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Welfare e mafie

Le politiche sociali in Italia non si sono mai distinte per efficienza e qualità rispetto al più ampio contesto europeo. Nelle valutazioni di molti osservatori, il funzionamento del nostro welfare appare storicamente centralizzato nelle mani dello Stato e tendenzialmente concentrato su trasferimenti economici di natura previdenziale: tutto a discapito dei servizi alla persona. Le eccezioni a questa regola appartengono al sistema sanitario – devoluto da quasi un trentennio all’autonomia degli enti locali – e, in minor parte e più recentemente, all’insieme dei servizi e degli interventi sociali. È da un quindicennio ormai che l’assistenza economica, abitativa e sociale, le politiche occupazionali, di formazione professionale e di promozione del benessere sociale sono funzioni attribuite a Regioni e Comuni.

Pur in presenza di importanti leggi ispirate al principio di sussidiarietà, nel complesso il sistema italiano di protezione sociale non sembra aver avuto una positiva evoluzione. I contesti locali hanno sicuramente rappresentato il vero discrimine nell’attuazione di alcune politiche, mantenendo inalterata la storica dicotomia geografica e morale che fotografa un Nord dinamico e un Sud inefficiente. Un Nord ricco e produttivo che garantisce servizi ai cittadini e un Sud povero e inefficiente che non risolve le diffuse aree di degrado sociale: un lascito storico che somiglia a un pregiudizio, istituzionalmente definito e culturalmente rappresentato.

A rafforzare tali valutazioni sommarie, la presenza delle mafie viene da molti riconosciuta tra i fattori che alimentano i “peccati” del Sud e assolvono l’incolpevole Nord. Giudizi frettolosi che finiscono per non considerare come la presenza mafiosa sia una questione che avvolge l’intero Paese fin dalle origini della sua Unificazione. 

Il welfare nei territori a tradizionale presenza mafiosa (Campania, Calabria, Sicilia e Puglia) è una sintesi impietosa della più ampia crisi nazionale: incapacità di rispondere ai bisogni sociali dei cittadini, larga inefficienza della macchina istituzionale nella programmazione e nella gestione dei servizi, sterile ritualità dei sistemi partecipativi che coinvolgono la cittadinanza, frequenti relazioni clientelari tra attori pubblici e privati nei processi di esternalizzazione. In più, in questa parte d’Italia, la radicata presenza delle mafie ha inevitabilmente accentuato le diseguaglianze sociali già largamente riscontrabili nelle regioni del Sud e ha favorito gli interessi illeciti e talvolta criminali nei confronti delle (già scarse) risorse destinate a sostenere le categorie deboli e più vulnerabili della popolazione.

Quando si parla di welfare nei contesti dove la presenza mafiosa è storicamente radicata, è facile evocare un duplice luogo comune: lo Stato è assente perché non riesce a garantire il monopolio della violenza e i diritti basilari di cittadinanza e le mafie mantengono l’ordine anche perché sono ammortizzatori sociali per ampie fette di popolazione. Diventa allora agevole, nel giustificare tale assioma, mettere in evidenza la carenza di risorse pubbliche impiegate nei servizi. Ed è ancora più facile dimostrare come in “territori di mafia” le persone che cercano di soddisfare i più elementari diritti soggettivi non trovino risposte ai propri bisogni.

Ma non corrisponde al vero sostenere che non esista in toto un’offerta di interventi e di servizi sociali nelle regioni del Sud. È sicuramente complicato renderli efficienti e diffusi, difficile coordinare le azioni e le risorse degli enti locali con il Terzo Settore ma, più spesso, diventa problematico riconoscere quello che di buono già c’è. Ma queste sono questioni che riguardano la gestione dei servizi pubblici in ogni luogo d’Italia.

