Da dove partire
Da quando sulla Gazzetta Ufficiale dello scorso 25 ottobre è stato pubblicato il DPR 122/2013, è diventato giuridicamente ufficiale ciò che finanziariamente era già chiaro: il blocco della contrattazione per i pubblici dipendenti, già previsto dal dl. 78/2010 fino a tutto il 2013, sarebbe stato prorogato – almeno nella sua parte economica – di un altro anno; e le recenti dichiarazioni del ministro Madia per cui i contratti potranno essere rinnovati dopo la ripresa economica confermano e forse prolungano questa fase di moratoria contrattuale.
Con la sola eccezione, non irrilevante in questa fase, di poter dar luogo “alle procedure contrattuali e negoziali per la sola parte normativa”.
Diventa quindi importante interrogarsi su come possa vivere un sistema di relazioni sindacali nel corso di quattro anni di blocco che, almeno per i primi tre non ha nemmeno dato frutti di carattere normativo e che si troverà a riprendere la strada della piena agibilità (probabilmente) solo nel 2015. E l’interrogarsi è ancora più importante se si considera che quando ha subito lo stop, la contrattazione collettiva e con essa l’intero sistema di relazioni sindacali aveva appena dovuto incassare un processo di ridimensionamento della sua funzione normativa e partecipativa ad opera del dlgs. 150/2009, perseguita lungo il doppio binario della rilegificazione di alcuni istituti e della drastica de-proceduralizzazione del potere direttivo dirigenziale.
Si tratta di fenomeni, entrambi noti, quali conseguenze dell’impatto della crisi sulle relazioni sindacali di quasi tutti i paesi europei con esperienza di relazioni industriali anche nel settore dei servizi pubblici, ma che in Italia si era pensato di poter gestire approfittando di una tecnica legislativa approssimativa adoperata nel 2009 (come buona parte dell’interpretazione giurisprudenziale ha dimostrato negli anni immediatamente successivi) e dell’imminenza del rinnovo dei contratti nazionali per il triennio 2010-2012.
Almeno fino all’emanazione dell’art.9 del dl.78/2010. E fino al fallimento del tavolo negoziale ARAN sulla revisione delle relazioni sindacali, abortito nel clima di forte concorrenzialità e sospetto che fino al 2012 ha caratterizzato i rapporti tra le principali Confederazioni rappresentative.
In questo periodo ci si è così affidati a misure tampone strappate al legislatore: che – con quello stesso art. 16 del dl 98/2011 che prevedeva la possibilità della proroga del blocco – lasciava aperta la finestra dei piani di razionalizzazione triennali per incrementare un fondo per il salario accessorio anch’esso congelato al valore del 2010; e che con il dl. 95/2012 ripristinava, almeno nei casi di gestione degli esuberi susseguenti alle misure di ridimensionamento degli organici, l’istituto partecipativo dell’esame congiunto, in alternativa alla più invasiva concertazione e accanto all’informazione.
Un insieme di vicende, quelle appena descritte, che di fatto hanno profondamente modificato il modello e la struttura stessa delle relazioni sindacali nel settore del lavoro pubblico, focalizzando l’attenzione sul livello integrativo che è destinato ad operare anche in assenza di un quadro di riferimento nazionale o, bene che vada, in presenza di un quadro nazionale non più idoneo a garantirne una funzionale e fruttuosa operatività nella nuova situazione che si è venuta a creare.
Un quadro che si complica (anche in Europa)
Un fenomeno, quello del decentramento della contrattazione, non nuovo nel panorama delle relazioni industriali, ma che almeno nel nostro paese (e in quelli caratterizzati da un modello bipolare di relazioni industriali, e/o nel settore pubblico da un sistema amministrativo fortemente giuridificato) avevamo imparato a studiare come opportunità conseguente a cicli economici positivi e comunque in raccordo col ruolo principale svolto dal contratto nazionale; ma che, invece, negli anni recenti la globalizzazione della concorrenza nel settore privato e le politiche di fiscal compact (rafforzate col Trattato del 2012) in quello pubblico ci hanno fatto capire essere processo diverso nel quale al contratto nazionale va forse affidato il ruolo di facilitatore, piuttosto che quello di regolatore, del secondo livello. Per effetto della crisi, quindi, il decentramento della contrattazione diventa un trend comune nei paesi dell’Unione anche per il settore pubblico
O, anche possiamo dire almeno in questa fase, che la centralizzazione della contrattazione economica è stata sostituita direttamente dalla legge, dato il prioritario interesse dello Stato a rafforzare la propria influenza e il proprio controllo sui processi di formazione dei costi. In questo senso accentramento e unilateralità della decisione finanziaria si sono estese alla dimensione retributiva delle relazioni sindacali del settore, con un (almeno per ora e ancora) limitato spazio d’azione per il secondo livello, ma soprattutto con un forte interrogativo sul se l’attuale modello sia in grado di offrire risposte di tutela e di rigore ai lavoratori e agli utenti dei servizi pubblici.
