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Scelse di imparare, diventando maestro, dalla parte di poveri

Tutti dobbiamo leggere di nuovo “Lettere a una professoressa” e pensare che è scritto anche per noi. Accettiamo il rigore, l’intransigenza di don Milani. Non è eccesso, ma intelligente amore evangelico e umano. Don Milani non può essere ridotto a politically correct, esortazione o facile denuncia. Ferisce, perché svela l’ipocrisia delle parole vuote, della retorica che nasconde l’inedia e chiama questa per nome, senza sconti. Come disse di lui don Bensi, don Milani è «un diamante che doveva ferirsi e ferire». Ci mette di fronte alle nostre responsabilità di ruolo e di paternità, ci chiede di farci carico, di non fornire istruzioni per l’uso, che fanno sentire a posto chi le offre, e lasciano solo chi deve applicarle. Ci costringe, tutti, a venire ancora in questo “non luogo”, che in realtà è un piccolo universo, che ci fa cercare ovunque questi bambini di sempre, di oggi, e le tante Barbiane, nascoste nelle case delle periferie o nei campi profughi, dove accettiamo crescano migliaia di bambini senza futuro.

Don Milani non si lascia certo ridurre a oggetto da salotto senza cambiare il salotto e senza uscirne, proprio come aveva fatto lui, borghese, colto, che scelse di imparare diventando maestro, di stare dalla parte dei poveri per trovare la propria, profeta di cambiamento, eppure obbedientissimo prete della sua Chiesa, senza la quale non voleva vivere. Ecco la lezione di don Milani, per tutti, credenti e non: per cambiare le cose, più che innamorarsi delle proprie idee, bisogna mettersi nelle scarpe dei ragazzi di allora e di oggi, degli universali Gianni, e non darsi pace, finché non siano strappati da un destino già segnato; credere che possano essere quello che sono e che questo può essere raggiunto solo grazie ad una scuola che li difende più di qualsiasi altra maestra, una scuola che non certifica il demerito, che garantisce le stesse opportunità a tutti e non taglia a torta in parte uguali, quando chi deve mangiare non è uguale. Deve garantire a tutti quello che serve a ciascuno. 

Ci aiuta don Milani oggi ad accorgerci e confrontarci con le disuguaglianze, sentirne lo scandalo e interrogarci sul perché abbiamo permesso che sono cresciute negli ultimi venti anni. Don Milani è un uomo della parola, parola sempre sacra e profana insieme, perché è quella che ci rende immagine e somiglianza di Dio: «Ci sarà sempre l’operaio e l’ingegnere, non c’è rimedio.
Ma questo non importa affatto che si perpetui l’ingiustizia di oggi per cui l’ingegnere debba essere più uomo dell’operaio (chiamo uomo chi è padrone della sua lingua). Questo non fa parte delle necessità professionali, ma delle necessità di vita d’ogni uomo dal primo all’ultimo che si vuol dir uomo».

La sua è stata una vita brevissima, alla quale la Chiesa italiana e tutto il nostro paese deve molto: egli ha fatto della radicalità evangelica il luogo del suo amore alla vita e della sua fedeltà a Cristo. Da credente. «Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Beati quelli che hanno fame e sete”.

Tre aspetti della sua figura a partire da tre citazioni bibliche.
1. «Dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7,19). Con il passare degli anni ci siamo accorti dell’eredità di don Milani guardando alla sua fecondità generativa. La scuola popolare di S. Donato a Calenzano prima, e quella di Barbiana poi, sono stati un vero e proprio laboratorio educativo senza precedenti nella storia del Novecento in Italia. Don Lorenzo si è rivelato uno straordinario formatore di coscienze. La sua idea di educazione ha avviato processi. «Vedeva i ragazzi come potevano essere»(1), non solo come erano di fatto. La periferia di Calenzano e Barbiana sono diventati patrimonio dell’umanità e riserva civica di democrazia per il nostro Paese. Scuola, lavoro, economia, politica e società si tengono insieme. Se i frutti di don Lorenzo li vediamo ancora oggi è perché il cardine della sua pedagogia è stato quello di accompagnare le persone ad assumersi responsabilità nella vita, a non accettare fossero prigionieri del consumismo, passivi e catturati dal tanto, offerto per non pensare. «Non vedremo sbocciare dei santi finché non ci saremo costruiti dei giovani che vibrino di dolore e di fede pensando all’ingiustizia sociale»(2).

