Per Franco Marini sono state espresse molte belle e sincere parole. Quasi nessuna di circostanza. Le avrebbe sicuramente gradite, anche se era poco portato ad accettarle e a fare complimenti. Non sarò io a venir meno a questo stile. Ma sicuramente mi riconosco in quelle che hanno riguardato il suo contributo, dato senza risparmio di energie, per il riscatto sociale e di dignità delle lavoratrici e dei lavoratori e per il consolidamento della democrazia nel nostro Paese, in tempi difficili.
Le circostanze e le scelte personali mi hanno portato a sentirmi profondamente carnitiano e ad essere considerato tale, a prescindere. Si incomincia sempre per caso, si prosegue per condivisione, si finisce che può cascare il mondo, ma tale rimani. Con tranquillità, però, mi sono progressivamente trovato a non vivere preoccupato di definire dei “distinguo” con Marini. Quel sentimento mi accompagna da quando, in un’ Assemblea organizzativa della CISL d’inizio anni 80, Carniti teorizzò il superamento del sindacalismo conflittuale e l’avvio della stagione della concertazione. Marini prese la parola e senza mezzi termini dichiarò sepolta la lunga vicenda delle “due anime della CISL”; quella iniziata negli anni ’60 del secolo scorso e che ebbe il suo culmine nel ’69, in un infuocato Congresso dove non mancarono il lancio delle sedie e un’indiavolata orchestra di urla, fischi e applausi.
La questione che m’ intrigò per un certo tempo era comprendere come potessero conciliarsi il protagonismo autonomo ed unitario dei lavoratori nello sviluppo democratico in Italia – proprio del credo di Carniti – con il rispetto del ruolo dei partiti come modellatori degli equilibri sociali e politici, proprio della sensibilità e della cultura di Marini. Persi un sacco di tempo, perché sotto sotto cercavo di capire chi avesse dato ragione a chi. Non era soltanto un esercizio intellettuale. In gioco erano non solo gli assetti futuri della dirigenza della CISL, ma dell’intero sindacalismo confederale italiano.
I fatti mi chiarirono le idee, più che le discussioni collettive, i colloqui “one to one”, i pensamenti individuali. La grande stagione dell’affermazione della dignità del lavoro dentro e fuori i posti di lavoro, che costò molte lotte, volgeva al termine. Le conquiste erano robuste, il sindacato riscuoteva una enorme stima, unitariamente, tra gli iscritti e nell’opinione pubblica. Ma nello stesso tempo, altri eventi – come la complessa stagflation, la conseguente disoccupazione, il fenomeno drammatico del terrorismo, l’emersione della dilagante corruzione politica – si accavallavano e si intrecciavano, scombinando le tendenze lineari dello sviluppo e del quadro sociale e politico italiani.
Al sindacato toccava scegliere: ripiegare nel difensivismo o farsi portatore di un disegno complessivo del futuro del Paese. Come al solito, come la storia sindacale italiana insegna, toccò alla CISL fare la prima mossa. L’antagonismo non bastava più, aveva dato molto ma si rischiava di perdere le conquiste fatte. Bisognava esprimere un “di più” di responsabilità, che sfociava nel campo della politica, delle scelte di Governo, nella qualificazione della democrazia. La politica della concertazione aveva questo fondamento.
Carniti ma ancor più Marini compresero che questa era la strada per supportare una politica in affanno, partiti sconcertati, una classe dirigente in via di discredito per incapacità di proposta e per falcidia giudiziaria. Per Carniti era naturale proporsi come autonoma espressione della società civile. Marini condivise questa scelta, la fece propria perché vedeva nel vuoto di politica che si stava creando un vulnus del sistema democratico.
Il resto è cronaca. Occorse una certa fatica perché la concertazione divenisse scelta comune con CGIL e UIL. Soprattutto la CGIL, cha aveva il fiato sul collo del PCI, era guardinga se non riottosa. Ma non aveva altra scelta. Anche perchè la Confindustria e tutte le altre associazioni di rappresentanza delle imprese non si opposero alla strategia della concertazione.
Contrariamente a quanto è stato detto e scritto, dopo l’uscita di Carniti dalla CISL, Marini non ha avuto il ruolo di “normalizzatore”. La lezione di Pastore era ben nota ai due. L’autonomia era la stella polare dell’organizzazione, sebbene praticata con modalità e determinazione differenti – che ovviamente, pesavano nelle scelte concrete – ma che non è stata mai violata e manipolata da entrambi.
Semmai, ci si può chiedere perché Marini non ha completato il disegno del superamento delle “anime” della CISL puntando all’unità con la CGIL e la UIL. A Carniti – che dell’unità era bandiera – questo progetto non è riuscito per via del grave conflitto che il PCI impose a tutti con il referendum sulla scala mobile. Ma Marini – che pure si diede da fare per ricucire i rapporti con le altre confederazioni, subito dopo l’esito referendario – non lo assunse come obiettivo. Rimase un problema. D’altra parte, la decantazione delle ferite inferte tra i lavoratori e le lavoratrici da quel referendum fu lunga e nociva. Anche io ne porto le cicatrici.
Così, concretamente, il Marini politico risultò più unitario del Marini sindacalista. Traghettò il mondo del cattolicesimo democratico nell’abbraccio con il mondo socialista e comunista, conservandogli sempre dignità e identità. Da quell’osservatorio e dai ruoli di primo piano che assunse anche a livello istituzionale, comprese subito che la perdurante divisione sindacale indeboliva la tutela dei lavoratori. Non era pentito di non aver osato, ma era convinto che “se non si approfittasse della favorevole congiuntura storico-politica per chiudere rapidamente in avanti il capitolo dell’unità, ciò implicherebbe grave colpa a carico dei gruppi dirigenti che mancassero l’appuntamento” ( Marini, I sindacati e la bussola dell’autonomia; in Pensiero, azione, autonomia, EdizioniLavoro, 2016).
Infatti, il primato della politica – che progressivamente si impadroniva delle questioni del lavoro, spesso con leggi pasticciate e inconcludenti – ha favorito le posizioni più conservatrici, ha sbandato il giudizio dei lavoratori e ha rinchiuso il sindacato nella dimensione categoriale se non corporativa. La conseguente frantumazione politica del mondo del lavoro ha indebolito il fronte riformista nello scacchiere politico. Da queste difficoltà sarà inevitabilmente necessario ripartire, per ricostruire fiducia e speranza. Sarebbe un eccellente impegno per onorare la memoria di Franco Marini.