Abbondano le promesse nei programmi elettorali più o meno dettagliati. A leggerli non pare di essere in un paese con un debito pubblico superiore al 130%, soggetto ai vincoli di finanza pubblica europea e con la prospettiva di un venir meno della protezione della BCE che tanti miliardi ci ha fatto risparmiare sugli interessi sul debito.
Facili e munifici nelle promesse, i programmi sorvolano sulle risorse necessarie a mantenerle. Anche senza considerare i vincoli europei, vedi Salvini, c’è comunque un mercato finanziario internazionale cui assicurare la sostenibilità del debito pubblico, senza la quale, vincoli europei o meno, si rischia parecchio.
Tra i settori in cui i partiti e le coalizioni promettono di più, oltre a quello fiscale vi sono le pensioni, con in testa la legge Fornero. Si va “dall’azzeramento” del Centrodestra, con i distinguo di Berlusconi, al “superamento” dei 5stelle.
Da notare che tre delle quattro gambe che compongono il Centrodestra (gli esponenti di Noi per l’Italia erano in F.I. o in Scelta Civica di Monti) votarono nel 2011 a favore della Fornero consentendone l’approvazione. Il più chiaro è certamente Salvini che promette l’abrogazione della legge dimenticandosi tuttavia di quelle Sacconi/Tremonti del 2010/11.
Quali le conseguenze dell’abolizione della Fornero? Da capire in primo luogo se l’abolizione ha effetto dal momento dell’approvazione in Parlamento della nuova legge o se ha un effetto retroattivo dal gennaio 2012. In ogni caso non dovrebbe riguardare il blocco della perequazione delle pensioni già affrontato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 70 del 2015 e risolto, superando il vaglio della Corte, dal D.L. del governo Renzi.
Effetti diversi la data dell’abrogazione avrebbero sul pro-rata. La Fornero ha introdotto a partire dal 2012 il pro-rata per il calcolo della pensione anche per chi era interamente nel retributivoavendo 18 anni di contribuzione prima del 1996. Chi aveva maturato 18 anni di contribuzione nel 1995 ne aveva, se ha sempre lavorato, 34 a fine 2011 e ne ha 41 a fini 2018. Se la disposizione della Fornero viene meno dal 2018 gli effetti sono residuali, dato che buona parte degli interessati sono andati in pensioni o avrebbero comunque un periodo limitato di lavoro. Diverso se l’abrogazione producesse effetti dal 2012, non tanto dal punto di vista finanziario (la Rgs stimava i 200 milioni l’effetto di risparmio del pro-rata nel 2018) quanto dal fatto che tutte le pensioni già erogate a questi soggetti andrebbero ricalcolate.
L’effetto maggiore si avrebbe per quattro novità introdotte dalla Fornero: l’abolizione delle pensioni di anzianità nel retributivo e nel misto con la soppressione sia delle quote sia del requisito dei quaranta anni di contribuzione, l’accelerazione del processo di parificazione nel pensionamento di vecchiaia delle donne del settore privato a quello degli uomini, l’aumento contributivo per artigiani, commercianti e coltivatori diretti.
Per i lavoratori che ricadono nel retributivo o nel misto tornerebbe quindi in vigore il pensionamento di anzianità attraverso le quote o il requisito contributivo dei 40 anni. Dati gli anni passati dal 1995, la cosa riguarderebbe sostanzialmente solo i lavoratori che stanno nel misto. La quota oggi in vigore dovrebbe essere pari a 97 anni e sei mesi con un minimo di 35 anni di contribuzione di 61,7 anni di età. In realtà ai fini del godimento della pensione la quota va aumentata di un anno poiché con la soppressione della Fornero sarebbero ripristinate le cosiddette finestre che posticipavano di un anno (18 mesi per gli autonomi) il godimento della pensione rispetto al momento della maturazione del diritto. Stesso discorso per il requisito dei 40 anni a cui va aggiunto un anno per la finestra.
Va ricordato comunque che dal 2012 al 2016 sono stati varati otto provvedimenti (le cosiddette salvaguardie) che hanno tutelato circa 170.000 lavoratori colpiti dalla Fornero e dalla perdita di lavoro consentendo loro di accedere al pensionamento.
Per la pensione di vecchiaia di fatto nulla cambierebbe. La Fornero la portò a 66 anni ma abolì la finestra di un anno equiparando così anno di maturazione del diritto con anno di godimento della prestazione. Nulla invece cambierebbe nel sistema di adeguamento delle età di pensionamento alla speranza di vita perché questo legame non è stato introdotto dalla legge Fornero ma dalle leggi Sacconi/Tremonti del 2010/11 con la Lega al governo. La Fornero ha solo accelerato questo processo a partire dal 2019 portandolo da una cadenza triennale a una biennale.
