Che cosa faremo quando finirà (perchè prima o poi finirà) la lunga parentesi della Cassa Integrazione in deroga? Quando cioè le aziende si posizioneranno, in termini di occupazione, a un livello adeguato a rispondere a un mercato più ristretto di qualche anno fa?
Le risposte a questa domanda sono tutte caratterizzate da auspicabili propositi di riformismo forte:
a- sostituire i settori che inevitabilmente perderemo (quelli a basso valore aggiunto) con settori in cui facciano la differenza la ricerca, l’innovazione, la formazione;
b- rendere più efficaci le politiche attive del lavoro, in modo da essere capaci di offrire (previa eventuale formazione professionale) ai lavoratori in esubero un nuovo lavoro;
c- ridare competitività al sistema, agendo sulle variabili esterne alle aziende come l’efficienza della pubblica amministrazione, la durata dei processi (in particolare quelli civili), il costo dell’energia, il cuneo fiscale, ecc.
Tutte queste ricette vanno benissimo e il sindacato deve impegnarsi per realizzarle, ma hanno due difetti: primo dipendono dalla politica e disegnano pertanto un ruolo sindacale di stimolo e di concertazione, relegando la contrattazione all’attesa di “tempi migliori”; secondo hanno tempi lunghi, per molti versi incompatibili con i tempi brevi, caratteristici dell’agire sindacale.
A partire da queste considerazioni propongo due azioni che il sindacato dovrebbe mettere in campo: la prima, si richiama al ruolo di “sindacato educatore” che è faticoso e dà frutti e risultati solo in tempi lunghi, ma è indispensabile svolgere soprattutto in periodi di crisi come quello che stiamo attraversando; la seconda, è composta di due riforme contrattuali che possono essere introdotte in un primo momento dalla contrattazione aziendale, e in seguito essere generalizzate attraverso i contratti nazionali.
La prima e più difficile cosa da fare è un profondo cambio di mentalità di quelli che rappresentiamo. Bisogna passare da un modo di pensare da “dipendente” a un modo più responsabile e perciò più “partecipativo”.
In tutti questi anni abbiamo imparato che i primi a essere colpiti dalle crisi aziendali sono i lavoratori dipendenti. Quando una fabbrica o un ufficio vanno in crisi, il lavoratore rischia il suo bene più prezioso: il posto di lavoro. I profondissimi cambiamenti di scenario internazionale e le loro ripercussioni sulla competitività richiedono più coinvolgimento, più responsabilità, più partecipazione dei lavoratori al destino del loro posto di lavoro.
Occorre perciò passare da una mentalità per la quale i problemi di competitività erano “affari loro”, cioè dei datori di lavoro, a un farsi carico, con scelte responsabili, dei destini del proprio posto di lavoro. E in questo “farsi carico” il problema della competitività è al primo posto.
Questo primo punto potrà apparire a molti una delle solite prediche senza proposte operative, che lasciano il tempo che trovano. Può darsi, ma la mia ormai lunga militanza e il lavoro che svolgo da più di tre anni in CISL Lombardia mi hanno insegnato che la “mentalità” con cui i dirigenti e i lavoratori affrontano i problemi aziendali è molto importante.
Vengo ora a due proposte che, a mio avviso, possono contribuire a rendere più flessibili gli orari di lavoro e, al tempo stesso, a garantire meglio l’occupazione.
La prima è: decliniamo il monte ore annuo che un lavoratore è tenuto a fare. L’attuale, prendendo a riferimento il CCNL dei metalmeccanici, è il seguente: (365-104 giorni x 8 ore = 2088 ore – ((20 gg ferie+13gg ROL+12gg festività) x 8 ore) = 1728 ore + 200 o 250 ore di straordinario.
La seconda è: introduciamo l’orario minimo oltre quello massimo (che serve per delimitare il confine oltre il quale scatta lo straordinario).
Questo serve per due scopi:
a – dare al lavoratore la possibilità di scelta dell’orario annuo che vuole fare;
b – impegnare l’azienda a non licenziare nessuno finchè non scende (per problemi di mercato) al di sotto dell’orario minimo per tutti.
Naturalmente le maggiorazioni per il lavoro straordinario, l’orario plurisettimanale e l’intervento della CIG continuano ad avere i riferimenti di oggi.
Una possibile ipotesi è fissare l’orario minimo a 30 ore settimanali, che darebbe un’orario annuo di 1296 +150 o 186 ore di straordinario.
Si potrebbe poi affidare alla contrattazione aziendale la definizione dei diritti dei lavoratori o dei datori di lavoro in merito all’orario di lavoro, cioè sostanzialmente chi decide quando effettuare i riposi, il funzionamento della banca delle ore, il potere di “comandare” per certi picchi produttivi lo svolgimento di un orario superiore alle 40 ore ecc.
Per esempio, si potrebbe introdurre una franchigia nella banca delle ore al di sotto della quale il potere di decidere quando fare il riposo spetta al lavoratore e superata la quale la decisione spetta al datore di lavoro.
Naturalmente si pone il problema di chi “paga” questi orari ridotti. La mia ipotesi è che, in tempi di crisi, bisogna andarci cauti a richiedere la riduzione d’orario a parità di salario. Mi basta, come punto di partenza, la garanzia che le aziende non licenzino nessuno fino a trenta ore di lavoro per tutti. A partire da qui si possono prevedere varie forme di pagamento a carico delle aziende, dello Stato, dei lavoratori e contrattarle a partire da sperimentazioni nella contrattazione aziendale.
(*) Responsabile dell’Osservatorio Contrattazione della Cisl Lombardia