C’è una forza affidabile e silenziosa che sostiene il Sud e assicura la tenuta economica di tutto il Paese. È il motore dell’agroalimentare: un sistema che macina crescita e coesione, ricchezza e sostenibilità, e che dà il meglio di sé in corrispondenza di filiere ben integrate, interconnesse e fondate sul lavoro di qualità. Una fotografia che trova sostegno nei Rapporti e nei Bollettini dei più importanti osservatori istituzionali, che assegnano un ruolo centrale ai comparti del primario, della trasformazione e dell’artigianato alimentare.
Protagonista assoluta è l’agricoltura. Secondo gli ultimi dati, relativi al 2015, la crescita annuale del settore nelle regioni meridionali è stata assai maggiore (+7,3 per cento) rispetto al Centro-Nord (+1,6%). Tendenza ancora più marcata se accostata a quella della manifattura (-0,3%) e dei servizi (+0,8%). L’economia dei campi cresce al Sud in valore aggiunto ed esportazioni. Il saldo occupazionale va in positivo di 20 mila unità in due anni, con dinamiche promettenti sul lavoro femminile e giovanile (+12,9 per cento). Gli immatricolati alle università meridionali del gruppo agrario hanno raggiunto un livello di quasi il 20% maggiore rispetto al 2006. I ragazzi tornano insomma a “pensare primario” con ottica affrancata dal luogo comune che associa il comparto a qualcosa di retrogrado e scarsamente redditizio.
Dati sorprendenti solo per chi non si è accorto che l’agricoltura e i settori alimentari sono tra le vere eccellenze rimaste al Paese. Ben 77 i prodotti in cui la quota di mercato mondiale dell’Italia è tra le prime tre al mondo; 23 – e tra questi pasta, pomodori, aceto, olio, fagioli – in cui è la prima. Non c’è agricoltura in Europa che abbia una capacità di generare valore aggiunto quanto quella italiana. Da noi, un ettaro di terra, produce duemila euro di valore aggiunto: il doppio Spagna e Francia, il triplo dell’Inghilterra. Nessun Paese europeo ha tanti produttori Bio quanti ne ha l’Italia, che ne può contare ben 43.852, il 17 per cento di tutti i produttori europei.
In questo quadro, il Mezzogiorno gioca un ruolo di assoluto rilievo. L’eccellenza delle nostre produzioni meridionali è figlia, soprattutto della capacità di connettere le filiere alle unicità dei territori. Le Indicazioni Geografiche Protette del Sud sono 41, le Denominazioni di Origine Protetta 65. Un tesoro che interagisce quotidianamente con la fitta e diffusa rete della trasformazione composta di tante realtà – medie, piccole e piccolissime – che vivono di territorialità e si rivolgono a nicchie di mercato di fascia alta.
Un insieme di luoghi, persone, competenze che è risorsa formidabile per il Paese in termini di produzione di ricchezza, integrazione, tenuta occupazionale. Ma dalla valorizzazione di queste tipicità dipende anche la possibilità di difendere gli ecosistemi delle nostre aree interne, di fronteggiare spopolamento e desertificazione delle zone isolate e montane, di custodire valori inestimabili anche sotto il profilo paesaggistico, artistico e culturale.
È uno strano paradosso, quello del Sud. Che ad una costellazione di distintività ed eccellenza affianca aree sociali e geografiche marginali, disarticolate, slegate dalle reti di tutele e di relazioni sociali. Zone di arretratezza in cui il lavoro agroalimentare – pensiamo all’agricoltura, ma anche alla pesca – comporta redditività negativa. È in questi spazi, senza tutele né garanzie per i lavoratori, che proliferano sfruttatori e caporali. Queste aree, che naturalmente non abitano solo il Mezzogiorno, invocano un coinvolgimento nei processi di modernizzazione. L’azione pubblica ha il dovere di rilanciare investimenti certi e buona programmazione, garantendo semplificazione e strumenti di fiscalità che difendano il buon lavoro.
