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Interrogarci sulle domande poste dalla Scuola di Barbiana

Ricordare Don Milani a cento anni dalla sua nascita è un’opportunità di riflessione e approfondimento straordinaria, che consente di guardare all’attualità del messaggio di questa figura così anticonformista, carismatica, sensibile. 

Il fatto che la marcia di Barbiana sia stata omaggiata anche dal Presidente Mattarella è un motivo di orgoglio per tutti noi, che al mondo di Don Milani, alla sua storia, alla sua scuola, guardiamo sempre con vivo interesse. 

Credo che esista un rapporto molto forte tra le idee che noi viviamo ogni giorno, ereditate da Giulio Pastore, e il messaggio di Don Milani: il primo parlava di emancipazione sociale della persona attraverso il lavoro e la formazione, il secondo parlava di riscatto sociale tramite il diritto all’educazione per tutti. 

Questo è un principio da considerare anche per ricordare le opere di Don Lorenzo e in particolare “Lettera a una professoressa”: un testo che è stato definito in tanti modi, e ancora oggi fa discutere. Di certo, rappresenta un passaggio “rivoluzionario”, almeno se consideriamo che nel dibattito sull’istruzione esiste un prima e un dopo “Lettera a una professoressa”. Ma attenzione: esiste un prima e un dopo che non riguarda solo il sistema educativo, perché esiste un dopo anche per il sindacato. Quel libro, infatti, dal ’67 ad oggi ha lasciato un segno indelebile non solo sul mondo della scuola, ma per tutto il Paese, e interroga in particolare noi in quanto sindacalisti e soprattutto in quanto cislini. 

Ci sono almeno due aspetti che dovremmo considerare in questa bella ricorrenza, rispetto al grande valore di quell’opera. Primo, si tratta di un testo che dava voce anche direttamente ai ragazzi di Barbiana, che erano espressione della scuola di Don Milani, del suo pensiero, delle sue azioni concrete per l’emancipazione delle persone, ma erano espressione soprattutto della propria soggettività, del proprio vissuto, delle loro condizioni sociali di provenienza. Secondo motivo, che si lega al primo: quel testo ha un valore di testimonianza. Infatti, più che criticare il modello dell’istruzione italiana, più che proporre una critica sociologica, quel libro lancia una testimonianza, pone delle domande che vengono dalla propria esperienza, comunica un sapere formato sulla propria pelle. Si tratta di una testimonianza con cui Don Milani metteva alla prova sé stesso, si esponeva a critiche da tutti i fronti, con coraggio, determinazione, e con grande sincerità.

Come Fai, non possiamo non interrogarci sulla domanda di dignità ed emancipazione posta dalla scuola di Barbiana. E questo è un fattore, oltre che di impostazione culturale, anche profondamente motivazionale. Se oggi pensiamo alle condizioni di degrado alle quali sono costretti non pochi lavoratori dell’agricoltura, come alle decine di ghetti e baraccopoli d’Italia, si rafforza anche quel desiderio di giustizia sociale che va bel oltre la semplice indignazione. Ma c’è anche un altro punto che deve stimolarci: l’insegnamento a partecipare, ad esserci, a proporsi come agente di cambiamento e non come semplice antagonista di un sistema. Questo è un elemento che ci parla anche della Cisl di oggi, della proposta legislativa per la democrazia economica, ma anche delle tante battaglie che la nostra federazione svolge ogni giorno nelle fabbriche, nei campi, in tutti i luoghi di lavoro, grazie ai delegati, agli iscritti, ai militanti. 

Il 28 giugno 2017, in Aula Paolo VI, Papa Francesco incontrò la Cisl, in occasione del Congresso, e rese omaggio alla tomba di Don Milani e ai luoghi della scuola di Barbiana. Come tanti altri cislini posso dire: io c’ero! Ancora oggi quell’incontro, in cui Francesco ci parlò di “profezia e innovazione” da portare nel sindacato, è scalfito nel mio impegno quotidiano. Spero di trasmettere il senso di quell’incontro a tutti gli amici e colleghi della Federazione, ogni giorno. 

Questo approccio si riflette anche sulla progettualità che stiamo realizzando nella Fai con l’intento di uscire da una certa abitudinari età. Infatti siamo in campo con alcune campagne, con nuove formule culturali, comunicative e operative del nostro fare sindacato, guardando sempre alla coerenza rispetto il sindacato nuovo che volle Pastore. C’è una coerenza, in questo, anche con il messaggio di Don Milani, con la sua testimonianza al fianco degli ultimi. 

Occupandoci di lavoro agroalimentare abbiamo davanti uno scenario molto complesso. A parte qualche comparto particolare, come ad esempio la grande industria di trasformazione, che ha bisogno di manodopera anche altamente specializzata, l’agricoltura ha sempre più bisogno di lavoratori immigrati, e l’unico ricambio generazionale proviene proprio dal lavoro migrante. Però i lavoratori stranieri, indispensabili per garantire anche oggi la cosiddetta sovranità alimentare, finiscono spesso per essere i nuovi diseredati. Ecco il senso della campagna “Mai più ghetti”, della sepoltura data a Hope, giovane nigeriana morta carbonizzata nella baraccopoli di Borgo Mezzanone. Ma è anche il senso della campagna “Fai più sicurezza”, per la quale abbiamo redatto una guida pratica multilingue per fare accedere anche tanti lavoratori immigrati alle informazioni su salute e sicurezza. Ed è anche il senso di alcune pubblicazioni, come il libro “La terra a chi la lavora”, che ricostruisce le lotte cisline per il superamento della mezzadria: lotte vinte denunciando i soprusi, le prepotenze, le condizioni di miseria e di sottomissione a cui migliaia di famiglie erano costrette. E se ce l’abbiamo fatta allora, possiamo farcela anche oggi tra gli sfruttati dei ghetti.

* Segretario generale Fai Cisl, Intervento al convegno “Il sindacato dopo lettera a una professoressa”Centro Studi CISL Firenze 26/05/2023

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