È indubbio che le economie generate dagli interessi mafiosi non coincidano mai con l’interesse comune, ma è altrettanto vero che i sistemi relazionali del crimine organizzato non si basano solo su rapporti predatori, violenti e intimidatori. In altri lavori (citati alla fine dell’articolo) ho cercato di mostrare come la forza delle mafie poggi anche su incredibili livelli di protezione sociale, garantiti ad adepti e sostenitori. Tali sistemi di protezione assicurati dalle mafie fanno parte di un insieme più ampio di valori che, nella loro paradossalità, producono diffuse forme di consenso e di prestigio. Così, in alcuni territori, centinaia di famiglie inesorabilmente destinate alla marginalità, vivono grazie al sostegno economico che i clan garantiscono ai propri affiliati, soprattutto quando questi sono in carcere. Le spese per pagare gli avvocati, per gli spostamenti nelle carceri del Nord, per le esigenze quotidiane, le emergenze sanitarie: tutto questo è parte di un pacchetto di prestazioni finanziate dalla cassa comune dei clan per esercitare un forte controllo sociale che, nel momento in cui garantisce utilità, pretende ferrea omertà dagli affiliati e dalle loro famiglie.  

Non è tutto negativo ciò che le mafie producono e generano. È infatti in questi territori che (r)esiste l’opposta e, per certi versi inaspettata, reazione sociale alla radicata presenza mafiosa. Proprio a causa di un asfissiante controllo sociale, prima che militare, molte aree del Sud Italia hanno visto sperimentare innovative forme di lotta sociale, attuate attraverso la gestione integrata e virtuosa di servizi alla persona. Tra gli esempi più riconoscibili, alcune innovative pratiche di sostegno a persone con svantaggio hanno rappresentato le uniche eccezioni fra le prevalenti forme anacronistiche di assistenza. Ed è proprio nelle comunità a maggiore presenza mafiosa che questi innovativi interventi di welfare dei servizi hanno mostrato i risultati più interessanti, sia in termini di efficacia che di risparmio della spesa pubblica.

Nuove forme di assistenza hanno contribuito ad individuare e liberare risorse territoriali che la lotta alle mafie ha prodotto in decenni di attivismo. È grazie all’intuizione di molti giovani affiancati da (pochi) dirigenti pubblici che i beni confiscati (e il loro riutilizzo a scopi istituzionali e sociali) vengono considerati una risorsa strategica per l’attuazione delle politiche di welfare. Nuove forme di collaborazione tra cittadini-utenti, servizi sociali, sanitari e imprenditori del sociale hanno generato innovative sinergie su cui nessuno, nel resto del Paese, avrebbe mai scommesso.

Non è certo un percorso facile, proprio in contesti abituati a nascondere le diversità, classificarle in scale patologiche e, di frequente, sfruttarle attraverso scambi clientelari nella gestione della cosa pubblica. Ma lo sforzo e il coraggio di molte persone – che hanno messo in gioco la propria vita, il proprio lavoro e il tempo libero – hanno sicuramente dato una scossa al granitico e tradizionale assetto delle politiche di welfare a livello locale.

I beni confiscati alle mafie e il loro riuso per fini istituzionali e sociali rappresentano la chiave di volta di queste nuove pratiche, incoraggiando la necessaria trasformazione sociale in quei territori che da troppo tempo subiscono il giogo di un esteso sistema di illegalità, dominato dalla prevaricazione mafiosa. Grazie a queste e ad altre iniziative virtuose sempre più spesso promosse da giovani, l’utilizzo dei beni confiscati alle mafie sta diventando parte rilevante di un capitale di risorse economiche e simboliche che segnano un cambio di rotta nelle prevalenti logiche di un welfare fortemente residuale. L’esperienza di molti contesti del Sud insegna che la lotta alle mafie passa anche attraverso l’esercizio dei diritti di cittadinanza (partendo dai più indifesi) attraverso il riutilizzo delle stesse ricchezze che le mafie hanno drenato sfruttando, invertendo così la cultura di prevaricazione e omertà in favore di logiche di collaborazione e solidarietà. Un insieme di pratiche e di esperienze che stanno rigenerando e dando nuova vita al settore delle politiche sociali. Ed è proprio dal Sud che si sta tracciando la giusta direzione politica di cui hanno bisogno i sistemi di welfare locale dell’intero Paese.

 

 (*) Phd in «Pedagogia e Servizio Sociale» presso Università degli Studi Roma Tre, autore del volume Il welfare e il suo doppio. Percorsi etnografici nelle camorre del casertano (Ledizioni, 2016) e de Il sistema assistenziale delle mafie italianein «Atlante delle mafie» (Rubbettino 2016).

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