Bisogna lavorare insieme per redistribuire in modo più equo il reddito di filiera, ancora così penalizzante per lavoratori e piccoli produttori. Riequilibrare i rapporti con la Grande distribuzione organizzata. Rispondere alla frammentazione delle aziende, con reti d’impresa e filiere ben integrate con l’industria della trasformazione. Azioni obbligate, se vogliamo rispondere con efficacia e giustizia alla rovente e irreversibile internazionalizzazione dei mercati, ed essere protagonisti attivi nei grandi accordi intercontinentali che si stanno sviluppando sia ad Est che ad Ovest dell’EuropaQuestione centrale per l’agroalimentare meridionale è il tema della scarsa capacità delle aziende di connettersi tra loro, assicurando la chiusura del ciclo di filiera. Un limite sistemico che si traduce in esiziale perdita di controllo nella formazione del valore aggiunto, a favore di soggetti esterni, con grave perdita per i territori di ricchezza, occupazione e potere contrattuale. Riequilibrare i rapporti richiede filiere meridionali chiuse, ben saldate nei segmenti che vanno dalla produzione alla commercializzazione, attraverso la trasformazione, la distribuzione e il marketing di prodotto.
Non c’è strada migliore per internazionalizzare la rete agroalimentare del Sud, redistribuire ricchezza e opportunità e restituire dignità negoziale a tutti gli attori in campo. Concentrazione e potenziamento dell’offerta richiedono una modernizzazione dell’apparato agroalimentare che non può prescindere da investimenti veri e aggiuntivi. La buona notizia è che le risorse non mancano. Vanno individuate nelle dotazioni europee della Pac e nei Psr. Dotazioni da orientare su target di innovazione e multifunzionalità, ma da condizionare anche al rispetto dei contratti e alla creazione di buona occupazione aggiuntiva. Occorre assicurare un flusso adeguato ad una sfida storica, e al tempo stesso garantire qualità ella pesa, efficienza ed efficacia dei progetti, mediante una gestione concertata a livello nazionale e regionale.
Innalzare il livello della qualità del lavoro agroalimentare è il traguardo finale e il più importante. Ecco allora che il compito del sindacato – certamente quello di una Federazione come la Fai Cisl – sta nell’esercitare tutta l’influenza di cui è capace, in Italia e in Europa, per sbloccare queste partite. Al contempo, ovviamente, bisogna operare al meglio sulle leve che sono proprie dell’azione sindacale, facendo buona contrattazione e buona rappresentanza per consolidare l’intima relazione che lega la qualità di prodotto al lavoro ben retribuito, tutelato e professionalizzato.
Il mercato agroalimentare attraversa una stagione di grande mutamento, destinata a ridisegnare i rapporti di forza interni dei vari settori. In questo senso il Mezzogiorno deve giocare bene le proprie carte, consolidando modelli capaci di rispondere a sempre più alti standard di sicurezza, qualità e sostenibilità richiesti dai consumi nelle economie avanzate. La competizione non può che avvenire nella fascia alta, con filiere produttive che puntano non solo a un alto valore aggiunto, ma anche a più elevati valori sociali. Bilateralità e negoziazione aziendale e territoriale sono strumenti essenziali per vincere questa battaglia. Tanto più nei settori agroalimentari e tanto più al Sud. Dove il presidio delle parti sociali si fa decisivo nella lotta contro lo sfruttamento agricolo, e dove buoni accordi di prossimità possono davvero fare la differenza in termini di coesione, servizi alla persona e alla famiglia, rilancio del potere d’acquisto, riavvio della domanda aggregata nelle comunità locali.
