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L’abbaglio della riforma spagnola

In Spagna la riforma del lavoro consiste nel chiamare pere le mele, continuando a mangiare le mele. Al di là della metafora, è sicuramente un forte passo in avanti, quello fatto dai cugini iberici, considerata la situazione di arretratezza in cui si trovava il mercato del lavoro e le tipologie contrattuali, ma nulla a che vedere con lo status italiano (e la nostra legislazione) che continua a essere molto meglio sebbene necessiti di aggiustamenti. 

Partiamo dal cuore della riforma spagnola, osannata dai giornali di sinistra e grillini, nonché da ministri e politici a cui vorrei domandare se conoscono bene la nostra situazione e cosa hanno letto della riforma spagnola. 

Il secondo punto della riforma riguarda la modifica dei contratti a termine. Il nucleo si basa su quattro principi: 

a) la presunzione che il contratto di lavoro è stipulato a tempo indeterminato, recuperando la formulazione che è stata modificata dalla legislazione del 1994, di modo tale che le attività permanenti e stabili dell’impresa debbano essere coperte da un contratto a tempo indeterminato. 

b) L’apposizione del termine al contratto di lavoro è necessariamente connessa a una causa che ne giustifichi il carattere temporaneo. E può avvenire in due soli casi: per circostanze della produzione o per la sostituzione di un lavoratore, il che implica la scomparsa del contratto a termine per un lavoro o servizio specifico. 

c) la conversione in contratti a tempo indeterminato di quelli a termine stipulati senza causa, senza rispettare gli obblighi di sicurezza sociale, o in caso di contratti successivi “per lo stesso lavoro o per lavori diversi presso la stessa impresa o gruppo di imprese” per più di 18 mesi in un periodo di 24 mesi. 

d) lo spostamento del centro di gravità delle sanzioni per la violazione del principio di causalità del lavoro temporaneo verso la sanzione amministrativa per ciascuno dei lavoratori interessati. 

Questo nucleo normativo è completato da una serie di disposizioni, che riguardano anzitutto l’orientamento delle misure che possono essere stabilite nei contratti collettivi sui piani di riduzione del lavoro a termine, nonché la definizione di criteri generali relativi al rapporto tra la percentuale dei contratti temporanei e l’organico totale dell’azienda, i criteri oggettivi per la conversione dei contratti a tempo determinato in contratti stabili. È previsto, inoltre, l’impegno delle autorità pubbliche a valutare il risultato di queste misure entro tre anni per verificare i progressi fatti nella riduzione del tasso di occupazione temporanea. 

La prima considerazione è questa: se i contratti a termine diventano a tempo indeterminato ma puoi mettere comunque una data di fine rapporto per “circostanze della produzione” o ancora più grave per “sostituzione di un lavoratore” in sciopero – cosa assolutamente vietata in Italia – hai trasformato fittiziamente un contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato con una data di licenziamento. Statisticamente quel lavoratore sarà considerato a tempo indeterminato per la “cuntintizza” (direbbe la Agnello Hornby) dei giornali e politici nostrani ma nulla cambia per il lavoratore. Sarà sempre licenziato al termine del contratto. 

Il trasformismo spagnolo della tipologia contrattuale ricorda molto il lavoro intermittente e/o a chiamata che abbiamo molto contrastato come sindacato negli anni passati. Stupisce che queste similitudini ora, in Italia, piacciano a una parte di sinistra.  

Inoltre in Italia è vietato assumere a tempo determinato in caso di aziende che abbiano proceduto a licenziamenti collettivi negli ultimi sei mesi o se vi sia cassa integrazione in corso. Questo dimostra, ancora oggi, la validità della Legge 223 del 1991. Anche in Italia esiste il vincolo di contratti a tempo determinato con al massimo una durata complessiva di 24 mesi e in caso di violazione è prevista l’assunzione a tempo indeterminato. 

La riforma introduce la ultrattività dei contratti nazionali, che da noi è già vigente, e ripristina la prevalenza degli “accordi di settore” su quelli aziendali, che spesso sono peggiorativi dei contratti nazionali mentre in Italia sono migliorativi del Ccnl. 