Anche perché nel frattempo la legislazione si va arricchendo con provvedimenti che, pur se indirettamente, impattano sul modello di relazioni industriali modificando i modelli di proceduralizzazione degli ambiti decisionali sulle risorse economiche. Si fa qui accenno – che approfondiremo in seguito – in primo luogo alla legislazione sulla trasparenza che va considerata presupposto necessario della partecipazione e che non va considerata un surrogato anomalo dell’informazione propria del modello di relazioni sindacali solo perché prevista in un ambito più ampio di quel modello e con funzione diversa. L’obbligo di trasparenza, infatti, non è octroyée (concesso dal sovrano), ma presupposto di un modello politico-sociale basato sul “pluralismo democratico” che è lo stesso humus di cui si nutrono le relazioni sindacali; con la sola differenza, che le forme partecipative storicamente sperimentate nel settore pubblico si indirizzano al potere organizzativo-gestionale datoriale e mirano a proceduralizzarlo, mentre il presidio delle aree sottoposte a trasparenza si indirizza direttamente all’esercizio del potere economico finanziario delle amministrazioni. In questo senso, la trasparenza in abbinamento con la partecipazione realizzano a pieno il dato essenziale e imprescindibile della società pluralista, quale società che ammette e valorizza “l’apporto dei gruppi organizzati nella rappresentanza degli interessi, nella composizione e risoluzione delle controversie economiche, nelle decisioni di governo in tema di politiche economiche e sociali” .
E, anche nel panorama europeo e dei paesi OCSE, mentre si moltiplicano le misure per garantire trasparenza e partecipazione sociale degli utenti, si assiste ad una armonizzazione al ribasso delle garanzie individuali e collettive del lavoro, soprattutto nei Paesi sotto osservazione da parte delle istituzioni economiche e finanziarie comunitarie. In questo contesto, il coinvolgimento sindacale rischia di essere relegato al ruolo di ammortizzatore sociale per scaricare la responsabilità delle scelte di austerità sulla contrattazione.
Appare quindi chiaro che lo spazio occupato dalle relazioni sindacali non possa più essere quello collocato a valle delle decisioni di allocazione delle risorse, ma debba anticiparsi al momento della decisione finanziaria, instaurando una vera stagione di fisiologia della partecipazione.
Anche perché si diffondono ispezioni da parte del MEF, soprattutto nel comparto delle autonomie locali, sulla gestione dei bilanci che, laddove ritengono di individuare motivi di illegittima costituzione e utilizzo dei fondi per la retribuzione accessoria attivano l’iniziativa delle Procure regionali della Corte dei conti con ricadute non solo sulle soluzioni contrattuali adottate anche in anni remoti, ma anche sulla stessa propensione a negoziare da parte delle delegazioni trattanti coinvolte direttamente in procedimenti di responsabilità per “danno erariale da contrattazione”.
A questo proposito va detto, prendendo spunto da alcune ipotesi di illecito prospettate negli atti delle Procure, che l’attribuzione di una responsabilità erariale anche alla rappresentanza di tutela del lavoro, se basata sulla qualifica di pubblico dipendente del sindacalista firmatario offre il fianco a una critica di sistema. Infatti, con questa pretesa si snatura l’essenza del sindacato come espressione di autonomia privata e si riconduce l’esperienza collettiva all’espressione di una funzione pubblicistica, innestando una deriva nella quale si confonde potere politico, potere organizzativo, autonomia collettiva e, qualora si ecceda, anche posizione di subordinazione.
In effetti, le ricadute maggiori delle vicende ricordate e delle disposizioni che analizzeremo si registrano proprio sul comparto delle autonomie, coinvolto più di qualunque altro (con qualche analogia con quello della sanità) in un riordino istituzionale (costituzionale?), amministrativo, organizzativo e gestionale, fortemente influenzato da ragioni finanziarie, del tutto originale nella nostra esperienza e che, giungendo in un periodo di crisi finanziaria ed economica che azzera ogni risorsa incentivante (per tutti gli attori del riassetto), punta essenzialmente sul vincolo (giuridico e finanziario), sulla responsabilità (prevalentemente intesa come colpa) e sul controllo. Tutti parametri antitetici a quelli che avevano ispirato la riforma del 1993 e che richiamavano i valori (sociali ed organizzativi) dell’autonomia, della responsabilità (prevalentemente intesa come consapevolezza) e del confronto (considerato ontologicamente costruttivo).
Legge senza contratto?
Per le relazioni sindacali il clima cambia fin dal d.l. 112/2008; ne è termometro il mutato ruolo riconosciuto alla Corte dei conti sia nelle procedure autorizzative della contrattazione nazionale, sia, con una rafforzata integrazione con la funzione ispettiva degli organi del MEF, in quelle di controllo della contrattazione di secondo livello. Tutte innovazioni poi stabilizzate e ricondotte a sistema con le modifiche al d.lgs. 165/2001 apportate dal d.lgs. 150/2009.
