Qualche giorno fa, il Presidente del Consiglio Conte nel suo discorso di richiesta di fiducia al Senato non ha indicato la permanenza dell’Italia nell’area dell’euro come una componente essenziale del programma di governo. Lo ha fatto solo nella sua replica, il che di per sé è strano. Ma al di là di quello che si dice, o non si dice, contano i fatti. E le politiche di bilancio che il governo sembrerebbe orientato a realizzare (è giusto usare ancora il condizionale) non sono molto rassicuranti rispetto alla nostra permanenza nell’area dell’euro.
Le regole di bilancio
Il problema principale non sono le regole di finanza pubblica che i Paesi dell’area devono rispettare, ma è comunque utile cominciare da queste. Il club dell’euro ha le sue regole. Non si tratta solo di avere un deficit sotto il tre per cento del Pil. Si tratta anche di ridurre, ogni anno, il rapporto tra debito pubblico e Pil di circa tre punti percentuali e il rapporto tra deficit pubblico e Pil di circa mezzo punto percentuale fino al raggiungimento del pareggio di bilancio. Negli ultimi anni il nostro debito non è sceso ed il calo del deficit è stato solo modesto. Non siamo però stati penalizzati perché abbiamo utilizzato gli ampi margini di flessibilità che le regole ci consentivano (le regole europee non sono poi così rigide). Ora però i margini sono stati utilizzati ed è possibile che già quest’anno i nostri conti pubblici non siano in regola. Una violazione delle regole fiscali europee alzerebbe la tensione con l’Europa: se l’Italia non vuole rispettare le regole del club, allora esca. Ma non è tanto la violazione delle regole che mi preoccupa, anche perché la procedura che porterebbe alla imposizione di penalità sull’Italia è abbastanza lunga. Quello che più mi preoccupa è la reazione dei mercati finanziari.
L’Italia resta il Paese col più alto rapporto tra debito pubblico circolante sui mercati e Pil nell’area dell’euro (il debito greco è più alto ma è detenuto quasi interamente non da investitori privati, ma dagli altri stati europei, direttamente o indirettamente). Adottare politiche di bilancio espansive in un Paese a debito già alto (e, per giunta, non perché siamo in recessione, visto che l’Italia sta crescendo, ma solo perché la crescita ci appare inadeguata) è quindi rischioso. Ed ha anche importanti implicazioni per la nostra permanenza nell’area dell’euro. Cosa c’entrano i conti pubblici con l’euro? C’entrano moltissimo. Uno dei metodi tradizionali per ridurre il debito pubblico è quello di ripagarlo stampando moneta. Lo hanno fatto per secoli i governi indebitati. Noi non possiamo farlo perché siamo nell’euro e non abbiamo una banca centrale autonoma.
I sovranisti
Ma se uscissimo dall’euro…. Ed è proprio questo che i cosiddetti «sovranisti» dicono: uscendo dall’euro potremmo stampare tutti i soldi che vogliamo e neutralizzare il problema del debito pubblico, dopo la sua conversione per legge da euro a nuove lire.
Il problema dei conti pubblici è quindi indissolubilmente legato a quello dell’euro: lo spread va su perché gli investitori temono di non essere ripagati (un default palese) o di essere ripagati in «nuove lire», un default sostanziale visto che la nuova lira probabilmente si svaluterebbe rispetto all’euro, moneta forte. Inutile allora riaffermare l’intenzione di restare nell’euro. Sono i fatti che contano: lo spread va su lo stesso se i conti pubblici non sono messi in sicurezza o addirittura peggiorano.
La tesi del denominatore
C’è chi obietterà che le politiche che il governo intenderebbe adottare in realtà porteranno a un alleviamento del peso del debito. E’ la cosiddetta «tesi del denominatore». Che significa? Il debito pubblico viene misurato rispetto al Pil e, si dice, se il deficit aumenta si mettono soldi nelle tasche degli italiani e questo fa crescere il Pil più rapidamente. Quindi, nonostante il deficit e il debito più elevato, il rapporto tra debito e Pil si ridurrebbe perché il Pil, il denominatore del rapporto, crescerebbe. Magari. Purtroppo non conosco un paese che sia riuscito a ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil in modo stabile aumentando il deficit. Ci provò Reagan negli Anni 80. I suoi tagli di tasse avrebbero dovuto far crescere il Pil e le entrate statali e portare a un calo del rapporto tra debito e Pil. Peccato che sotto la presidenza Reagan il rapporto aumentò di 20 punti percentuali. Ma si partiva da un livello basso: il debito aumentò dal 40 al 60 per cento del Pil. Immaginatevi se il nostro debito aumentasse dal 132 per cento del Pil, il livello attuale, al 152 per cento del Pil. In realtà non potrebbe accadere: salteremmo prima.
Si rendono conto i nostri nuovi governanti del problema? O pensano che basti riaffermare la fedeltà all’euro per far scendere lo spread? Sorge però un dubbio. Che almeno alcuni nella compagine governativa vedano l’aumento dello spread come un male inevitabile por forzare l’uscita dall’euro. Insomma, se anche l’espansione fiscale venisse presa male dai mercati finanziari, tanto meglio: renderebbe manifesto il fatto che i vincoli imposti dalla moneta unica sono per noi insostenibili e servirebbe a convincere gli incerti che l’uscita dall’euro è il minore dei mali. Insomma, un «tanto peggio, tanto meglio» in versione sovranista?
*da La Stampa, 10/06/2018