Se poi la “cuntintizza” italica sta nell’abolizione dei tirocini ricordo che l’ultima Legge di Bilancio (2022) ha introdotto delle misure per contrastare gli abusi nell’ambito dei tirocini extracurriculari circoscrivendo, con una revisione della disciplina, l’applicazione a soggetti con difficoltà di inclusione sociale; riconoscere una congrua indennità di partecipazione; vincolare l’attivazione di nuovi tirocini all’assunzione di una quota minima di tirocinanti. Stupisce poi che venga abolito l’apprendistato mentre nel nostro Paese è uno dei punti di forza che purtroppo le aziende utilizzano ancora troppo poco, perché rimangono convenienti altre tipologie contrattuali che invece andrebbero rese più onerose economicamente. 

Oltretutto i nostri entusiasti italici, quasi tutti di sinistra, non si sono accorti che in Spagna si introduce la formazione in alternanza con lavoro retribuito; una via di mezzo tra l’apprendistato e l’alternanza scuola-lavoro che ha come obiettivo di integrare in un sistema duale l’esperienza lavorativa con la continuità scolastica. Integrazione sempre più necessaria affinché i nostri giovani studenti comprendano per e in tempo le dinamiche del mondo del lavoro completamente diverse da quello scolastico. 

Un altro pacchetto di norme contenuto nella riforma iberica è volto a valorizzare l’esperienza con gli Erte (Expedientes de Regulacion Temporal de Empleo, una specie di cassa integrazione guadagni) acquisita durante l’emergenza in prospettiva di tutela dell’occupazione in una situazione di produzione normale. La regolazione temporanea dell’occupazione attraverso la sospensione o la riduzione dell’orario di lavoro per ragioni economiche, e la creazione del cosiddetto “meccanismo Red”, si presentano come una fase preliminare rispetto alla decisione aziendale di risolvere collettivamente i contratti di lavoro, al punto che i lavoratori coinvolti non vengono considerati disoccupati secondo la nuova disposicion adicional 39a della Ley General de la Seguridad Social

Insomma, in Spagna sperimentano uno strumento che noi abbiamo da “secoli”, ovvero la cassa integrazione e la mobilità o Naspi. Prendere ad esempio una riforma del lavoro realizzata in un Paese che aveva un sistema di regolamentazione del mercato del lavoro arretrato e portarlo ad esempio per modificare il nostro sistema mi sembra una tesi sostenibile solo da chi non conosce la nostra legislazione in materia di lavoro e si limita a leggere gli articoli di giornale come fonte di aggiornamento e di competenza, limitata. Se il ministro Orlando, che guarda con interesse alla riforma spagnola, il giornalismo autoreferenziale e i nostri politici vogliono eliminare il precariato con il metodo “alla spagnola” basta fare scrivere su ogni contratto ciò che prevede il testo unico dei contratti di lavoro del giugno 2015 all’articolo 1, comma 1 e voilà il gioco è fatto! Statisticamente saranno tutti contratti a tempo indeterminato con le sue molteplici eccezioni. Ma il lavoratore nostrano come quello spagnolo rimarrà sempre un precario a esclusione per la statistica: ma le mele saranno mele e non pere. 

Sotto sotto la riforma spagnola che non supera in tutele la situazione italiana piace alla sinistra perché permette di sostenere che bisogna superare il jobs act che contiene elementi critici ben evidenziati a suo tempo dal sindacato cislino ma che complessivamente non ha peggiorato il mercato del lavoro, vedi la maggiore rigidità nel richiedere la cassa integrazione da parte dei datori di lavoro che spesso scaricavano i costi aziendali sulla collettività con qualche mese di cig. 

Per fare la riforma necessaria ai lavoratori, al nostro Paese, all’economia e per rilanciare i consumi costruendo certezze di durata lavorativa occorre semplificare le tipologie contrattuali in ingresso, eliminarne alcune, favorire la stabilità occupazionale con incentivi e disincentivare la precarietà facendola costare di più, estendere le tutele a tutti i lavoratori a partire dalla cassa integrazione ordinaria. Introdurre quindi un sistema universale, semplificato e con più certezze di lavoro stabile. 

Essenziale, per contrastare la precarietà, ridurre le percentuali di rapporto tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori atipici che oggi può raggiungere il 30% ma anche il 40% nelle interpretazioni aziendali. 

 

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