Un livello, quello integrativo, sottoposto a maggior controllo ma mai bloccato. Lo stesso d.l. 78/2010, infatti, al primo comma dell’art. 9 blocca la contrattazione retributiva nazionale, ma al comma 2bis si limita a congelare l’ammontare dei fondi della retribuzione accessoria; e il d.l. 98/2011 all’art. 16 preannunzia la proroga del blocco dei contratti nazionali, ma apre alla contrattazione integrativa lo spiraglio dei piani di razionalizzazione.
Nella stessa scia, il dl 95/2012, a Fiscal compact ormai vigente e costituzionalmente innescato con le modifiche apportate agli art. 81, 97, 117 e 119 dalla legge costituzionale n. 1 dell’aprile 2012, rafforza il modello partecipativo in caso di esubero conseguente alle riduzioni di organico (art. 2) e allenta la pressione delle tensioni sul sistema premiante della performance (art. 5) per facilitarne un utilizzo condiviso da tutte le componenti sindacali e più coerente con la funzione innovativa rispetto al modello introdotto dagli artt. 19 e seguenti del d.lgs. 150.
Nel nuovo clima di austerità – che nel nostro paese significa fare i conti con un debito pubblico che supera i 2.000 miliardi di euro pari a oltre il 133% del PIL e un deficit pubblico ancora in instabile equilibrio al 3% del PIL – una lettura del modello di relazioni sindacali previsto dai contratti nazionali vigenti (2006-2009, ma sostanzialmente ereditato dal decennio precedente), rende evidente la impossibilità di incidere sugli attuali problemi delle amministrazioni, quant’anche recuperasse in toto il brio e il fulgore precedente all’intento mortificatore cui lo aveva voluto sottoporre la legislazione del 2009, e che seppure in modo più indiretto traspare anche dai recenti provvedimenti quali il d.l 90/2014 (attualmente in fase di conversione) e il disegno di legge dal titolo “Riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, proprio in questi giorni in fase di bolli natura e invio al Parlamento.
Il modello in vigore fino al 2009 parte dal presupposto di un miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia dell’organizzazione in una condizione di (seppur ridotte) risorse finanziarie disponibili e nella quale il confronto tra rappresentanza del lavoro e dell’amministrazione si gioca sull’asse della miglior tutela col minimo spreco. In altri termini, la critica rivolta a quelle politiche organizzative – la cui traccia si ritrova in tutte le relazioni ispettive del MEF – è di aver utilizzato le risorse in modo incoerente con il miglioramento dell’organizzazione e, in qualche caso, di averne utilizzate più di quelle disponibili per il fondo (ma comunque disponibili anche se dovevano essere attribuite al bilancio). Anche se non rientra nell’economia di queste considerazioni, diciamo subito che non tutte le critiche ispettive appaiono condivisibili; per esempio: non quelle che fanno ricadere sul lavoro anche errori esclusivamente politico-organizzativi (come nel caso di costituzione del fondo), non quelle che valutano il pregresso sulla base di norme cambiate o rese più cogenti ed esplicite solo in seguito; non quelle che sembrano dare dell’organizzazione una lettura esclusivamente finanziaria.
Ma quale che sia la posizione che si vuole assumere nei confronti di queste vicende, è certo che, nel nuovo quadro di austerità, il problema delle nuove relazioni sindacali non è più quello di decidere la modalità equa e ottimale di utilizzare le risorse, ma prioritariamente quello di individuare sacche di spesa improduttiva il cui risanamento possa costituire il finanziamento dell’azione di rappresentanza.
Come ho detto in altra occasione,questo non significa arrendersi a un destino di funzionalizzazione ope legis della contrattazione collettiva e della partecipazione sindacale, quanto piuttosto che, proprio a salvaguardia dell’autonomia e della libertà del soggetto sindacale, l’esperienza di rappresentanza dovrà cimentarsi su terreni che si collocano a monte e non più a valle delle decisioni finanziarie delle amministrazioni e con strumenti ed alleanze che abbandonino la gestione domestica del confronto e che integrino la tutela del lavoro (ricerca delle risorse) con quella sociale (eliminazione della spesa improduttiva e degli sprechi).
In questo passaggio non bisogna essere schizzinosi, né nostalgici. Non può esserlo la dottrina giuridica (soprattutto lavoristica) rimpiangendo un glorioso passato di autosufficienza delle relazioni sindacali nel definire le proprie regole; non può esserlo il mondo delle amministrazioni che nella doppia componente politica e dirigenziale sanno che nel passato hanno avuto il compito facilitato proprio dal fatto di poter scaricare i maggiori oneri proprio sulla spesa e sul debito; non può esserlo il sindacato che deve essere oramai pronto e consapevole nel fare autocritica per alcuni eccessi consumati soprattutto e proprio al secondo livello di contrattazione. Tutti nodi che come era presumibile prima o poi sarebbero venuti al pettine.
In una ricognizione della legislazione “nell’austerità” che non ha effetti diretti sulle relazioni sindacali, né è ad esse immediatamente riconducibile, si nota subito come si sia innalzato il livello di insofferenza sociale verso episodi o situazioni di sperpero delle risorse pubbliche.