La normativa pre-Fornero prevedeva un progressivo allineamento del pensionamento di vecchiaia delle donne del privato (nel pubblico era già avvenuto) a quello degli uomini. Il processo doveva concludersi nel 2026, la Fornero ha accelerato il percorso portandolo a conclusione dal 2018. Senza la Fornero le donne del privato oggi maturerebbero il diritto alla pensione di vecchiaia a 62 anni e dieci mesi, più un anno per finestra, invece dei 66 anni e 7 mesi attuali.
Con l’abolizione della Fornero dovrebbero infine venir meno anche gli aumenti delle aliquote di contribuzione e di computo previste dalla legge per i lavoratori autonomi.
Gli interventi della legge Fornero rientravano nel pacchetto complessivo messo insieme da Monti per la finanziaria per il 2012 e portavano a consistenti risparmi. Eliminando questi provvedimenti si eliminano/riducono questi risparmi con un conseguente aumento di spesa pubblica. A quanto ammonta quest’ aumento?
Prendendo la Relazione tecnica che accompagnava il provvedimento, vediamo che la Rgs stimava in 14,3 mld i risparmi nel 2018 derivanti dalle modifiche apportate ai requisiti per l’accesso alle diverse tipologie di pensione. A questi andavano aggiunti due miliardi per le maggiori entrate contributive e circa 4 mld per il blocco dell’indicizzazione. Il tutto portava secondo Rgs a un risparmio, tra tagli alle spese e maggiori entrate di circa 20 mld. Togliamo dal computo i risparmi dovuti dal blocco delle indicizzazioni, ormai assicurati dagli interventi della Corte, restano da coprire per il 2018 e gli anni seguenti circa 15/16 mld all’anno fino al 2030, con una progressiva diminuzione negli anni successivi.
La Rgs, nell’ultimo rapporto sulla spesa pensionistica, stima che i risparmi prodotti dalla Fornero, al lordo di quelli derivanti dal blocco dell’indicizzazione, dal 2012 al 2060 ammonterebbero a circa 350 miliardi di euro (21 punti di Pil).
Queste cifre, assieme alla consapevolezza dell’impatto negativo che un’abrogazione della Fornero avrebbe a livello comunitario, costituiscono probabilmente la ragione della maggiore prudenza di Berlusconi nei confronti dell’abolizione della legge. Il programma ufficiale del Cd prevede con l’abolizione della Fornero una “nuova riforma previdenziale economicamente e socialmente sostenibile”. Messa in questi termini sembra un “Bisogna cambiare tutto per non cambiare niente” di gattopardiana memoria.
Anche i 5stelle sono per il superamento/azzeramento della Fornero. Le ultime indicazioni accennano ai 41 anni di contribuzione e a quota 100 per il diritto al pensionamento. Nulla dicono sul pensionamento di vecchiaia, dato che i due requisiti precedenti si riferiscono a un pensionamento anticipato o di chi comunque ha almeno 35 anni (quota 100) o 41 anni di contribuzione. Non quindi un ritorno alla situazione precedente la Fornero ma certo un sistema che riduce i risparmi previsti e contabilizzati. Per valutare la maggiore spesa occorrerebbe tuttavia sapere il dettaglio della proposta e accedere ai data base dell’Inps.
Gli interventi annunciati non si limitano ai pensionandi ma riguardano anche i pensionati. Il Cd promette un aumento delle pensioni minime e pensioni alle mamme e un raddoppio dell’assegno minimo per le pensioni d’invalidità e sostegno alla disabilità. I 5stelle una pensione minima di 780 euro netti al mese a tutti i pensionati (1.170 euro netti al mese per una coppia di pensionati). Mancando il dettaglio delle proposte, come ad esempio i requisiti di reddito individuale e/o familiare, è difficile quantificare i costi. Vediamo i costi massimi partendo dai “1.000 euro al mese per tutti i pensionati al di sotto di questa cifra” (Berlusconi) ai 780 euro di pensione minima dei 5stelle.
Partendo dal presupposto che il riferimento non è alla pensione ma al pensionato (molte pensioni basse sono la seconda o terza pensione percepita da un pensionato), i beneficiari di pensione inferiore ai 1.000 euro sono, secondo il casellario, poco più di sei milioni. Considerando la loro pensione media, il costo del portarle tutte a 1.000 euro supererebbe i 30 mld. Già all’epoca delle pensioni a un milione la realtà fu molto più modesta tramutandosi in una maggiorazione sociale soggetta a limiti di età (70 anni) e di reddito individuale e familiare.
Brunetta fa riferimento a questi limiti e quindi l’effettivo impatto delle pensioni a 1.000 euro può essere sensibilmente ridotto.
