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Pensieri nella Giornata mondiale della Biodiversita’

Domenica 22 maggio si è celebrata la giornata mondiale della biodiversità.

Se diversità è ricchezza, ci stiamo avviando a passo celere e spedito verso la povertà.

Se la biodiversità misura la salute del pianeta (così come lo conosciamo e lo viviamo), ci stiamo tuffando nelle malattie.

Se la salubrità dei luoghi si misura sull’equilibrio ecologico (figlio della biodiversità) di un secolo fa, molti luoghi sono da ricoverare in terapia intensiva. 

Non sono mai stato un catastrofista, vivo solo con dispiacere e rammarico un mondo che diventa sempre più dimesso e che si imbruttisce man mano nei suoi valori ambientali e sociali. Continuiamo a vivere il peso delle lobby e a tacitarci la coscienza riempiendoci la bocca di sostenibilità, energia pulita, cibi sani.

Il pianeta ha sempre vissuto cambiamenti e modificazioni ecosistemiche importanti; tutti sappiamo che i fiordi norvegesi una volta erano valli glaciali e sono diventati mare dopo lo scioglimento dei ghiacci stessi; tutti sappiamo che l’ossigeno era un contaminatore e ora è l’invariante della vita biotica.

Di “realtà” ce ne sono state tante:  alcune non le conosciamo affatto, altre sono talmente lontane e diverse che fatichiamo perfino a immaginarle. Il massimo, almeno della mia immaginazione, arriva alla grande glaciazione e al periodo dei grandi rettili. E già questi, nella mia rappresentazione, sono fantascienza, figli di una realtà non conosciuta.

Tutti sappiamo che partecipiamo al divenire e che quindi come per “morto il re, viva il re” o “morto un papa, se ne fa un altro” anche per il mondo che conosciamo sarà “morta questa naturalità, ne vivranno un’altra”.

La nostra vita è talmente breve che sappiamo di poter vivere solo e sempre il presente.

Il massimo del futuro cui pensiamo è quello generazionale. Non proviamo vergogna quando diciamo: “che mondo lasceremo ai nostri figli”, come se rispetto al divenire del mondo il tempo potesse essere misurato in termini generazionali.

La storia del Pianeta si misura in milioni di anni, in un non-tempo, ma per fortuna i valori della relatività ci hanno insegnato che può esistere un tempo misurabile e misurato rispetto a chi lo misura e al motivo e fine della misurazione.

Allora, misurando il tempo piccolo dei secondi vediamo che la dualità è tra “godiamoci il presente così com’è” e “il futuro sarà come sarà”.

Nell’analisi del tempo percepito, le modificazioni ambientali non sono state mai così celeri; nei processi storici che conosciamo, sono state sconvolgenti ma con processi secolari o millenari. Ora i ghiacciai delle Alpi e dell’Himalaya si stanno sciogliendo in decenni, idem i ghiacciai della Groenlandia e nel nostro presente si affacciano le ricchezze minerarie finora custodite dai ghiacciai; e allora … forza sole, forza caldo e guerre diplomatiche per stabilirne le proprietà. Evviva le nuove ricchezze … ma niente ripartizioni. La corsa è all’oro, come per le Montagne Rocciose; ora la fanno lobby e governi.

Ma siamo sicuri che sia proprio così che deve funzionare il mondo, con i vantaggi dei consumi (come da tradizioni recenti), da perpetuare nel futuro prossimo? Anzi, da amplificare grazie ai futuri nuovi ritrovamenti fino ad ora sepolti dai ghiacci? Se è così, allora dobbiamo avere il coraggio di salutare con un grande evviva le modificazioni climatiche e tutti i processi che sono alla base delle modificazioni:  “Dio dell’oro, del mondo signore”.

Ma la salute nostra e del pianeta? Qui nasce la contraddizione: se vogliamo vivere bene il presente, in buona salute e non solo da ricchi, non possiamo più non riparare i guasti. A Roma direbbero “diamo almeno una romanella”, un’aggiustatina, quel tanto che serve per respirare ossigeno e non monnezza.

I dati pubblicati sullo stato della biodiversità nel nostro pianeta sono la cronaca di un disastro, che ha meno rilievo di qualsiasi evento sportivo. 

Disinteresse? Mancanza di coscienza? Forse solo mancanza di consapevolezza di ciò e per ciò che conosciamo, di tradurre l’informazione in cultura.

Come sempre è un problema culturale, di uso della conoscenza.

Entriamo nel merito dei dati. In primis e nonostante la convenzione a tutela della diversità biologica di Nairobi del 1992, le specie viventi che perdiamo sono calcolabili in migliaia.

Nonostante il fallimento del G20 di Glasgow, lo slogan di quest’anno era “Siamo parte della soluzione” (sì,  ma  fino ad ora siamo produttori del problema).

Nel Living Planet Report del WWF (2020) si dice: “Stiamo assistendo a un trend globale di perdita di biodiversità; se non modifichiamo urgentemente i nostri modelli, il declino continuerà inesorabilmente; la conseguenza sarà un severo tracollo dei sistemi naturali del Pianeta [così come li conosciamo, ndr]”.

Il discorso è semplice: la diversità biologica (la biodiversità)  è la condizione per l’incontro di specie diverse. Questo incontro, che si realizza nell’organizzazione gerarchica tra le specie e nel rispetto delle leggi della catena alimentare, garantisce la vita, il divenire dei sistemi naturali e i cicli biologici e geoclimatici, permettendo un funzionamento stabile e ripetuto dell’atmosfera, della terra e degli oceani.

Sempre secondo i dati del rapporto del WWF, negli ultimi 50 anni il 25% delle specie più vulnerabili (calcolabili in circa 93.000) rischia l’estinzione, così come il 41% degli anfibi, il 13% degli uccelli, il 7% dei pesci ossei, il 25 % dei mammiferi, il 19% dei rettili; la popolazione dei vertebrati è diminuita complessivamente del 68%.

Per il rapporto IPBES del 2019 sono a rischio di estinzione il 36% delle dicotiledoni, il 17% delle monocotiledoni, il 40% delle gimnosperme e il 16% delle pteridofite.

Uno degli indicatori più semplici (usato anche durante le passeggiate) è il numero degli insetti impollinatori:  bene, in Europa sono in via di estinzione il 9% delle specie delle api, 8,6% delle farfalle, il 18,5% dei coleotteri saproxilici.

Se pensiamo che a questi dati mancano tutti quelli che si riferiscono alla profondità degli oceani sconvolti dalla pesca a strascico e dal continuo riversamento di ogni genere di monnezza (petrolio compreso), vediamo che c’è poco da stare allegri.

E allora? Continuiamo con la politica dello struzzo?

Il pessimismo sopraggiunge quando vediamo che oggi, a fronte di una crisi di fonti energetiche, andiamo a cercare petrolio e gas in Paesi con diplomazie e classi dirigenti spesso di dubbia fiducia, invece che trovare soldi e coraggio per iniziare una politica e un’attività produttiva determinata verso lo sviluppo sostenibile. Non dico tanto, ma  vista la crisi delle fonti fossili, potremmo fare almeno questo.

Certo, lo sviluppo sostenibile non si ferma qui … ma almeno questo.

 

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