È senz’altro deprimente che tale innalzamento si sia verificato per ragioni di cassa e non di etica sociale; ma con la fiducia che quest’ultima se non motivazione, diventi comunque meta dell’azione legislativa, notiamo come la legislazione degli ultimi anni abbia abbandonato ogni strumentazione persuasiva soft ed abbia accentuato quella del vincolo e della visibilità, privilegiando e rafforzando percorsi di trasparenza e di accesso (accountability) nei confronti delle amministrazioni e dei suoi decisori.
Una visibilità, maggiormente (ma non solo) perseguita nei comparti delle autonomie territoriali e della sanità: entrambi da considerare come “ambienti sensibili” dal punto di vista finanziario per la maggiore prossimità ai servizi erogati direttamente agli utenti e per il maggior peso che hanno sul bilancio pubblico e, in quanto tali, destinati ad alimentare maggiori aspettative sul fronte del risanamento della spesa e dell’etica.
Partecipazione sociale e partecipazione sindacale
La stagione dell’acceso agli atti amministrativi, vero prodromo della stagione della trasparenza, inaugurata con la legge 241/1990, nel corso degli anni almeno sotto il profilo normativo, si è ampliata e ramificata: dapprima, nella seconda metà degli anni ‘90 prevedendo il coinvolgimento delle rappresentanze degli utenti nella definizione delle carte dei servizi e poi, soprattutto con l’avvento e lo sviluppo dell’informatica, attivando strumenti di misurazione di customer satisfaction che però scarso impatto hanno avuto sulla riorganizzazione della maggior parte delle amministrazioni pubbliche, se non in via risarcitoria per il mezzo delle procedure di class action previste dall’art. 49 della legge 23 luglio 2009 n. 99 che ha inserito nel c.d. “codice del consumo” (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206) l’art. 140bis.
Si tratta di un filone normativo coevo ma parallelo a quello della contrattualizzazione del lavoro pubblico i cui capisaldi (separazione delle responsabilità tra politica e amministrazione, potere dirigenziale di diritto privato, unificazione delle regole tra pubblico e privato, contrattazione collettiva e partecipazione sindacale) intendevano perseguire ugualmente obiettivi di miglioramento dei servizi.
Sarà certamente perché il disegno riformatore non ha avuto la necessaria implementazione o perché non sempre nella sua evoluzione è stato coerente con la impostazione ideale, sta di fatto che non si è riusciti a modificare i comportamenti degli attori coinvolti e a rendere gli interessi perseguiti non conflittuali con i valori proclamati.
O, forse, è stato perché i due percorsi hanno vissuto ognuno nutrendosi di una propria pretesa di autosufficienza se si esclude la (a mio parere) limitata funzione riparatrice prevista in via giudiziaria dal d.lgs. 198/2009. Insomma, ribadisco qui una mia convinzione espressa da tempo: i servizi migliorano solo con un’alleanza tra erogatori e consumatori, senza confondere strumenti e interessi, ma integrando aspettative e valori.
La carenza strutturale di risorse economiche può forse avvicinare i due schieramenti di rappresentanza. È infatti vero che la quota di partecipazione che permea ogni società pluralista non si è dispersa ma, per così dire, si è spostata dalla rappresentanza del lavoro a vantaggio della rappresentanza sociale.
L’intuizione di instaurare un obbligo di trasparenza, che la legge 15/2009 e poi il d.lgs. 150/2009 avevano coniugato in una riduttiva prospettiva esclusivamente interna alla struttura organizzativa e riferita ad aspetti sensibili del trattamento economico e normativo, di li a poco si intreccia con una legislazione anticorruzione promossa anche sulla scia dell’allarme suscitato da studi OCSE che stimavano il peso della corruzione in Italia (in questa classifica, terzo paese nella graduatoria OCSE) intorno al 3,8% del Pil a fronte di una media europea che si aggirava intorno all’1%.
Da quella stessa stagione legislativa, coerente al binomio sanzione-premio che la caratterizza, nasce su delega prevista dalla legge sul federalismo fiscale (42/2009) il d.lgs. 149/2011 che prevede sanzioni economiche e politiche per il Presidente della Giunta regionale, provinciale e del sindaco (incandidabilità), i revisori dei conti (interdizione da cariche pubbliche) nelle ipotesi di mancato rispetto formale (predisposizione di relazioni di inizio e fine mandato) e sostanziale (ipotesi di dissesto e mancato rispetto del patto di stabilità dei vincoli di bilancio) dei vincoli di bilancio. Una legislazione che, sul piano dei controlli strutturali sul bilancio delle autonomie locali si completa con il d.l. 174/2012.
Ciò che si ricava da questa legislazione è l’attenzione riservata alla fase pre-organizzativa di allocazione delle risorse finanziarie, dalla quale già deriva la responsabilità politica e alla quale è ricondotta anche la responsabilità gestionale visto che va comunque garantita – attraverso controlli, premi e sanzioni – la chiusura finanziaria del pareggio di bilancio.
