Nel dibattito antico e sempre ricorrente sul Mezzogiorno, l’Italia, invecchiata in pluridecennali frustrazioni, oggi comincia a domandarsi “Perchè il Sud non si ribella?”. La domanda e il verbo che la declina – intanto – presuppongono un soggetto che sia l’attore di una tale azione. Nel nostro caso – senza pretendere di atteggiarmi a sociologo – penso che uno dei motivi possa essere che non è unito e non ce n’è uno solo.
Nelle loro singolarità Regioni e Comuni, chiusi nelle torri di antiche rivalità e troppo intenti a coltivare giardini di gesso, hanno sempre confidato più nella colla gelatinosa dell’ammiccamento e del favore che nelle dinamiche dei mercati aperti. Eludendo integrate pianificazioni di sistema, hanno sfibrato le tante possibilità come quelle disponibili nell’agroalimentare e nel turismo dove, nel primo, cristallizzano ataviche consuetudini e l’individualismo imposto dagli intermediari, più convincenti dell’improbabile sostegno formativo e tecnico di alcune Organizzazioni professionali e dell’ evanescente funzione delle sedicenti organizzazioni di produttori. Nel Turismo il convitato di pietra è la pubblica amministrazione la cui indolenza non permette di dare il giusto valore a musei, aree archeologiche e naturalistiche. Il caso di Pompei è assurto – nostro malgrado – a paradigma di un Paese allo sbando, ma di analoghi esempi di sciatteria e abbandono son piene le “belle contrade”.
Ma vi sono anche cause indotte o aggravate dal sistema politico e istituzionale. Non si possono infatti trascurare gli effetti che sull’Italia in genere e sul Mezzogiorno ha avuto il decentramento regionale. Violentata l’ idea federalista, quel decentramento ha vanificato quella visione d’insieme che – pur con evidenti limiti – era dello Stato centrale che aveva fin lì assicurato una benefica trasfusione di risorse, intelligenze, esperienze imprenditoriali tra Nord e Sud, che era servita – tra l’altro – ad ottimizzare gli effetti dell’intesa tra l’ Agenzia pubblica della Cassa e la Banca mondiale senza dimenticare le varie iniziative di “programmazione contrattata” dei distretti industriali e delle aziende di sviluppo locali (Asi). Con l’avventura delle Regioni l’Italia si sfarinò nei localismi dove ai Politici di rango si vennero sostituendo consociativismi esattori di imposte e collettori di tangenti alle cui lusinghe non seppero resistere nè infedeli funzionari pubblici, ma neppure bravi imprenditori che – come racconta una vulgata non immaginifica – “a Bolzano o a Milano si comportavano col rigore e la precisione dei tedeschi, ma nel Mezzogiorno si esibivano in furbizie fin troppo lontane dal narrato aplomb nordico”.
Aggiungasi quel familismo al quale si deve l’avvelenamento del tessuto sociale che insinuò soprattutto nelle fibre del popolo meridionale il virus della dipendenza dallo Stato assistenziale e quello devastante della messianica attesa di improbabili, ricorrenti liberatori che ne ha irretito il protagonismo individuale e comunitario. Che dal Sud siano emigrati negli ultimi trent’anni migliaia di giovani ingegneri divenuti nel mondo leader e inventori di primo piano in aziende multinazionali di ogni settore e nelle terre di origine siano rimasti per lo più vecchi, bambini e donne costrette in agricoltura e nel terziario a contendere agli immigrati il salario della fame, oltre alla manovalanza delle mafie, dovrebbe indurre politici e istituzioni a provocare una diffusa rivoluzione culturale che, partendo da un riposizionamento sul territorio dello Stato, riconduca primamente ai fondamentali dell’educazione civica e della storia.
E’urgente, per esempio, che il Sud si liberi definitivamente dalle suggestioni indotte da alcuni sociologi che negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso contribuirono ad enfatizzare eccentrici risentimenti contro i “Piemontesi” e sterili nostalgie verso il “bel tempo antico” del Regno delle due Sicilie. Qui e ora deve essere il luogo e il tempo di questa rivoluzione la cui premessa necessaria sia il protagonismo della gente comune e di giovani ai quali fare intendere il significato e il valore etico ed economico della parabola dei talenti. Riprogrammare – attraverso l’ottimale utilizzo dei Fondi comunitari – aiuti selettivi alle imprese innovative e oneste, sostegni a giovani studenti meritevoli e intraprendenti così come alle famiglie apponendo peraltro rigorose condizioni di sostenibilità ai comportamenti di ciascuno dando titolo di privilegio ai servizi resi alla Comunità come quelli del volontariato. Rendere inoltre obbligatorio, negli anni della laurea breve, l’Erasmus affinchè la classe dirigente del domani non debba soffrire il gap delle lingue rispetto ai giovani del resto dell’Europa e del mondo. Solo riconoscendo gli ingredienti propizi al clientelismo elettorale e al delinquere contro la democrazia si può debellarli non “manu militari”, ma per via culturale.
Sia dunque ridata nobilissima missione alla scuola ed etici affidamenti agli insegnanti affinchè la censura verso l’uso strutturale del voto di scambio e contro le furbizie disoneste nasca non dal codice penale, ma dai costumi di una responsabile cittadinanza. Il futuro – ha spesso scritto Pietro Merli Brandini – appartiene a Paesi capaci di provocare una crescente integrazione sussidiaria nel divenire europeo e globale:suscitare “nuove industrie” non soltanto nei versanti del progresso tecnico (informatica e comunicazioni), ma quelle basate sulle reti e quelle agenti nella distribuzione e nel marketing.
Per concludere, nel grande guazzabuglio in cui sono finiti l’Italia e il Sud, il primo presupposto è dunque che la politica dismetta il cinismo del tirare a campare e torni a investire sui fattori culturali: studiare gli eventi e le condizioni date, analizzarne le caratteristiche, suscitare dinamiche proprie dell’organizzazione, dell’azione cooperativa e consortile e una troppo inusitata condivisione collettiva in economia, nel sociale e nella politica. Allora, alla domanda iniziale “perchè il Sud non si ribella” dovrà essere possibile rispondere “tra i tanti Sud restii ai cambiamenti oggi vi sono nella politica, nelle isituzioni, nella Chiesa, nel Sindacato e nella comunità civile
energie vive che portano in sè la forza e la voglia di ribellarsi al fatalismo”.
Sia dunque ciò la giusta condizione perchè la politica – pur obbligata a dare forte impulso alle decisioni – non sottovaluti il fatto che la partecipazione per la democrazia e la solidarietà per l’economia non sono optional, ma ne costituiscono le ineludibili fondamenta. Questo principio, sempre valido, lo è ancor di più per il nostro Sud. La storia lo dimostra: nessun sviluppo sarà mai possibile,tantomeno duraturo, se non vedrà la ribellione risanatrice come una corale adesione di popolo ai doveri, primo fra tutti quello di credere che le memorie di antiche fortune, piuttosto che indurre al rimpianto, ne debbono suscitare la voglia di volercela fare.