2. «E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio» (Mt 19,24). Nei suoi scritti ritorna spesso il riconoscimento di una scoperta essenziale: i poveri lo hanno convertito. «Devo tutto – scrive in Esperienze pastorali – quello che so, ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola. Quello che loro credevano di stare imparando da me, son io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere»(3). Da qui il suo impegno perché si superasse l’atavico pericolo che la povertà e la ricchezza venissero tramandate di generazione in generazione. Mettere i poveri al centro della vita trasforma la storia: Gesù Cristo ce lo ha insegnato con chiarezza e il priore di Barbiana li ha semplicemente messi al centro. Non si è Chiesa se non si è di tutti, ma particolarmente dei poveri, e, solo perché dei poveri, è di tutti.

3. «La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo» (Sal 118,22-23 citato in Mt 21,42). La Chiesa stessa ha faticato a comprendere il messaggio di don Milani. L’«esilio di Barbiana», come lo si è chiamato, è stato da lui accolto con sguardo di fede, nonostante fosse consapevole che potesse suonare come un’incomprensione, un insulto alla sua «onorabilità d’uomo, di cattolico e di sacerdote», come scrisse alla madre l’11 aprile 1963 (4). La condanna nel 1958 di “Esperienze pastorali”, con la richiesta del ritiro dal commercio è rientrata solo nel 2014. Il dibattito intorno alla “Lettera ai cappellani militari” è finito nei tribunali. Don Lorenzo si è rivelato pietra di scarto, capace di essere anche pietra d’inciampo e pietra angolare. Grazie a papa Francesco, che il 20 giugno 2017 è salito qui per pregare sulla sua tomba e per raccoglierne l’eredità a nome di tutta la Chiesa, oggi avvertiamo l’importanza di farci illuminare dalle parole, dai gesti e dagli scritti di don Lorenzo.

Don Lorenzo ha trasformato un esilio in un esodo, ha preso per mano la Chiesa, rivendicando il suo servizio agli ultimi non come gesto di affermazione personale, ma come servizio ecclesiale. «Speravo di non esser più un “genio isolato e superiore”, ma una intelligente rotellina fra le tante della grande macchina di Dio». Ricorda alla Chiesa che le basta il vangelo e alla Repubblica che “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano l’uguaglianza e libertà è il “compito”, da non tradire e da stare male finché
questo non avviene.
Pochi mesi prima di morire scrisse a Nadia Neri: «Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come premio.
Ti toccherà trovarlo per forza perché non si può far scuola senza una fede sicura. (…) Ti ritroverai credente senza nemmeno accorgertene»(5). La sua testimonianza non appartiene al passato. Ci interpella e ci mette in cammino verso il futuro, senza tutte le sicurezze, ma con la vera risposta che è la passione evangelica e umana capace di generare vita. Coi giovani si scrive il presente e si cammina verso il domani. Della Chiesa e della società.

1 A. CORRADI, Non so se don Lorenzo, Feltrinelli, Milano 2012, 119.
2 L. MILANI, Esperienze pastorali, LEF, Firenze 1972, 241.
3 L. MILANI, Esperienze pastorali, 235.
4 L. MILANI, Alla mamma. Lettere 1943-1967, Marietti, Genova 1990, 390.

*Intervento in occasione del Centenario della nascita di don Lorenzo Milani, Barbiana 27/05/2023

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