Esplicitamente riferita alla lotta anticorruzione è la legge 190/2012 che ribadendo un concetto già espresso dall’art. 11 del d.lgs. 150/2009 specifica che “la trasparenza dell’attività amministrativa, che costituisce livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili ai sensi dell’articolo 117, (…) è assicurata mediante la pubblicazione, nei siti web istituzionali delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni relative ai procedimenti amministrativi, secondo criteri di facile accessibilità, completezza e semplicità di consultazione, ….”, e aggiunge che “nei siti web istituzionali delle amministrazioni pubbliche sono pubblicati anche i relativi bilanci e conti consuntivi, nonché i costi unitari di realizzazione delle opere pubbliche e di produzione dei servizi erogati ai cittadini. Le informazioni sui costi sono pubblicate sulla base di uno schema tipo redatto dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, che ne cura altresì la raccolta e la pubblicazione nel proprio sito web istituzionale al fine di consentirne una agevole comparazione”.
La costituzionalizzazione del principio di trasparenza, da garantire con criteri di completezza, semplicità e accessibilità su aspetti di bilancio, di costo e di procedimento fornisce una base di informazione molto più ampia e, per così dire, strutturale rispetto a quella fino a questo momento garantita dal sistema di relazioni sindacali, comprese le materie inserite nella modalità di confronto dell’esame congiunto. E i criteri da garantire sono gli stessi da sempre elaborati dalla giurisprudenza per definirne quelli da assicurare alle rappresentanze sindacali.
Ma qui occorre essere chiari sul fatto che la trasparenza per non essere svuotata di contenuto non va confusa con la pubblicità o con il diritto all’accesso, che invece vanno considerati elementi strumentali all’effettività del principio di trasparenza. Strettamente collegato al concetto di trasparenza è peraltro quello di accountability intesa come “definizione specifica e trasparente dei risultati attesi che formano le aspettative, su cui la responsabilità stessa si basa e sarà valutata” (Treccani); anche perché, come opportunamente segnalato, “in presenza di azioni rigorose di contenimento delle spese è necessario avere il massimo di accountability per la condivisione delle scelte e per dimostrare un equilibrio d’intervento rispetto alle differenti categorie sociali; la riduzione del debito richiede accountability per capire dove intervenire e per giustificare le scelte di fronte all’opinione pubblica”.
E se poi si considera che la mancata o incompleta pubblicazione delle informazioni “costituisce violazione degli standard qualitativi ed economici” da far valere innanzi al giudice con la procedura di garanzia dell’efficienza delle amministrazioni (d.lgs. 198/2009) e da sanzionare per responsabilità dirigenziale ex art.21 del d.lgs. 165/2001, appare chiaro come una rappresentanza di interessi collettivi possa disporre di informazioni e percorsi di tutela ulteriori (e per qualche verso rafforzati) rispetto a quelli previsti dalla normativa prettamente sindacale. A condizione di volerli e saperli utilizzare, senza – come detto prima – volersi limitare a lamentare solo il tempo antico perduto.
Dalla legge 190/2012 è derivato il d.lgs. 33/2013 che specifica tutti gli obblighi di trasparenza. L’analisi della struttura delle informazioni che le amministrazioni sono obbligate a fornire secondo i criteri di accessibilità, semplicità e completezza evidenzia ambiti e costi riferiti all’organizzazione, al personale (compresi consulenti e collaboratori), agli enti controllati, ai contratti, sovvenzioni e vantaggi economici comunque concessi, ai procedimenti e ai provvedimenti, ai bilanci e ai rilievi operati dagli organi di controllo, ai servizi e alle opere.
Tutte informazioni fondamentali per una conoscenza della situazione finanziaria e patrimoniale dell’amministrazione e dell’utilizzo delle relative risorse (cfr. in forma sintetica Allegato 1).
Un quadro molto più articolato e completo rispetto alle informazioni dovute alle organizzazioni sindacali, anche considerando intatto il sistema di relazioni sindacali dei CCNL (cfr. una razionalizzazione in forma sintetica Allegato 2) vigenti; e che possono consentire un’analisi di costi, obiettivi, procedure, organizzazione e che sono peraltro assistite da un sistema sanzionatorio che si riferisce sia alla componente politica sia a quella dirigenziale dell’amministrazione (cfr. in forma sintetica l’Allegato 3); da accostare eventualmente e se ne ricorrano i presupposti, alla fattispecie tipica delle relazioni industriali della “condotta antisindacale”
Un pezzo di strada insieme
A questo punto, l’habitat nel quale far maturare l’esperienza dei piani di razionalizzazione previsti dall’art. 16 del d.l. 98/2011 è molto meno arido di quanto possa essere apparso ad una prima osservazione. Secondo i commi quattro e cinque di quest’articolo, infatti: “le amministrazioni possono adottare … ogni anno piani triennali di razionalizzazione e riqualificazione della spesa, di riordino e ristrutturazione amministrativa, di semplificazione e digitalizzazione, di riduzione dei costi della politica e di funzionamento, ivi compresi gli appalti di servizio, gli affidamenti alle partecipate e il ricorso alle consulenze attraverso persone giuridiche. Detti piani indicano la spesa sostenuta a legislazione vigente per ciascuna delle voci di spesa interessate e i correlati obiettivi in termini fisici e finanziari”.