La via è quella tracciata da tanti contratti provinciali agricoli e dai cinque contratti nazionali dei comparti alimentari (Industria, Cooperazione, Confapi, Artigianato e Panificazione). Rinnovi che nei prossimi tre anni appesantiranno le buste paga dei lavoratori di circa quattro miliardi di euro al netto della negoziazione decentrata. E che, nel solco del protocollo interconfederale del 14 gennaio 2016, ridisegnano e rafforzano il secondo livello contrattuale e relazioni di prossimità, partecipazione e produttività, welfare e sicurezza, organizzazione del lavoro, formazione congiunta e governance d’impresa. Sempre con questo spirito, la Fai lavora in questi giorni anche alla definizione della piattaforma unitaria da presentare alle controparti per il prossimo rinnovo del contratto nazionale degli operai agricoli.
La crescita si guadagna con modelli che sanno unire la cultura e i saperi delle comunità locali, puntare a qualità, esaltando bellezza e generando benessere diffuso. Servono reti relazionali a più ampio spettro, luoghi in cui le aziende e il mondo del lavoro operino insieme, perseguendo obiettivi che leghino interesse di parte e bene comune. Svalutare il lavoro è la strada opposta a questa mèta, che richiede invece più forti indirizzi partecipativi, una stretta collaborazione dei dipendenti alla vita delle imprese, qualità di processo e di prodotto, aziende che contribuiscono allo sviluppo sociale.
Non dobbiamo aver timore di indicare il faro di una nuova alleanza tra capitale e lavoro. Bisogna lavorare insieme per collocare l’agroalimentare meridionale e nazionale, al centro delle nostre prospettive di sviluppo. Aggredire in modo unitario le criticità dei settori, rafforzare il sistema delle contrasto delle contraffazioni, collaborare per arginare le agromafie che feriscono la dignità del lavoro e danneggiano la competitività delle imprese oneste, che sono la maggioranza. Inoltre è necessario adottare misure che favoriscono la concentrazione dell’offerta produttiva favorendo nuove forme di associazionismo dei diversi produttori. Passa di qui, e dalla parola “lavoro”, l’obiettivo di elevare l’export italiano di settore a 50 miliardi entro il 2020, con la creazione di almeno 100 mila nuovi posti.
I numeri positivi conquistati in questi anni dall’agroalimentare meridionale non vanno dissipati. Per amplificarli e renderli davvero strutturali serve una strategia di sviluppo nazionale incentrata sul riscatto delle aree deboli. Bisogna agire su fattori di crescita e coesione in assenza dei quali ogni sforzo “di categoria” rischia, alla lunga, di essere vano. Vuol dire realizzare strade, ferrovie, porti e aeroporti, ma anche abbattere i costi dell’energia, implementare la banda larga, portare in ogni comunità servizi degni di questo nome. Vuol dire stimolare capitali produttivi privati con strumenti di fiscalità di sviluppo e promuovere buona occupazione aggiuntiva. Vuol dire, ancora, aumentare il presidio locale delle istituzioni e delle forze dell’ordine, dare vita a una battaglia senza quartiere alla criminalità organizzata, semplificare le procedure, incrementare la trasparenza nella pubblica amministrazione, combattere le intermediazioni parassitarie, dove si annidano sprechi, clientele, “familismi amorali”.
Si vede bene, allora, quale sia il traguardo: la realizzazione di un Patto per il rilancio del Mezzogiorno che metta insieme, nello stesso orizzonte riformatore, ogni attore capace di dare un contributo responsabile. Salute, istruzione pubblica, trasporti integrazione sociale, formazione professionale sono elementi che devono entrare a pieno titolo in questa agenda condivisa, che valorizza il protagonismo della persona e delle sue libere associazioni, configurando un paradigma di sviluppo partecipato. Di fronte a noi l’opportunità di generare sviluppo vero e autosostenuto lì dove maggiore è il bisogno. Di colmare un gap storico che offende il senso di giustizia e frena la crescita nazionale. Di rilanciare in Italia e nel mondo il ruolo dell’agricoltura e degli altri settori produttivi meridionali. E, in buona sostanza, di curare una ferita storica, sanando – a più di un secolo e mezzo dall’Unità Nazionale – la frattura che ancora separa il Sud dal resto dell’Italia.
(*) Segretario Generale FAI CISL