La pandemia covid-19 metterà l’Italia di fronte alla necessità di decidere se cambiare finalmente paradigma rispetto alla gestione del welfare inteso in senso lato, oppure se continuare nella gestione fallimentare di stampo novecentesco. Se si deciderà per prima opzione le disuguaglianze si ridurranno. Nel caso in cui si opterà per percorrere il sentiero, già di per sé stretto e ripido, dovremo abituarci ad una marginalità sociale crescente.
Nel secolo scorso, soprattutto durante i “trent’anni gloriosi” lavoro, reddito e stato sociale pubblico avevano garantito un’emancipazione generalizzata degli italiani che erano usciti dalla seconda guerra mondiale in povertà assoluta e si ritrovarono alle soglie della globalizzazione con una classe media ampia e diffusa. La crisi petrolifera dei primi anni settanta, gli anni dell’inflazione e dalla svalutazione competitiva permisero di vivere una fase storica di benessere generalizzato, ma senza la consapevolezza che i nodi sarebbero venuti al pettine. Dagli anni ottanta ad oggi la terziarizzazione del mercato del lavoro ha ridotto la produttività che, grazie all’industria, era stata la fonte della crescita economica nel periodo d’oro. In quegli anni l’espansione della spesa sociale, anche a fronte del mai risolto cancro dell’evasione fiscale, è proseguita soprattutto nell’ambito previdenziale.
Nel tempo l’universalismo degli altri ambiti del welfare ha ceduto il passo a una sempre maggiore frammentazione e selettività delle prestazioni. Con la sola eccezione della sanità, del socio-sanitario e dell’istruzione la distribuzione è avvenuta prevalentemente attraverso il trasferimento monetario. Detrazioni, deduzioni, bonus, contributi a pioggia garantiti dallo stato e dagli enti locali hanno generato una burocrazia asfissiante, ma anche un’incapacità crescente di valutare l’impatto delle politiche pubbliche implementate. Mano a mano che la spesa diventava insostenibile per la casse degli enti erogatori, la soluzione adottata non è stata quella della razionalizzazione rispetto all’efficacia, ma della selezione degli utenti. Nella prima fase in base al reddito dichiarato con la paradossale premiazione degli evasori, mentre nella seconda con i modelli di valutazione della capacità economica equivalente. Contemporaneamente è stata introdotta la compartecipazione, sempre selettiva, alla spesa pubblica per l’accesso alla sanità e ai servizi del socio-sanitario. In un contesto economico nel quale assistevamo ad una bassa crescita media, all’aumento del debito pubblico, ad una produttività sostanzialmente piatta, alla crescente divisione del mercato del lavoro tra garantiti e precari e alla crescita dei salari reali inesistente, le disuguaglianze non potevano che crescere anche se con andamenti diversi tra i diversi ecosistemi territoriali.
Ora siamo entrati nella più grave crisi economica e sociale degli ultimi cento anni. Ci siamo entrati in modo inaspettato e non siamo pronti ad affrontarla perché i problemi sostanzialmente irrisolti negli ultimi decenni presentano un conto non saldabile in assenza di decisioni radicali. Dobbiamo infatti considerare che stiamo spendendo soldi che non abbiamo e sui quali dovremo pagare interessi forse anche elevati e che a breve si capirà l’entità del crollo del gettito fiscale. Se le carenze del sistema sanitario sono emerse immediatamente all’inizio dell’emergenza covid-19, le altre emergeranno nei prossimi mesi perché esistono diverse disfunzioni che andranno risolte. La prima è quella funzionale attraverso la quale abbiamo uno spostamento di risorse tra i diversi rischi nell’ambito del ciclo della vita. La seconda è quella distributiva che è data da risorse scarse che si spostano tra le generazioni e i generi. La terza è quella organizzativa con lo spostamento e la ricombinazione delle risorse tra i diversi livelli di governo e con modalità conseguenti della fornitura delle prestazioni.
Dovremo necessariamente riequilibrare la spesa e renderla più efficace per arrivare laddove esiste il vero bisogno che non sarà più selettivamente verificabile, ma dovrà tronare ad essere universalistico. Il welfare occupazionale e assicurativo del Novecento andrà rapidamente ridimensionato per avviare una vera lotta alla povertà senza la quale il lavoro precario andrà ben oltre l’attuale 25% del totale. La mia proposta è quella di introdurre un reddito di base, differenziato tra gli ecosistemi territoriali in funzione del costo della vita, che garantisca a tutti un’entrata sufficiente ad ottenere un’esistenza dignitosa. Dovrebbe sostituire o integrare le attuali prestazioni monetarie ed eventualmente il salario a tutti i livelli. La spesa complessiva diminuirebbe e andrebbe investita per finanziare anche i servizi pubblici locali attraverso una riforma fiscale con la quale prevedere il pagamento di aliquote su tutti i redditi (compresi quelli da patrimonio e da investimenti finanziari) e con l’introduzione del contrasto di interessi nei consumi che sono la cartina di tornasole dell’evasione fiscale. I risparmi ottenuti con il reddito di base andrebbero investiti nel sistema della formazione di base e continua che rappresentano uno dei nodi cruciali della nostra mancanza di competitività economica e sociale. Si dovrebbe pensare ad un vero e proprio diritto soggettivo alla formazione lungo tutto l’arco della vita e quindi da garantire sia per gli occupati che per gli inoccupati. Per questi ultimi l’accesso alla qualificazione professionale dovrebbe essere il vincolo per il mantenimento del sussidio universale.
Sono sempre le grandi crisi a determinare i grandi cambiamenti. Nell’ambito del welfare questo è il momento per passare dalle parole ai fatti.
*Segretario Generale CISL Alto Adige, da Diario del lavoro 15/05/2020