È evidente lo stretto nesso che può instaurarsi tra informazioni sottoposte a obbligo di trasparenza e base di conoscenze utili per la redazione o la valutazione dei piani predisposti dalle amministrazioni.
Secondo lo stesso articolo, peraltro, “le eventuali economie aggiuntive effettivamente realizzate rispetto a quelle già previste dalla normativa vigente, possono essere utilizzate annualmente, nell’importo massimo del 50 per cento, per la contrattazione integrativa, di cui il 50 per cento destinato alla erogazione dei premi previsti dall’articolo 19 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150”.
Unica fattispecie riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte dei conti come utile per incrementare i fondi per la retribuzione accessoria rispetto all’ammontare congelato dal comma 2bis dell’art. 9 del d.l. 98/2010.
Un possibile banco di prova potrebbe a breve essere offerto dalla implementazione della riforma delle autonomie territoriali, al momento in cui scrivo in discussione in Parlamento; se e quando questo progetto vedrà la luce, sarà necessario definire in una prospettiva di sostenibilità finanziaria e efficacia dell’intervento pubblico l’allocazione delle funzioni tra comuni, unioni di comuni o in convenzione e amministrazioni di area vasta.
Per non restare schiavi dei campanilismi, ma nemmeno della lotta sterile al legame con la comunità territoriale, sarà necessario valutare i costi di produzione ed erogazione attuali e i possibili vantaggi in termini di economie di scala da perseguire con ambiti territoriali più estesi, non negando a priori nemmeno la possibilità di una dislocazione delle funzioni secondo schemi a geometria variabile che ottimizzino le caratteristiche del territorio.
Qualche altro strumento di lavoro è disponibile o potrà esserlo a breve. Si tratta dei “fabbisogni standard e dei costi standard per gli enti territoriali previsti dal del d.lgs. 216/2010 e che almeno per i comuni e in parte per la sanità sono in fase di (sembra) avanzata elaborazione, seppure con qualche incidente di percorso. In queste elaborazioni, sono utilizzate molteplici varianti, anche di tipo ambientale, per ricavare il costo delle diverse funzioni per ogni amministrazione o aggregato istituzionale o amministrativo di ente; utilizzando questa metodologia, con eventuali opportuni aggiustamenti, potrebbe essere possibile ipotizzare gli assetti ottimali delle amministrazioni ai fini della sostenibilità finanziaria dell’allocazione delle funzioni. Da queste scelte possono dipendere in modo diretto le esigenze contrattuali del personale, aggiungendo nel concreto e fuori da modelli rigidi di riferimento, altre “materie” al sistema di relazioni sindacali da costruire.
In questo processo, analisi dell’ambiente (struttura produttiva del territorio, caratteristiche geografiche, …) e dell’organizzazione (strutture, costi, personale, situazione finanziaria delle amministrazioni coinvolte o coinvolgibili) sono indispensabili per definire assetti che poi avranno conseguenze anche sul rapporto di lavoro dei dipendenti in termini di professionalità (posseduta o da formare), orario, dislocazione della sede lavorativa (mobilità), etc.
Pensare di poter svolgere questa funzione con l’armamentario dell’attuale sistema di relazioni sindacali (ripeto, fosse anche riportato all’antico splendore) è illusorio; pensare di tutelare il lavoro senza governare le conoscenze della struttura finanziaria e organizzativa delle amministrazioni è semplicistico; pensare che tutto ciò possa essere fatto senza alleanze sul territorio con i soggetti collettivi portatori degli interessi sociali rischia di essere miope.
Soprattutto pensare di poter presidiare questo complesso di tematiche senza il rafforzamento del secondo livello di contrattazione è impossibile. Considerando anche che il mondo dell’associazionismo dei consumatori non è fermo nel ricercare e rafforzare un proprio ruolo di interlocuzione con le amministrazioni ai fini di individuare “principi ed elementi minimi da inserire nei contratti di servizio e nelle carte di qualità dei servizi pubblici locali, con particolare riferimento al ruolo delle associazioni dei consumatori”.