La proposta dei 5stelle presa alla lettera riguarderebbe circa 4,5 milioni di pensionati e, sempre in base ai dati del casellario, costerebbe circa 15 mld. Anche in questo caso ovviamente l’introduzione di requisiti di età e di reddito ridurrebbe la platea dei beneficiari riducendo il costo della misura.
Taglieremo le pensioni d’oro affermano i 5stelle per trovare le risorse. Come già fatto rilevare, se il riferimento è ai pensionati con importi pensionistici superiori ai 5.000 euro lordi mensili si tratta di circa 190.000 beneficiari con importi pensionistici complessivi pari a16 mld. Sarebbe ovviamente impossibile azzerare del tutto queste pensioni, se si tagliasse “solo” la parte eccedente i 5.000 euro, Corte permettendo, le risorse disponibili si ridurrebbero, considerando la perdita di entrate fiscali, a 2,5 mld.
Per ricavare un ammontare di risorse pari a quelle indicate da Di Maio, 12 mld, con un taglio sia pure progressivo delle pensioni bisogna spostare molto in basso il limite delle pensioni da tagliare. Alcuni commentatori l’hanno indicato a 2.500 euro mensili (1.890 euro netti), ma non basterebbe anche perché in genere ci si dimentica un taglio alle pensioni comporta anche un taglio alle entrati fiscali e che quindi le risorse disponibili rispetto al taglio lordo si riducono almeno del 40%.
Tra il dire e il fare c’è quindi molta strada come hanno “scoperto” tutti i nuovi arrivati al governo.
Il Programma del PD in tema pensioni si colloca in linea con quanto fatto negli accordi con i sindacati recepiti nelle leggi di bilancio per il 2017 e 2018. Rafforzamento e stabilizzazione delle’Ape e dell’Ape social con ampliamento delle categorie ammesse a quest’ultima per aumentare la flessibilità in uscita. Attenzione al rapporto tra lavori usuranti e speranza di vita in base alle risultanze che emergeranno dalla Commissione Istat/Inps/esperti istituita in base all’accordo del novembre 2017.
Proposta nuova è invece la costituzione di una pensione contributiva di garanzia di 750 euro mensili per i lavoratori, autonomi e dipendenti, che si collocano interamente nel contributivo e la cui pensione a calcolo non raggiunge questa cifra. Una misura simile all’attuale integrazione al minimo, prestazione che tutela esclusivamente i lavoratori che rientrano nel sistema retributivo e misto e che è, attualmente, destinata a estinguersi.
Verrebbe quindi riproposta con ammontare diverso e più alto, per il 2018 l’integrazione al minimo è pari a 507 euro mensili. Requisito richiesto venti anni di contribuzione, per ogni anno in più di lavoro un incremento di 15 euro fino ad un importo massimo di 1.000 euro.
Il problema di pensioni non adeguate non deriva dal sistema contributivo, ma riguarda tutti i lavoratori con carriere lavorative e contributive precarie per durata e/o per importi retributivi a prescindere dal metodo di calcolo. I milioni di pensioni basse e integrate al minimo attualmente esistenti lo stanno a testimoniare. La soluzione ottimale come afferma il programma del PD é una maggiore regolarità/retribuzione lavorativa. In assenza la pensione di garanzia è una delle possibili forme di tutela.
I costi sono tutti da valutare e non gravano comunque sui bilanci dei prossimi anni. Cominceranno ad esserci quando arriveranno al pensionamento i lavoratori interamente contributivi. Tuttavia questi costi andranno ad incidere sulle proiezioni a medio-lungo termine della spesa pensionistica e qui bisognerà affrontare il tema con Bruxelles.
Sulla previdenza complementare nessuna misura particolare ma l’affermazione della necessità di un sistema più conveniente per i giovani, con meno vincoli e che garantisca, oltre alla possibilità di una rendita, un’opportunità di reddito prima della pensione. Già oggi i fondi pensione contrattuali danno agli iscritti una larga possibilità di anticipi del montante accumulato. Il programma del PD a quanto si può intuire prevede un ulteriore allargamento di queste possibilità. Il punto è capire il rapporto tra finalità pensionistiche dei fondi e opportunità di reddito durante il periodo di contribuzione.
Giusto il riferimento al fatto che i Fondi possano finanziare lo sviluppo degli investimenti ma mancano indicazioni sugli strumenti.
Infine un’affermazione molto generica tutta da specificare. “Va aumentata l’equità, riducendo drasticamente tutte le forme di privilegio ingiustificate nei trattamenti finanziati dallo Stato”.
Detta così non significa nulla, vanno specificati quali sono le forme di privilegio ingiustificate.