devono soltanto concentrarsi sulla conquista di quote di mercati consolidati o di mercati nuovi. Per loro, la questione del costo del lavoro è marginale. La seconda area, quella più numerosa, èquella che dipende per buona parte dalla domanda interna (edilizia, auto e settori connessi). Queste aziende, specie se hanno utilizzato questi anni di crisi per ristrutturarsi e diventare più produttive, possono riprendere a lavorare a pieno regime a condizione che la gente, a sua volta, ricominci a comprare. La terza area, è quella delle aziende senza più mercato, quella che si deve reinventare e per le quali la priorità è l’attivazione di una efficace politica industriale.

Se le cose stanno così, è intuitivo che la priorità è il rilancio della domanda interna e solo in secondo ordine la riduzione del costo del lavoro. E’ sempre bene ricordare che il costo del lavoro per unità di prodotto nell’industria manifatturiera italiana è del 18% inferiore a quello tedesco. Di conseguenza, non tutte le misure hanno gli stessi effetti. Per esempio, il costo dell’energia per le imprese è oggettivamente alto. Se lo si abbassa, si riduce il costo di produzione, si da una mano alla competitività delle imprese, però non si rilancia la domanda interna.

Ma anche se si punta alla contrazione del cuneo fiscale, come da molti sollecitato, i conti potrebbero non tornare. Se le risorse disponibili non sono tali da eliminare del tutto il cuneo (ipotesi allo stato assolutamente realistica), bisogna saper scegliere. Si parla di un intervento di riduzione dell’Irap o anche dei premi Inail. Indubbiamente, esso fa contrarre il cuneo fiscale, ma non ha conseguenze direttamente positive sulla domanda interna. E’ ovvio, che dal punto di vista imprenditoriale, questa è misura che apprezzerebbero, dato che le risorse liberate resterebbero nella disponibilità delle aziende e delle loro libere scelte allocative. Ma nessuno può garantire che farebbero crescere la domanda a breve.

La misura più efficace per dare priorità all’incentivazione della domanda interna, resta quella di una riduzione della tassazione dei lavoratori dipendenti a bassa e media remunerazione (platea ipotizzabile intorno a 10 milioni). Una deduzione fiscale di 250 euro all’anno procapite, richiederebbe 2,5 miliardi di euro all’anno. Una cifra consistente, ma non impossibile. Questo taglio verrebbe trasferito nella busta paga e quindi più immediatamente spendibile. Le aziende non avrebbero un vantaggio diretto, ma la crescita della domanda interna consentirebbe un rimbalzo produttivo, facilitando soprattutto quelle della seconda area. Ma quel che conta, è che i lavoratori di tutti i settori produttivi avrebbero più capacità di spesa a disposizione.

E’ inutile farsi illusioni. Neanche questa misura potrà fare molto sul piano occupazionale. Come si è detto, ben altre sarebbero le scelte da fare per dare una risposta emergenziale ad esigenze emergenziali. Ma finanche sul terreno più tradizionale del sostegno alla crescita, si possono fare errori di valutazione o di pura convenienza. L’interesse generale, invece, deve orientare le opzioni nella direzione di rimpolpare il salario e fare di questo, la molla per uscire dalla crisi e soprattutto dimostrare all’opinione pubblica che, per il Governo, la centralità è effettivamente l’occupazione.

 

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