L’Accordo 26 settembre 2013 siglato in sede di conferenza Unificata Stato-Regioni-Comuni con il Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti è emblematico di un fermento legittimo di richiesta di partecipazione per la definizione di standard minimi di qualità dei servizi; e che se non viene valorizzato (e non strumentalizzato) come alleanza “a favore”, rischia di ribaltarsi come alleanza “contro”, asservita alla semplicistica polemica sui privilegi del pubblico
Il ruolo del contratto
Sintetizzando quanto fin qui detto e giungendo a quanto un contratto collettivo nazionale possa fare in una logica di ammodernamento dell’intero sistema di relazioni sindacali, possiamo dire che il nuovo panorama è costruito su tre principali pilastri:
- a.Il pilastro della progettualità sociale. La preoccupante situazione e la necessità di individuare una via d’uscita che non deprima l’economia e ponga le basi per l’avvio dello sviluppo nei tempi più rapidi possibili e con effetti positivi richiede una condivisione delle misure che coinvolga ad ogni livello rappresentanti di interessi economici, sociali e del lavoro. Al livello nazionale si tratta di decidere le politiche e le funzioni strutturalmente indispensabili per il rilancio dell’economia, dell’occupazione, del benessere sociale anche per ristabilire una trama di relazioni di fiducia che consolidando la convivenza civile sia essa stessa garanzia di risultati positivi. In via del tutto indicativa, ma per marcare la necessità che si individuino poche politiche sulle quali convogliare gli sforzi di riorganizzazione anche delle amministrazioni, indico quali politiche da privilegiare le politiche industriali e di sostegno alle aziende, le politiche del lavoro e della formazione compreso il sistema scolastico, le politiche della salute e dell’assistenza: le prime per rilanciare l’economia, le seconde per rilanciare un’occupazione qualificata, le terze per far fronte ad esigenze di welfare che soprattutto riguardano i soggetti deboli ed anziani. Su queste politiche, si può attivare un “tavolo progettuale” tra organizzazioni dei lavoratori, degli imprenditori e del sociale organizzato che, a livello nazionale, proponga misure da attivare e proposte di riorganizzazione delle istituzioni amministrative centrali coinvolte, anche se responsabili di una funzione di coordinamento, che, nel rispetto dei vincoli di bilancio, qualifichino i risparmi da perseguire e la spesa da sostenere. Si tratta di individuare priorità condivise e socialmente aggreganti che in quanto tali dispongano del sufficiente e necessario consenso sociale per costituire la base del confronto tra società civile e mondo politico.
- b.Il pilastro della razionalizzazione locale. La stessa logica deve guidare l’azione anche a livello territoriale. In questa prospettiva, il “servizio” e il “territorio” diventano i punti di riferimento della riorganizzazione e della razionalizzazione della spesa resa selettiva e del riassetto istituzionale delle amministrazioni dall’esplicitazione degli obiettivi da perseguire e, di conseguenza, già di per sé in buona parte finalizzabile a far partire la crescita. Ma perché l’esplicitazione della domanda sia funzionalmente e localmente individuata, è necessario un processo di alleanze sociali, del quale si faccia carico “con spirito professionale di utilità collettiva” il sindacato dei lavoratori pubblici in modo da garantire la trasparenza, la fattibilità e la partecipazione al processo decisionale; in cambio, i lavoratori pubblici possono richiedere professionalità e riconoscimenti anche retributivi non solo giustificati dall’organizzazione ma anche socialmente legittimati, uscendo fuori dall’angolo del discredito nel quale sono spesso stati stretti.
- c.Il pilastro della trasparenza anche in una dimensione anticorruzione. Nell’area OCSE, i Paesi stanno agendo per riconquistare la fiducia dell`opinione pubblica, attraverso una maggiore diffusione di informazioni e dati relativi alla pubblica amministrazione. Le leggi sulla libertà d’informazione sono un pilastro portante di un’amministrazione aperta, ne promuovono la trasparenza e la responsabilità e favoriscono una partecipazione consapevole al processo decisionale. Attualmente, in quasi tutti i Paesi OCSE vigono delle normative che garantiscono i diritti d’accesso alle informazioni. Nella maggior parte dei Paesi OCSE tali legislazioni si applicano sia verticalmente – a tutti i livelli di governo – che orizzontalmente – ovvero ai poteri legislativo, giudiziario ed esecutivo. Inoltre, tutti i Paesi OCSE hanno adottato una politica di anticipo nel rendere pubbliche le informazioni concernenti la P.A.; tali informazioni comprendono documenti di bilancio, relazioni ministeriali annuali e relazioni di controllo e, in un numero ristretto di Paesi, gli elenchi dei dipendenti pubblici e i relativi stipendi. Nell’area OCSE si riscontra una crescente tendenza nel rendere disponibili al pubblico i dati amministrativi, che quindi possono essere riutilizzati da terzi, promuovendo l’innovazione in questo campo.
Nel panorama delineato non è indifferente l’opportunità riconosciuta di procedere ad un rinnovo contrattuale per quanto solo normativo. Oltre a cambiare il proprio ruolo rispetto al secondo livello, consentendo spazi normativi di adeguamento (bisogna ricordare infatti che nel settore pubblico il secondo livello è sottoposto per legge a un maggior controllo da parte del livello nazionale) è necessario aggiornare alcuni importanti istituti per creare quella capacità di presidiare il cambiamento del quale si è detto.
E’ chiaro che la prima modifica riguarda il sistema partecipativo facilitato e in parte anticipato dagli obblighi di trasparenza. Ritengo che si possa dare per assolto l’obbligo di informazione e che su alcuni temi (appalti, esternalizzazioni, costo delle funzioni e verifica della possibilità di organizzarle in modo congiunto con altre amministrazioni, …….; profili professionali, riqualificazione e aggiornamento, metodologie di lavoro alternative (telelavoro?), tipologie contrattuali (tempo determinato, somministrazione, apprendistato); procedure di semplificazione, …) si debbano costruire possibilità di esame congiunto.
In questo contesto va valorizzato, proprio attraverso l’esame, l’apporto partecipativo ai piani di razionalizzazione ex art. 16 del d.lgs. 98/2011, soprattutto prevedendo che in questa direzione, il percorso di integrazione delle risorse dei fondi deve essere ampliato a tutte le possibili forme di razionalizzazione: di processo, di costo, di organizzazione, rendendo vincolante l’esame del piano anche su proposta sindacale, soprattutto se riferito a ipotesi di internalizzazione e/o di integrazione tra amministrazioni. Ancora allo scopo di valorizzare ogni strumento partecipativo di eliminazione della spesa improduttiva, è opportuno che i piani di razionalizzazione siano incentivati anche nel contratto delle aree dirigenziali, valorizzando il ruolo dei dirigenti in termini di valutazione positiva, attraverso un elemento di proporzionalità rispetto alla percentuale di risparmio ottenuto in caso di adozione dei piani triennali; che siano particolarmente riconosciuti i piani che coinvolgono più amministrazioni in una logica di razionalizzazione e risparmio nell’organizzazione del servizio erogato congiuntamente, e i piani miranti a garantire trasparenza e legalità sia nella gestione delle esternalizzazioni che in quella degli appalti, cioè in ambiti che storicamente hanno nascosto irregolarità ed aumento della spesa, incidendo negativamente sulla funzionalità delle amministrazioni.
A queste caratteristiche della contrattazione di secondo livello devono essere legate forme di decontribuzione e defiscalizzazione della retribuzione accessoria che, sul modello di quanto già avviene nel settore privato, diano maggiore valore anche economico al complesso della retribuzione e contribuiscano, per quanto possibile, alla ripresa dei consumi e dell’economia.
A questa riconsiderazione strutturale (partecipativa e contrattuale) del sistema di relazioni sindacali si devono aggiungere ammodernamenti di alcuni istituti quali sinteticamente:
- –l’inquadramento, consentendo l’individuazione di profili ampi al secondo livello e liberando di conseguenza l’assetto professionale dalle declaratorie di profilo;
- –le progressioni orizzontali, collegandole esclusivamente a processi di riqualificazione, mobilità o nuovi profili soprattutto in organizzazioni che coinvolgano più amministrazioni;
- –la formazione, rendendola obbligatoria per ogni spostamento o mutamento di profilo e coinvolgendo le risorse delle amministrazioni interessate; valutando inoltre ipotesi di formazione territoriale con l’apporto congiunto delle amministrazioni del territorio a fini comuni;
- –i criteri per la mobilità, sia perché va completata la normativa lacunosa delle leggi vigenti, sia per verificare soprattutto in casi di organizzazione congiunta di più amministrazioni ipotesi di lavoro a distanza che incrementando l’informatica e la condivisione tra sistemi, eviti lo spostamento fisico del lavoratore, soprattutto se ciò comporta difficoltà familiari come nei casi di donne, disabili, etc.;
- –l’utilizzodi tipologie di lavoro innovative, quali l’apprendistato per favorire l’assunzione di giovani qualificati con alte professionalità da inquadrare al termine del periodo nel livello apicale dell’area di riferimento; dando così un senso alla previsione dell’art. 52.1-ter del d.lgs. 165/2001;
- –l’introduzione della logica dei piani di razionalizzazione con attribuzione di una parte di risparmio alla contrattazione collettiva, anche per le politiche di miglioramento dei costi standard delle funzioni.
Si tratta di ipotesi che possono trovar spazio in un contratto normativo, soprattutto perché i maggiori costi di finanziamento della contrattazione integrativa sono compensati da risparmi e razionalizzazioni visibili e certificabili secondo le indicazioni della giurisprudenza della Corte dei conti.
E l’insieme, in un quadro di relazioni sindacali che non aspetti il ritorno al passato, ma si impegni a costruire il proprio futuro e quello del ruolo delle amministrazioni pubbliche nella nostra società.
Insomma, con il sistema di deleghe previsto dal disegno di legge delega del Governo Renzi si preannunciano – tra novità e semplificazioni – due anni di innovazioni legislative anche rilevanti, nelle quali però non si intravede un riequilibrio della funzione della contrattazione nei confronti della legge, rispetto alla riduzione di ruolo attuata dalla legislazione del 2009.
Potrebbe essere ancora di più l’occasione e il momento di scommettere su un contratto (anche solo normativo) che sia in grado di accompagnare e integrare la normativa legislativa secondo i parametri e i contenuti esposti prima e che serva anche a “riprendere tono e fiato” in vista della ripresa fisiologica delle vigenze contrattuali.
(*) Docente di Diritto del Lavoro